Il fuorisalone milanese all’insegna del concetto della metanoia
Il nuovo libro di Tiziana D’Acchille come vademecum per la Storia della Moda
I profumi che hanno fatto la storia: il dopoguerra
di Claudia Marchini
Nella scorsa puntata abbiamo parlato di Joy, la fragranza creata da Jean Patou nel 1929 come antidoto all’atmosfera di preoccupazione che si era creata a causa della crisi economica. La prima fragranza di cui parliamo oggi vide la luce nel 1946 per celebrare la fine della seconda guerra mondiale: si tratta di Le Roy Soleil della stilista Elsa Schiaparelli.
La particolarità di questa fragranza sta nella bottiglia, che fu disegnata nientemeno che dal grande Salvador Dalì e realizzata dalle cristallerie Baccarat in soli 2000 esemplari.
La bottiglia è stata pensata come un omaggio a re Luigi XIV e veniva presentata in un grande guscio di metallo. Il tappo rappresenta un sole e sormonta una roccia battuta dalle onde. Gli uccelli in volo, disegnati all’interno del disco solare, creano una prospettiva aggiuntiva e formano un viso trompe-l’oeil. Il nome Roy Soleil è stato scelto anche perché faceva eco a Place Vendôme, sede della Maison Schiaparelli, perché prima della Rivoluzione francese si chiamava Place Louis le Grand (e infatti una statua del monarca occupava in precedenza il posto dell’attuale Colonna Vendôme).
E a proposito di star e personaggi famosi che hanno apprezzato la fragranza, non possiamo non citare la famosa Wallis Simpson, nota al mondo per essere stata il motivo della rinuncia al trono da parte di Edoardo VIII. Come sappiamo, il fratello gli subentrò con il nome di Giorgio VI, lasciando a sua volta il trono a sua figlia Elizabeth, che a 96 anni ancora regna saldamente sul Regno Unito. Ma questa è un’altra storia…
Dicevamo: la Duchessa di Windsor, alla quale Elsa Schiaparelli aveva offerto un flacone del profumo, le scrisse: “Cara Madame Schiaparelli, è il flacone più bello mai realizzato, e il Roy Soleil è un gentiluomo molto persistene e dolce… Ha soppiantato la fotografia del Duca sulla coiffeuse!”.
Data la tiratura estremamente limitata, e l’enorme successo della fragranza che – nonostante fosse molto costosa andò letteralmente a ruba – vi sono ormai pochi esemplari dell’epoca che hanno ancora il jus al suo interno. Questo profumo veniva descritto come dolce, devastante, super-longevo, lussuoso, regale, ma purtroppo non è arrivato fino ai giorni nostri. Dobbiamo quindi limitarci ad immaginarla e se vogliamo vedere dal vivo uno dei flaconi originali possiamo visitare il Museo del profumo di Milano, che ne possiede un esemplare. Il Direttore del Museo, Giorgio Dalla Villa, ci ha spiegato che è molto difficile trovare un pezzo con ancora tutti i raggi del sole intatti: il flacone è infatti pesante e i raggi sono delicati, perciò in alcuni punti sono spezzati. (per info e prenotazione visite guidate: https://museodelprofumo.it, museodelprofumo@virgilio .it).
Ma altri profumi famosi sono stati creati nella seconda metà dagli anni Quaranta, proprio per celebrare la pace e il ritrovato ottimismo. Ormai i couturier sono entrati prepotentemente nel mondo della profumeria e impongono fragranze di carattere, per farsi notare. Parliamo per esempio di Miss Dior e Vent Vert (Balmain), creati nel 1947 e di Bandit e Fracas di Robert Piguet, usciti rispettivamente nel 1944 e 1948.
Il profumo Miss Dior fu introdotto sul mercato per il Natale del 1947, lo stesso anno del lancio della prima collezione firmata da Christian Dior, ed è stato creato da Paul Vacher.
La fragranza, imbottigliata in prestigioso vetro di Baccarat, reca il nome della sorella Catherine Dior. Il profumo è un tripudio di note floreali, di agrumi e patchouli con un sottofondo cipriato. La storia racconta che fu una segretaria dello stilista a dare lo spunto per la scelta del nome. Catherine era infatti irrintracciabile da alcuni giorni e attesa ad una riunione. Al vederla, la donna esclamò: “Oh, Miss Dior“, che venne quindi scelto come nome per la nuova fragranza!
Miss Dior arriva in profumeria accompagnata dal lancio della collezione “Corolle”, che consacra il mito del New Look. Il profumo viene vaporizzato nelle sale dell’edificio durante il défilé: una pubblicità che diede benefici al suo lancio nelle boutique.
Per Monsieur, che si auto definì “couturier-parfumeur“, il profumo doveva essere un “chypre d’eccezione sinonimo di amore ed eleganza assoluta“.
Gli altri 3 profumi di cui vi vogliamo parlare sono tutti opera di Germaine Cellier, primo “naso” donna della storia del profumo, soprannominata “enfant terrible”. In un mondo essenziero all’epoca dominato dagli uomini Lady Germaine appare come una figura di rottura, una fresca ventata di aria nuova. Dopo un’infanzia a Bordeaux e gli studi parigini Cellier lavora in realtà importanti come Roure Bertrand e Colgate-Palmolive prima di avvicinarsi all’incontro che le cambierà la vita con il grande artista Robert Piguet, stilista di Paul Poiret, uno dei primi e fervidi sostenitori della necessità del binomio moda-profumeria.
Nel 1944 vede la luce Bandit di Robert Piguet, che rappresentava un’idea di donna completamente nuova, dirompente e che rispecchiava un momento in cui le cose stavano davvero cambiando per l’autodeterminazione femminile.
Bandit rompe tutti i canoni ed è infatti considerato il primo profumo chypre-cuoiato della storia. Nell’apertura, accanto alle note agrumate e aldeidate, compare subito prepotentemente la sferzata verde del galbano. Gelsomino e patchouli donano al profumo un tocco esotico mentre il cuoio e il muschio di quercia creano una scia tenebrosa. Un profumo per donne moderne pronte ad affrontare le grandi battaglie sociali dell’epoca.
Era una nuova era, a cui nessuno era preparato, e questo si rifletteva anche nella sfilata stessa in cui venne presentato Bandit, dove le modelle, vestite da malvagi banditi con maschere nere, sfilavano tenendo in mano coltelli, brandendo revolver giocattolo e – si dice – persino rompendo bottiglie di profumo in passerella. Proviamo ad immaginare lo stupore e lo scandalo che deve aver provocato all’epoca!
Pierre Balmain intraprende gli studi di architettura a Parigi ma li abbandona molto presto per seguire la sua passione per la moda. Dopo la sua prima collezione, di gran successo, chiede a Germaine Cellier di creare una fragranza che rappresentasse “l’aria di libertà e cambiamento del dopo guerra”, che non somigliasse ai classici profumi fioriti di moda all’epoca, un bouquet di sentori sani e vivificanti della campagna. Nacque così Vent Vert.
Vent Vert è considerato il primo profumo “Floreale – Verde” della storia della profumeria e vide la luce nel 1947. L’elemento rivoluzionario nella composizione della Cellier era il galbano, una resina gommosa dall’odore molto caratteristico che aveva già sperimentato con Bandit e che qui viene utilizzata in vera e propria overdose.
E’ invece del 1948 il secondo profumo creato da Cellier per Piguet: Fracas.
Il lancio di questa fragranza è legato alla scandalosa collezione che Robert Piguet presenta nel 1948, suscitando scalpore per le sue idee audaci e sexy. Germaine Cellier vuole creare una fragranza che faccia sentire chi la indossa un vero “schianto”, immaginando una donna enigmatica che lascia una scia ammaliante di tuberosa. Note di testa di fiore d’arancio con un cuore misterioso di tuberosa, gelsomino e gardenia miscelati alla ricchezza del sandalo e alla delicatezza del muschio: Fracas è a ragione considerato LA fragranza di riferimento per chi ama la tuberosa.
La sua formula seducente e cremosa si fonde alla pelle della donna che lo indossa e la riscalda con la sua sorprendente alchimia. A differenza di tante fragranze tradizionali a base di fiori bianchi, Fracas è misterioso e sensuale: non per nulla, è uno dei profumi preferiti (se non il preferito) della star Madonna (che ha raccontato fosse anche il profumo di sua madre .
Ma non solo Madonna. Tra le star che hanno amato e continuano ad amare questo capolavoro ricordiamo Kim Basinger, Marlene Dietrich, Ava Gardner ( che pare lo abbia lanciato in viso a Frank Sinatra). Insomma, una fragranza imperdibile per non ama passare inosservata!
L’Aida di Anna Netrebko infiamma Verona
Dieci minuti di standing ovation hanno chiuso la rappresentazione dell’Aida di Giuseppe Verdi all’Arena di Verona. Sabato 16 luglio, in una serata prossima al sold out, è trionfare è stata Anna Netrebko nel ruolo della protagonista, la Celeste Aida figlia del re etiope Amonasro e schiava in Egitto. Carismatica in “Ritorna vincitor”, suadente in “O cieli azzurri” e poi ancoracombattuta e accorata nel tragico duetto con Amonasro e sensuale in quello con l’innamorato Radames, Netrebko ha saputo dominare la scena anche grazie all’intesa conYusif Eyvazov, suo compagno nella vita e sul palcoscenico. Lasciate al di fuori dell’anfiteatro romano le polemiche sull’utilizzo del “blackface”, il pubblico del 99° Verona Opera Festival è rimasto incantatodal ritorno in scena del soprano russa nell’opera regina dell’Arena.
Accompagnata da un cast di eccezione a iniziare daltenore Eyvazov nel ruolo del guerriero Radames combattuto tra l’amore per Aida e l’amore per la propria patria dal mezzosoprano Anna Maria Chiuri nel ruolo di Amneris, figlia del Re degli Egizi e sfortunata terza nel triangolo amoroso in scena. Applausi anche per Amonasro interpretato dal baritono Ambrogio Maestri che alterna la dolente supplica al Re degli Egizi con l’intransigente duetto con Aida, per il Re degli Egizi del basso Romano Dal Zovo e per il gran sacerdote Ramfis del basso polacco Rafał Siwek.
L’allestimento dell’Aida proposta dal 99° Verona Opera Festival è quello monumentale e faraonicofirmato, vent’anni fa, da Franco Zeffirelli che porta in scena un Egitto dorato, magnificente, prezioso, sovrabbondante, immaginario e sontuoso sovrastato da una colossale piramide e su cui vegliano gli occhi delle 14 sfingi e dei quattro idoli collocati sugli spalti e sulla scena. La scena monumentale e tradizionale, anche grazie ai costumi multicolori di Anna Anni e alle coreografie originali di Vladimir Vasiliev, restituisce la doppia anima dell’opera di Verdi solenne ed esotica in costante equilibrio fra l’intimismo dei duetti sottolineato da calibrati giochi di luce e la grandeur del trionfo e delle celebrazioni pubbliche come nell’invocazione a Fthà o nell’esortazione alla guerra. Amori, gelosie, passioni, vendette, drammi dilanianti, pentimenti e messaggi di pace tra popoli si alterano sul palco in una rappresentazione che non può che suscitare stupore e meraviglia tra gli spettatori. Non manca chi parla perfino di un allestimento hollywoodiano e di una “operazione esteticamente abbagliante” per questo allestimento dell’opera tratta da Verdi dal soggetto originale dell’egittologo Mariette e rappresentata in Arena fin dalle origini nel 1913.
Sul podio di Aida il Maestro Marco Armiliato, Direttore musicale del 99° Arena di Verona Opera Festival 2022, alla guida di Orchestra della Fondazione Arena e Coro preparato da Ulisse Trabacchin. Insieme al Ballo areniano coordinato da Gaetano Petrosino, oltre alla Akmen di Ana Sophia Scheller, fatale spirito guida creato da Zeffirelli appositamente nel 2002 (all’epoca per Carla Fracci), si confermano i due primi ballerini Eleana Andreoudi e Alessandro Staiano.
Si può dire quindi che l’Arena di Verona rimane il teatro migliore dove godersi l’Aida nella lunga stagione estiva. Da non perdere le prossime repliche: 24, 28 luglio (ore 21.00); 5, 21, 28 agosto (ore 20.45) e 4 settembre (ore 20.45).
Festa a Santiago e relax alle Isole Cíes
La Spagna vale sempre viaggio, in qualsiasi stagione dell’anno. Ma a luglio c’è una ragione in più per scoprire alcuni dei posti più suggestivi della Galizia, il cuore Spagna Verde. Mostre, balli, musica, concerti, rappresentazioni teatrali, spettacoli di danza, “gaitas” (le cornamuse tradizionali locali), immancabili bancarelle e fuochi di artificio scandiscono infatti il mese dell'”Apostolo” dedicato a San Giacomo.
Il patrono di Santiago de Compostela (ma anche della Galizia e del Paese) si celebra il 25 luglio e le feste e le manifestazioni artistiche in strada, nelle piazze e nei palazzi storici che costellano l’antico borgo, trasformano il capoluogo gallego in una città che non dorme mai. A Santiago il rito dell’Offerta al Santo e la cerimonia del botafumeiro, il gigantesco incensiere che oscilla lungo il transetto della cattedrale millenaria, si uniscono all’incredibile spettacolo di fuochi d’artificio che illumina, nella notte del 24 luglio, la facciata barocca della cattedrale di piazza dell’Obradoiro. Quest’anno poi si celebra l’Anno Santo , Xacobeo (prorogato per due anni a causa del Covid, per la prima volta nella storia millenaria della tradizione giubilare). Per il prossimo giubileo Xacobeo occorrerà attendere fino al 2027.E l’ottenimento dell’indulgenza plenaria percorrendo uno dei cammini (volendo il cammino inglese, è di “oli” 73 chilometri e parte da La Coruna), così come l’opportunità di attraversare la porta santa della cattedrale, sono solo alcune delle tante ragioni che quest’estate portano a Santiago di Compostela.
L’ideale è quello di concedersi almeno un fine settimana lungo, meglio ancora una settimana, per scoprire i tesori nascosti di questa città universitaria, inglobata da uno dei luoghi di culto più noti del mondo e le sue numerose delizie enogastronomiche dai frutti di mare magari accompagnati da un bicchiere di Albariño (un vino bianco fruttato), al “pulpo á Feira” (polipo con patate e paprika) fino ai “pimientos de Padròn”, peperoncini verdi fritti, serviti in una taverna tipica come la centrale O Gato Negro.
Secondo la tradizione l’apostolo Giacomo il Maggiore diede inizio alla evangelizzazione della Spagna sbarcando sulle coste della Galizia dove fu riportato, dopo il martirio, dai suoi discepoli. La tomba fu dimenticata per otto secoli quando Pelagio, un asceta, notò strani giochi di luce nell’area (campus stellare per l’appunto) che non potevano che indicare la tomba dell’apostolo. Ebbe quindi inizio la costruzione della maestosa cattedrale che ancora oggi domina la città proclamata patrimonio Unesco nel 1985.
Basta poi affittare una macchina e allontanarsi da Santiago di pochi chilometri per scoprire gli scorci selvaggi della Costa de la Muerte e Cabo Fisterra, dove gli antichi credevano che il mondo finisse.
Proseguendo poi verso Vigo, si raggiunge un paradiso dai sorprendenti colori caraibici dove ricaricare le energie immersi nella natura. A mezz’ora di traghetto dalla costa, le Isole Cíes, nel Parco Naturale delle Isole Atlantiche (insieme a Ons, Cortegara e Salvora), vantano acqua cristallina, lunghe distese sabbiose bianche, scogliere mozzafiato e boschi fitti di pini ed eucalipti. Antico rifugio dei pirati questo paradiso caraibico nell’Atlantico, è stato insignito nel 2007 del titolo di spiaggia più bella del mondo dal Guardian. E l’estate è l’occasione ideale per goderselo visto che le acque sono particolarmente… rinfrescanti. Tra Praia da Rodas, Figueiras, e Praia da Nosa Señora il tempo scorre fin troppo veloce, ma per godere di questo eden è necessario dotarsi di un permesso di accesso, gratuito, prenotabile anche on line in anticipo: le isole sono a numero chiuso (2000 circa al giorno), mentre il campeggio offre rifugio a sole 800 persone.
La magia de La Traviata incanta l’Arena di Verona
Emozioni e magia incantano le migliaia di spettatori seduti sugli spalti dell’Arena di Verona che si zittiscono improvvisamente quando i violini aprono il Preludio de La Traviata di Giuseppe Verdi nell’allestimento di Franco Zeffirelli, l’ultima sontuosa creazione firmata dal Maestro toscano che ha inaugurato il Verona ’Opera Festival del 2019. Un affresco sulla Parigi dell’Ottocento con un trionfo di colori, luci e costumi che portano lo spettatore subito nel cuore dell’opera più rappresentata al mondo. Lo spettacolo, diretto dal Maestro Marco Armiliato, direttore musicale del Festival, adatta il percorso intimo e psicologico di Violetta, travolta dall’inaspettata storia d’amore tanto da spingersi al sacrificio di sé, alla grandiosità degli spazi areniani con una scena ambiziosa su più livelli resa possibile da una colossale scatola scenica. Ancora poche repliche per uno spettacolo da non perdere: 22, 30 luglio (ore 21.00), 6, 20 agosto e 1 settembre (ore 20.45). Dopo occorrerà attendere l’estate del 2023 quando, per il Festival del centenario, sarà ripresa anche LA Traviata allestita da Zeffirelli insieme ad a altri sei titoli.
“Questa Traviata vuole essere un omaggio all’arte e alla tecnica di Zeffirelli, da parte di tutte le maestranze areniane, cui è richiesto un lavoro d’eccellenza. Come lui, inoltre, vogliamo credere nei giovani, e anche in questa produzione, accanto a stelle affermate, debuttano virgulti a cui auguriamo una carriera internazionale” racconta Cecilia Gasdia, Sovrintendente e Direttore Artistico di Fondazione Arena, ricordando come nel 1984 fu scelta proprio dal Maestro toscano come Violetta, ne La Traviata diretta da Carlos Kleiber, per poi aggiungere: “Da Sovrintendente, trentacinque anni dopo, è stato un onore per me poter affidare a Zeffirelli un nuovo allestimento e realizzare un sogno che coltivava dal 2008”. L’allestimento in scena de La Traviata “raccoglie l’idea originale di Zeffirelli, quel geniale flash forward che seguendo la musica di Verdi origina una storia d’amore fra le più belle di sempre, e la amplifica rendendola adatta all’unicità degli spazi areniani. Il tutto, grazie anche ai suoi collaboratori, nel segno della cura del particolare, anche nella scena più affollata, che contraddistingue l’opera sempre viva del Maestro. È stata lungamente, accuratamente preparata con lui e presentata al suo fianco nella primavera 2019. Ora la riproponiamo per la prima volta, rendendogli giustizia con un irripetibile cast di stelle” aggiunge Stefano Trespidi, vice Direttore Artistico.
Si inizia dalla fine, dal corteo funebre di Violetta, la Traviata il cui destino, evidenziato dalle note dolenti del Preludio, appare segnato fin da subito. L’irrompere dell’amore per Alfredo porta alla sorpresa, all’esplosione di gioia incontenibile, prima che venga chiesto e accettato il passo indietro per il bene dell’amato e quindi alla rinuncia e al riscatto. La storia è nota per un ruolo titanico che ha visto protagonista la giovane soprano armeno Nina Minasyan che ha dominato la scena commuovendo con grazia e delicatezza il pubblico dell’Arena che, a sua volta, le ha tributato una standing ovation. Lunghi applausi nella rappresentazione del 15 luglio anche il tenore Francesco Meli, tornato in Arena come Alfredo Germont e per il baritono Amartuvshin Enkhbat (già Nabucco) nel ruolo di Giorgio Germont.
Impreziosiscono l’allestimento i costumi creati da Maurizio Millenotti, le luci di Paolo Mazzon e le coreografie di Giuseppe Picone interpretate dal Ballo dell’Arena coordinate da Gaetano Petrosino e con i primi ballerini Eleana Andreoudi e Alessandro Staiano. L’Orchestra della Fondazione Arena e il Coro preparato da Ulisse Trabacchin sono diretti dal Maestro Armiliato.
I profumi che hanno fatto la storia: I RUGGENTI ANNI ‘20
di Claudia Marchini
Nelle scorse puntate abbiamo già parlato di due profumi iconici creati proprio in questo decennio: Chanel N°5 e Shalimar. Questa epoca, caratterizzata da un fenomeno di grande espansione industriale poi rifluito nei disastri della grande depressione del 1929 e del proibizionismo, ha creato mode e determinato tendenze, praticamente in ogni aspetto del costume e dell’arte del tempo. E la profumeria non fa ovviamente eccezione.
Dopo la fine della prima guerra mondiale la pace ritrovata inaugura una corsa sfrenata alla novità, al divertimento (a ritmo di Charleston) e allo sfarzo. I profumi anni ‘20 diventano beni di lusso. Abbiamo visto come la passione per l’Oriente portò alla creazione dei primi profumi cosiddetti “orientali”, con Shalimar grande precursore.
Le donne, che sono diventate più emancipate, richiedono freschezza, dinamismo e novità. E qui entrano in campo le aldeidi, molecole sintetiche che danno la sensazione delle bollicine nello champagne. Chanel N°5 – come sapete – è considerato il capostipite della famiglia degli “aldeidati”, in cui troviamo anche Arpège di Jeanne Lanvin creato da André Fraysse nel 1927.
Si racconta che Jeanne Lanvin volesse fare un bellissimo regalo all’amata figlia, Marguerite, per i suoi 30 anni: voleva regalarle il più bel profumo del mondo, e per questo mise a disposizione un budget illimitato per poter utilizzare le migliori materie prime. Il risultato fu un profumo meraviglioso (non per nulla è considerato tra i migliori profumi femminili di tutti i tempi, insieme a Chanel N°5 e Joy), una fragranza fiorita e fruttata a base di rosa bulgara, iris florentina, gelsomino e mughetto che lascia una scia di sandalo, tuberosa, vaniglia e vetiver.
In cambio, la stilista chiese alla figlia di dare un nome a quella nuova fragranza Lanvin. Essendo lei una cantante d’opera, optò per la parola “Arpège” (arpeggio), perché il profumo le sembrava proprio un arpeggio di aromi.
Il falcone in cristallo nero, disegnato dall’architetto Armand Albert Rateau e decorato da Paul Iribe, rappresentava le forme di una mela, sul quale era ritratto il logo di Lanvin, che rappresenta la stessa Jeanne Lanvin insieme alla figlia. Sia la bottiglia, che la sua confezione, in origine erano di una particolare tonalità di blu, il cosiddetto “blu Lanvin”, inventato dalla stilista e presente in molte delle sue creazioni.
Fra le star che lo hanno amato particolarmente possiamo citare Jayne Mansfield, Martha Stewart, la Principessa Diana, Grace Kelly e Rita Hayworth
Inizialmente nel 1993 e poi nel 2006 Arpège ha subito una riformulazione e ciò lo ha reso più moderno e di conseguenza amato anche dalle nuove generazioni, grazie al suo bouquet di oltre sessanta fiori.
(la confezione attuale)
La storia della Maison Lanvin – che è la casa di moda più longeva al mondo – e della sua fondatrice Jeanne è affascinante ed emblematica….ma ci vorrebbe un intero articolo per parlarne e non abbiamo tempo, perché vi dobbiamo ancora presentare un altro Giovann*: Jean Patou ! Ma chi era Jean Patou? All’epoca, il fondatore dell’omonima casa di moda era considerato l’uomo più elegante d’Europa, un vero Dandy degli anni ruggenti.
Dicevamo più sopra che l’euforia che caratterizza ogni aspetto di questo periodo storico si spegne con la crisi economica del 1929. Il crollo delle borse aveva dato un durissimo colpo alle finanze dei numerosi e facoltosi clienti americani di Jean Patou. Per superare la crisi il couturier sognava una fragranza lussuosa come antidoto alla sfortuna. Patou chiese quindi al naso Henri Alméras di creargli un profumo. Alméras gli propose una fragranza composta dalle più preziose essenze di rose e gelsomino, spiegando però allo stilista che in questo modo la fragranza sarebbe stata molto costosa.
Patou aveva trovato il suo profumo, quello a immagine della haute couture; tanto che decise addirittura di raddoppiare la concentrazione della fragranza. Era nato il profumo più costoso al mondo (lo stesso stilista scherzò al riguardo prevedendo per l’appunto che sarebbe stato il profumo più costoso mai esistito). Per realizzarne solo 30 ml sono infatti necessari ben 10.000 fiori di gelsomino e 28 dozzine di rose!
Il jus contiene anche note di ylang ylang e tuberosa, su un fondo di zibetto e muschio. Il risultato è un profumo intenso, ipnotico, inebriante e persistente. Impossibile da ignorare.
Originariamente il flacone di Joy fu creato dall’architetto ed artigiano francese Louis Süe, che realizzò una bottiglia dalla forma volutamente semplice e classicheggiante. Successivamente ne fu ripresentato un flacone di cristallo realizzato da Cristalleries de Baccarat (a sua volta riprogettato da Verrières Brosse).
Nonostante il prezzo elevatissimo, Joy ebbe subito una enorme fortuna, proprio per il messaggio di positività che voleva dare, per il suo voler essere un antidoto alla povertà e alle difficoltà di quel particolare periodo.
Tra le star che lo hanno amato ci sono Josephine Baker e Jacqueline Kennedy. Come resistere d’altronde alla scia travolgente del suo effluvio ? In fondo, aspiriamo un po’ tutt* ad essere indimenticabili …
Sport nella natura e shopping a Livigno
In questi giorni bollenti, il richiamo di Livigno diventa irresistibile. Natura selvaggia, shopping e innumerevoli possibilità di escursioni sia per gli sportivi veri che per i “divanisti” che si scoprono sportivi solo qualche settimana all’anno, in estate.
Una ciclopedonale di 17 km, sentieri in quota che raggiungono malghe isolate dove gustare un piatto di sciatt (Malga Federia) e bike park adrenalinici con percorsi downhill e freeride dai diversi gradi di difficoltà (a iniziare dal Bikepark Mottolino). Per gli amanti della bici, Livigno è un paradiso. Le due ruote, anche a pedalata assistita, doni il mezzo ideale per scoprire i percorsi mappati con gps che si snodano nell’Alta Rezia. Non mancano eventi internazionali (come la Nationalpark Bike Marathon), bike camp e itinerari gaudenti (Beer Bike Tour del Birrificio Livigno). Non solo. Ai biker sono stati dedicati anche hotel con servizi su misura come l’Hotel Concordia che, in pieno centro, permette al rientro dalle escursioni di godere della dolce vita del Piccolo Tibet, concedendosi uno spritz nelle vie dello shopping con oltre duecento negozi taxi free prima di rigenerarsi nella spa della struttura.
Per chi non ama le due ruote non mancano le alternative a iniziare dalle lunghe e oziose passeggiata nei boschi affacciati su Livigno come il Sentiero dell’Arte (Wood’n’Art), una galleria d’arte a cielo aperto costellato da sculture in legno realizzate da artisti internazionali nel corso degli anni, o il Larix Park dove tra gli arbusti secolari, prendono vita nove percorsi avventura di diversi livelli: carrucole, liane, passerelle, anelli oscillanti e ponti nepalesi per “volare” da un albero all’altro, divertendosi in piena sicurezza.
Merletti e miniere in Slovenia
Non solo terme e foreste. In Slovenia, crocevia di popoli e culture, non manca un patrimonio artigianale e d’impresa storico, tutto da scoprire. Come a Idrija, nella Carniola, un borgo immerso in una natura rigogliosa che è un inno all’eredità del mercurio, riconosciuta nel 2012 patrimonio Unesco.
Le leggende locali narrano che l’argento vivo venne alla luce nel 1490 da un artigiano, uno skafar (fabbricante di vasche di legno) che, intento a lavare i propri mastelli, scoprì una sostanza scintillante e inaspettatamente densa, il mercurio. Nei cinquecento anni successivi la miniera ha concorso a influenzare lo sviluppo culturale ed economico del paese con la costruzione di un teatro, del castello di Gewerkenegg innalzato nel 1533 come sede amministrativa della miniera e di scuole d’avanguardia, compresa quella del ricamo dove si insegna il ricamo a tombolo (riconosciuto patrimonio immateriale dell’Unesco) ininterrottamente dal 1876, a bambini, adulti e anche ai turisti.A portare il ricamo in questo piccolo borgo della Carniola circondato da altopiani, sarebbero state, secondo la tradizione, le famiglie dei minatori confluite per cinquecento anni da ogni dove per lavorare in una delle più grandi miniere di mercurio al mondo che, nel corso dei secoli, ha concorso a trasformare e arricchire la città.
Muniti di giacca ed elmetto, attraverso lo storico ingresso della Galleria Sant’Antonio (Santo dei minatori) sormontato dalla scritta “Srečno” (buona fortuna), si accede un labirinto sotterraneo di 700 chilometri di gallerie, solo in parte visitabili, per scoprire il lavoro e la vita dei minatori nel corso dei secoli.
Un piatto di Idrija žlikrofi, pasta ripiena di patate, erbe e ciccioli (a cui è dedicato un festival annue che quest’anno si tiene il prossimo 20 agosto) da Gostilna pri Skafarju ripaga della fatica, ancora di più, se accompagnato dalla torta di rezi, mousse di frutti di bosco incoronata da un merletto di zucchero in cui si racconta di come una goccia di mercurio sia diventata una città.