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Andrea Annecchini: siamo tutti come Gerbere in Dicembre

Gerbere in Dicembre, il terzo singolo estratto dall’album Apri gli occhi è fuori dall’8 febbraio 2021, edito da GNE RECORDS di Giancarlo Prandelli. Il singolo di lancio “Anime a metà”, dopo le nomination per la finalissima di Sanremo Music Awards 2019 ne aveva conquistato il podio come miglior brano dell’anno.

Gerbere in dicembre è stato scritto da Andrea stesso, insieme al produttore Giancarlo Prandelli, parla di solitudine, depressione ed emarginazione utilizzando una metafora molto forte: siamo tutti gerbere in dicembre, in attesa della rinascita, della primavera.

Il videoclip riprende con essenzialità, con una comunicazione diretta ed immediata, questa tematica: tutto ciò che si vede sono due personalità narranti, che sembrano fluttuare in un ambiente asettico, davanti a una lampadina che simboleggia il risveglio dallo stato di torpore dell’anima, mentre la valigia è simbolo del carico di cui bisogna liberarsi per dar voce piena alla propria essenza e natura (https://youtu.be/09EGNWCQGZY )

Abbiamo chiesto all’artista qualche dettaglio in più.

Come nasce l’idea di Gerbere in Dicembre?

Gerbere in Dicembre, cantata insieme al mio produttore, autore e compositore, il maestro Giancarlo Prandelli, è un riferimento chiaro a come i rapporti malati e le persone negative ci abbattano, alimentando depressione e ansia. Al contempo sottolinea anche il fatto che questi stadi emotivi sono generati da noi stessi a volte, poiché siamo noi a aprirci troppo agli altri, quando bisogna invece “allontanarsi da chi è diverso da noi”, come recita il brano, lanciando il consiglio di affrontare i rapporti con parsimonia e riflessione, perché dandoci subito rischiamo di diventare facile preda di chi trova più facile prendere che donare.

Queste persone, di cui spesso sono stato vittima anch’io, devo dire, sono state da scuola per me, mi hanno aiutato a forgiare la mia forma mentis. Vorrei quindi semplicemente mettere in guardia su quanto sia importante tutelare se stessi, evitando di donarsi troppo subito.

Da dove trai la tua ispirazione per scrivere musica?

Più viaggio, conosco persone, vivo nuove esperienze, anche paradossali, e più trovo ispirazione. Secondo me, per essere un buon cantautore, viaggiare e sperimentare molto sono fattori estremamente importanti. Infatti questo periodo di fermo imposto dalla pandemia non è stato, al contrario di come si potrebbe pensare, costruttivo per la creatività. Bisogna vivere per scrivere e suonare, non c’è altra via.

Hai collaborato e scritto con diversi artisti. Con chi altri ti piacerebbe collaborare?

Sono numerosi gli artisti per cui provo tanta ammirazione e adoro la collaborazione in generale perché credo che la musica espressa insieme abbia una marcia in più, un’energia magica. Ma se dovessi scegliere sarebbe bellissimo poter condividere i miei lavori e testi con artisti del calibro di Elisa, Brunori SaS, Ex-Otago, Coez e Levante, giusto per citarne alcuni.

Come è stato lavorare con artisti giovani come Richi Sweet? E con il tuo produttore Giancarlo Prandelli?

Lavorare con realtà giovani in generale è sempre un elemento di crescita, abbiamo tanto da imparare da loro, i giovani sono il futuro e anche nella musica il loro sentire di innovazione è una grande spinta per noi, una guida per osare.

In Giancarlo Prandelli ho trovato un grande insegnante: mi ha spinto a credere di più alle mie capacità, a non temere il giudizio. Ha reso le mie idee più moderne e soprattutto mi ha aiutato a sperimentare di più.

Progetti in cantiere?

Sicuramente nei prossimi mesi mi dedicherò alla costruzione di un nuovo album. Prima però partirò per il Sud America con questo album, appena ci sarà possibile spostarsi, infatti sto ricantando i brani in lingua spagnola: viaggiare è sempre stato un desiderio che finalmente potrò realizzare.

La vittoria dei Sanremo Music Awards mi vedrà partecipare, spero presto, alla via musicale della seta, 25 date in varie capitali europee e asiatiche; durante la manifestazione dei SMW, proporrò la mia musica per arrivare a Pechino e non vedo l’ora che questo accada.

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Andrea Annecchini
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L’omaggio alla Natura di Fabio D’Amato: Power

E’ fuori dal 15 Dicembre Power il nuovo singolo di Fabio D’Amato , dal 18 anche il videoclip, di grande impatto emotivo, in anteprima Sky Tg24 https://tg24.sky.it/spettacolo/musica/2020/12/15/power-fabio-damato-video , è disponibile sul canale YouTube del compositore(https://youtu.be/69-52HgOCVs).

Girato in Indonesia del talentuoso regista Doni Rawan, come un film racconta il viaggio di un uomo (Agus Triawan) alla ricerca di un contatto con l’essenza della Natura, vista nella sua massima espressione di forza ed energia, di potere che si esprime sia nel bene sia nel “male”, abbiamo chiesto a Fabio come è nata l’idea di questo progetto particolare.

Cosa o chi ha ispirato la composizione di Power?

Power è un brano arrivato così, naturalmente : stavo guardando un documentario, mi sono affacciato dalla finestra di casa mia e percepivo di fronte a me l’immensità della natura, la sua forza la sua bellezza, il suo potere su noi esseri umani, così mi sono messo di fronte al mio fidato piano e sono uscite le prime note.

Nel video è presente l’attore Agus Triawan che cerca di rappresentare l’essere umano di fronte al potere della Natura, l’uomo che interagisce con la Natura, ma che in fondo non può nulla contro di essa quando si ribella oppure o mostra la sua potenza. La forza della natura non è domabile, la si percepisce ogni volta, ma non è controllabile, a volte sembra ammonire l’uomo ricordandogli la propria forza Power, ma anche che il mondo andrebbe trattato meglio evitando così catastrofi.

Con Doni Rawan, regista indonesiano, è stato davvero un grosso piacere collaborare: è stato bravissimo a cogliere tutti i messaggi e le sfumature del brano per riversare completamente a sync le immagini sulle note.

Cosa rappresenta la Natura per te?

La natura rappresenta per me davvero tanto, è in fondo il mondo nel quale viviamo anche se spesso la nostra vita è segnata dalla tecnologia, pc , smartphone,…

La Natura è sempre lì, è sempre iì pronta ad accoglierci, basterebbe solo ricordarsene.

Gli animali e tutti gli esseri viventi vanno rispettati, io nel mio piccolo cerco di fare il possibile, sono 7 anni ad esempio che sono vegetariano per cercare di fare qualcosa di concreto per tutte le creature del pianeta, se ami non li mangi.

Ti sei definito un “trascrittore di emozioni in note”. La musica quindi per te è un linguaggio?

La musica è assolutamente linguaggio universale: il bello della musica è che non ha età, non ha necessariamente una sua lingua, non ha sesso, non crea discriminazioni, semplicemente esiste per farci compagnia, per farci innamorare, per farci emozionare e ricordare… perché la musica ha quel potere, come un profumo, appena senti le note di un brano a te caro ti vedi proiettato direttamente a quel ricordo, bello o brutto non importa, quel ricordo appare subito come un film e ti riporta alle stesse emozioni vissute.

Progetti futuri?

Sto pensando all’uscita del mio terzo album che andrà un po’ a raccogliere i tanti singoli usciti, e sicuramente uscirò con altri brani perché ho sempre voglia di comunicare.

Continueranno anche le collaborazioni con altri artisti in vari campi, perché credo che la collaborazione possa apportare sempre un valore aggiunto alla creatività. Continuerò a scrivere canzoni, perché mi piace raccontare attraverso anche l’uso delle parole e testi. Ci sono sempre gli spot che amo musicare insieme a video o cortometraggi. Sono ovviamente sempre aperto a progetti nuovi.

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Toni Veltri e la sua Verona: magica, in note e immagini

Verona” il nuovo singolo di Toni Veltri, è fuori dal 11 Dicembre e in radio dal 14 Dicembre. Il video, girato in un’insolita Verona deserta, dalle abili mani di Carlo Neviani e dalla troupe di Davide Franzoni (noto Regista nazionale della Image mix 35), dopo l’anteprima esclusiva del 16 dicembre sul sito del MEI (http://meiweb.it/2020/12/16/in-anteprima-esclusiva-sul-meiweb-il-nuovo-video-di-toni-veltri-dal-titolo-verona/) è finalmente fuori, nel canale YouTube dell’artista https://youtu.be/8Rggs209XyU

L’artista italo-belga, vanta importanti collaborazioni Gianluca Grignani, Michele Zarrillo, Umberto Tozzi, Toto Cutugno, Antonello Venditti e riconoscimenti prestigiosi conseguiti nel corso della sua carriera artistica, tra cui ricordiamo il premio per miglior brano inedito al concorso Emozioni Live 2020, tenutosi presso il Teatro Del Casinò di Sanremo in onore di Lucio Battisti e  in onda sulle reti Mediaset (Rete4, Tgcom24, La5) e Sky (Tv Moda).

Come è nata la tua passione per la musica?

È nata insieme a me. Son cresciuto con tanta musica è mi son sempre emozionato grazie alla musica,  fin da bambino. Lucio Battisti è stata la mia massima fonte di ispirazione, è grazie alla sua musica che ho capito cosa avrei voluto fare da grande: l’artista.

Qual è stata l’esperienza musicale più significativa per te, fra quelle vissute finora?

Son state tutte importanti. Mi hanno insegnato tutto quello che oggi so, non posso dimenticare tutte le mie collaborazioni e aperture di artisti famosi, particolarmente con Gianluca Grignani, cantare in duetto con lui è stato davvero emozionante.

Com’è nata “Verona”?

“Verona” rientra nel filone Indie/Pop con sperimentazione vocale tra la Trap, l’RNB e il POP. E’ stato arrangiato dal Maestro Giancarlo Prandelli con la collaborazione di Massimo Galfano, io stesso ho voluto prendere parte attivamente a  tutte le fasi di produzione, arricchendo il percorso creativo con le mie sensazioni ed emozioni.

L’idea è nata proprio nella città di Verona, dove ero in giro con un amico  tra gente che ballava, artisti che cantavano, famiglie che passeggiavano per le vie: una notte magica. Eppure, in pochi minuti,  mi ha assalito una sorta di malinconia, di malessere un sentimento che mi è rimasto dentro per un po’.

Verona è nata da quell’esperienza, è un dialogo con la città da cui traspare tutto il tormento di questo momento difficile, di una società senza certezze.

Abbiamo voluto poi tradurre in immagini il sentimento di quella notte… la nostalgia, la mancanza, da qui è nato il video: un omaggio a una città fantastica, Verona di notte è uno spettacolo. Il video è stato girato di notte in una città deserta,  nel freddo di fine ottobre, dal bravissimo Carlo Neviani e dalla troupe di Davide Franzoni (Regista di fama nazionale della Image mix 35). Le immagini esaltano tanti dettagli magici: dall’Arena e piazza delle Erbe, fino alla famosa collina dalla quale si scorge l’Adige, i castelli e le mura.

Che progetti hai per il futuro?

In questo momento stiamo lavorando al nuovo Album e progettando concerti è forse una tournée, Covid permettendo ovviamente. Insomma, abbiamo tanti progetti che ci impegnano, ma non voglio anticipare troppo.

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Richi Sweet e il suo album d’esordio: Resurrezione

“Dedicata a me” è il singolo di lancio di “Resurrezione”, l’album di esordio di Richi Sweet, un brano che gli è valsa la partecipazione a Sanremo Giovani 2020 con un tema molto attuale: l’alcolismo e la sua ingannevole capacità di far sentire i giovani parte di un gruppo.

Numerosi sono i contenuti autobiografici che costruiscono il percorso narrativo dell’album, uno story telling che diviene una sorta di favola moderna, in cui si inseriscono nella loro varietà esperienze e sentimenti vissuti da Richi nel corso della sua giovane vita, a partire dall’adozione – è nato in Brasile ed è stato adottato da una famiglia italiana di Modena – al bullismo e le violenze subite, dai primi incontri con la musica ai successi; traumi e paure che sono diventati punti di forza e d’ispirazione per mettersi dalla parte di chi è percepito come “debole”, “diverso”. Conosciamo meglio questo giovanissimo artista, che già dimostra di aver tanto da dire.

Parlaci un po’ di “Dedicata a me” e del suo video

“Dedicata a me” parla di alcolismo, un male subdolo che si maschera da aggregatore, per farti sentire accettato e parte di un gruppo. Parla anche della determinazione di uscirne con le proprie forze, è un grido di protesta, oltre che una serenata “dedicata a me” stesso, appunto.
Il video (https://youtu.be/x9czYG9o9yQ) mi rispecchia molto: lo abbiamo girato a Sirmione (BS) ed il regista, Federico Folli, alterna diverse scene in cui mi si vede “discutere” con il mio alter ego. Devo dire che questo duplice ruolo mi è venuto spontaneo, perché, come dico sempre, “Non ho nemici, l’unico che ho, sono proprio io.”

E dell’album cosa puoi dirci, perché il titolo “Resurrezione”?

“Resurrezione” perché metaforicamente e spiritualmente parlando, sono morto e risorto un sacco di volte in questi miei 25 anni di vita. I miei sentimenti ed esperienze nell’album trovano piena espressione, soprattutto in brani autobiografici come “Non è questione di colore” o “Dedicata a me”, ma anche  l’amore ricorre nei testi dell’album ed esplode ne “La bella e la bestia”, “Ciao” e “Tulipano”. “Balotelli e Raffaella Fico”, “Kurt Cobain”, “Elisa” e “Forse non hai capito” sono invece i brani che esaltano stili di vita estremi che rendono meno monotona la vita quotidiana, o tematiche di carattere più sociale,  i social e soprattutto il razzismo e la difficoltà di inserimento.

Nei tuoi brani parli di temi attuali, razzismo, bullismo, come mai ti stanno tanto a cuore?
So cosa vuol dire essere giudicati o bullizzati, già dalle scuole elementari ero considerato “diverso”, ero sempre isolato in un angolo, quando i miei genitori chiedevano spiegazioni l’insegnante rispondeva “vostro figlio è diverso”. Addirittura alle scuole medie volevo cambiare colore di pelle, come se fosse un difetto.

Per questo motivo mi sta a cuore particolarmente il tema: sono dalla parte di chi è considerato un “debole” o un “perdente”, capisco cosa voglia dire essere emarginati, quanto questo può segnare una persona, ho subito bullismo fisico e Cyber Bullismo, ovviamente ci sono alcune scene che preferisco non raccontare.

Scrivi testo e musica da solo?

Solitamente scrivo i testi da solo, ma per la realizzazione di questo mio primo album sono stato aiutato dal mio discografico, Giancarlo Prandelli (GNE Records di Brescia). Nei brani, “Tulipano” e “Forse non hai capito”, per esempio, prevale la sua scrittura.

Stai già lavorando al prossimo progetto?

Questa situazione Covid mi ha bloccato da una parte, ma dall’altra mi ha ispirato tanti brani che sentirete in futuro, perché vengo ispirato di continuo da quello che vivo quotidianamente. Inoltre scrivo tanto, scrivo ogni giorno, quindi di materiale per il futuro ce n’è moltissimo.

Ph. Mario Ugozzoli

INSTAGRAM: https://www.instagram.com/richisweetofficial/
RESURREZIONE:
https://backl.ink/143280768
Dedicata a me:
https://youtu.be/x9czYG9o9yQ




Silver
: Power of Love, un appello all’impegno per un mondo migliore

Dopo il successo del singolo “Let me fall in love”, che ha sfiorato il milione di views su YouTube, arriva “Power of love” con un videoclip originale, ricco di positività e di speranza.  Un brano scritto da qualche anno, in collaborazione con Giancarlo Prandelli (GNE Records), ma straordinariamente attuale, con un testo denso di significato, che vuol essereun appello all’impegno di tutti, per un mondo migliore da costruire liberando il potere che è dentro ognuno di noi: il potere dell’amore, arma vincente ed universale. Dopo il quarto posto ad X Factor  nell’edizione vinta da Marco Mengoni, con cui era in squadra, l’artista bergamasco ha portato avanti  il suo progetto con determinazione e costanza, coltivando la passione per la musica in molteplici ambiti, dalla conduzione di programmi televisivi come VeeJay, all’attività di giornalista musicale, dalla partecipazione a programmi TV fino. Al suo attivo album (SILVER) e numerosi singoli e live con grandi nomi del panorama musicale italiano (Morgan, Francesco Facchinetti, Alberto Fortis, Eugenio Finardi, Angela Brambati, Cormac de Barra, Vladimir Luxuria, Mal, Andy Fluon, Mirko Casadei e tanti altri). 

Abbiamo chiesto a Silver di raccontarci qualcosa in più del suo progetto e dei programmi  futuri.

Parlaci un po’ di questo nuovo singolo, “Power of love” …

“Power of love”, dopo la ballad romantica in inglese “Let me fall in love”, segna un ritorno ai temi sociali, all’attualità. Il brano, nonostante sia stato scritto qualche anno fa, è davvero molto attuale,  avrei potuto scriverlo proprio in questo momento storico: un fiume di parole che culminano nello slogan ‘Power of Love’, un  “grido universale” che occorrerebbe porre al centro di tutto.
Il brano era stato selezionato per Sanremo Giovani, tra i 66 finalisti, mi sono esibito live davanti a Baglioni negli Studi Rai di Roma, ma immediatamente dopo è arrivata una comunicazione della Rai secondo la quale il brano risultava edito, quindi “irregolare”. Nonostante non si sia mai chiarito l’accaduto, la mia esclusione è risultata definitiva.

E poi l’uscita è stata ancora rimandata, dalla primavera all’autunno per la pandemia…
Eh sì, questo singolo sembra avere un percorso travagliato!  Abbiamo rimandato all’autunno l’uscita, ma è stata anche una occasione per ideare una iniziativa di successo: in giugno,  abbiamo creato uno spot per i social, con immagini selezionate dai miei precedenti videoclip e associato ad un messaggio di speranza, una esortazione a premere “Play” e ripartire tutti  insieme, dai sentimenti e dagli affetti veri. Numerosi fans, ma anche amici e colleghi, hanno partecipato con entusiasmo inviando i propri video realizzati con il cellulare, che riprendono l’evento per loro più significativo  dopo il lockdown: il primo momento in cui si è tornati ad abbracciare qualcuno o qualcosa che era mancato. Il risultato è stato molto emozionante, i video sono stati inseriti dentro una cornice, una mia ideale passeggiata per il centro di Bologna (regia di Riccardo Sarti in collaborazione con Carlo Montanari per la direzione  artistica e post produzione e con Gianluca Battilani per la color (https://youtu.be/Oq3x2HOkB9A).

Il tuo nuovo singolo contiene un messaggio attuale, quali sono i tuoi timori e le tue speranze in questo difficile momento?
Oggi, ma già da tempo prima della pandemia, sembra che l’unica cosa importante sia il proprio “IO”, i termini di solidarietà e condivisione sembrano perdere sempre più significato.

Credo molto nella forza dell’amore, quell’amore che avvolge tutto e tutti e che è indispensabile per non perdersi nel caos che sta travolgendo l’umanità. La mia speranza è questa, che l’amore vinca su odio, rabbia, individualismo e ci permetta di ricostruire un mondo migliore. Sta ad ognuno di noi impegnarsi per farlo, come dico in “Power of love”: “c’è bisogno di te!”, c’è bisogno di ognuno di noi, nessuno può sollevarsi da questa responsabilità che ci tocca in prima persona…

Cosa temo di più? In questo momento, particolarmente, la questione del distanziamento forzato tra le persone, che passa attraverso l’impossibilità del contatto, di abbracciarsi, soprattutto per quanto riguarda i più giovani: la difficoltà di svolgere attività condivise, di supportarsi reciprocamente, di scambiarsi  perfino una penna, una merendina. Un distanziamento che va ben oltre quello “fisico”, che potrebbe creare abitudine, condizionamento, rappresentando un rischio enorme per il futuro, poiché potenzialmente si potrebbero apportare gravi danni allo sviluppo personale e comportamentale di bambini e ragazzi.

I tuoi prossimi progetti musicali?
Stiamo pianificando l’uscita di un  nuovo singolo;  ho scritto molto in questo periodo, sia in italiano che in inglese, e  sto continuando a scrivere. Cerco di tenermi attivo ed in contatto con i fans, organizzando qualche diretta live, come già fatto nei mesi di quarantena insieme ad altri artisti e amici (Antonio Maggio, Alberto Fortis, Andy Bluvertigo, Gianna Tani, Nick Casciaro). 

E’ assolutamente necessario trasmettere messaggi positivi e di speranza, in attesa del  ritorno alla normalità, a una libertà che sia di nuovo parte integrante della nostra vita.

Foto Chiara Sardelli

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Cento docce fatte male – perché non è mai troppo tardi!

di Claudia Marchini – “Fermo lì, nel fango, con il sole spietato di agosto che sembrava voler sciogliere come cera ogni cosa, soprattutto la sua pelle, con la polizia che avanzava verso di lui e la gente di fronte a spingere, urlare, esaltarsi in una folle danza distorta dalla calura, si chiese quando tutto fosse iniziato”.

Inizia così Cento docce fatte male, il nuovo romanzo di Laura Manfredi edito da Morellini, con i due protagonisti di questa divertente e al contempo commovente storia in piedi sotto al palco del più grande raduno di musica Heavy Metal del mondo, imbrattati di fango e in fuga dalla polizia che li cerca.

Niente di particolarmente strano, direte voi. Senonché i due protagonisti – Pietro Boccamara e Mario Incantalupi – sono due vecchietti quasi novantenni scappati due giorni prima dalla casa di riposo in Provincia di Pavia di cui sono ospiti. Uno, il Boccamara, è un uomo rancoroso, sempre arrabbiato con tutto e tutti, muto selettivo, un contadino che non è mai uscito dalla valle del Pavese in cui è nato e vissuto. Attende la fine dei suoi giorni in un tran tran sempre uguale, nascondendo un segreto e un dolore troppo grandi per essere espressi a parole. E perciò, non parla.

L’altro, l’Incantalupi, è tutto l’opposto: scrittore di gran fama, giramondo, omosessuale pieno di vita e allegria. E’ diventato cieco da poco e quindi decide di farsi rinchiudere in una casa di riposo, convinto di non poter ormai godere più della vita come faceva un tempo. Ma un articolo di giornale che parla del raduno metal di Wacken risveglia la voglia dell’Incantalupi di fare nuove esperienze, e cerca quindi di convincere il riluttante Boccamara a scappare con lui: “Secondo lei, è meglio farsi una doccia di merda, fatta male, in questi lugubri cessi azzurrini, con il loro getto timido e tiepido, tutti i santi giorni, con una saponetta di merda, oppure è meglio lerciarsi come maiali per una settimana e poi chiudersi in una benedetta spa o che so io e farsi grattar via lo sporco a suon di massaggi con oli profumati e lozioni miracolose? Ecco, si chieda questo. Se per lei la risposta resta: “Meglio cento docce fatte male che una giornata in una spa dopo qualche giorno di sporcizia”, rimanga pure sulla sua poltrona. Di certo non la porterò via di peso, stia sicuro”.

In fuga verso la Germania, i due saranno affiancati da un professore di Prato che sta scappando dalla moglie fedifraga e da due adolescenti hikikomori – quei giovani che decidono di chiudersi in camera loro e non avere più contatti con il mondo esterno – anch’essi alle prese con paure e drammi tipici della loro generazione. Per non parlare degli altrettanto deliziosi personaggi di contorno, dalla direttrice della casa di cura all’infermiera Celestina, dal commissario Bonaccia alla pittoresca signora Ciufoli.

Va letto con cura, Cento docce fatte male, perché pieno di spunti di riflessione sull’animo umano e sulla nostra società: chi si rinchiude nel mutismo e chi invece fa la farfalla di fiore in fiore in fondo forse nascondono lo stesso senso di inadeguatezza e lo stesso senso di colpa per aver abbandonato chi si amava; è forte il pregiudizio che circonda la terza età, come se ad un certo punto bisognasse rinunciare a vivere appieno; e anche quello che dopo una certa età si debba rinunciare all’amore; fino alla consapevolezza che non è mai troppo tardi per prendersi una rivincita sul destino o sull’età.

Perché vale sempre la pena di vivere.

Un romanzo accattivante, ispirato ad una storia vera, che tocca tutte le corde del nostro animo e che vi consigliamo assolutamente per le vostre letture estive! E per immergersi fino in fondo nel mood della storia, potete ascoltare la playlist metallara (ma non troppo) creata appositamente su Spotify dall’editore: https://open.spotify.com/playlist/0f3SqQFAedpHaj7UEMe5JQ




L’arte che non è più arte, cos’è?

di Silvia Ferrari Lilienau – La storia è nota: alla recente fiera di arte contemporanea Art Basel di Miami, Maurizio Cattelan espone una banana (il titolo è Comedian) attaccandola con nastro adesivo alla parete dello stand; poco dopo l’artista americano David Datuna la stacca e la mangia mentre viene ripreso da numerosi cellulari del pubblico presente. Datuna viene allontanato, Cattelan non si offende, della banana – si garantisce – esistono altri due originali. In ogni caso, il valore della banana di Cattelan è di 120.000 dollari.

Ora, da più parti si sono ricordati i precedenti che legittimano una simile operazione, dalla Merde d’Artiste di Piero Manzoni del 1961, alla copertina del disco dei Velvet Underground del 1967 disegnata da Andy Warhol, allo stesso Cattelan, quando nel 1999 fissò alla parete, sempre con nastro adesivo, il gallerista Massimo De Carlo: soprattutto per l’autocitazione in tono minore, va da sé che l’idea nasca stanca, e però solleva scalpore intorno.

Proviamo qui a soffermarci brevemente non sugli oggetti artistici contemporanei in sé, anche perché tutta la storia dell’arte del Novecento si offre come bacino di possibili citazioni e giustificazioni culturali di ogni nuova operazione eventuale. Consideriamo piuttosto il sistema in cui gli oggetti sono ora inseriti, la rete con i suoi nodi, i nessi.

Certo ha avuto un peso l’interruzione del rapporto tra artista e committente, interruzione configuratasi con forza all’inizio del secolo scorso, ma già avviatasi in seno al Romanticismo: finché c’è stato, il committente – aristocrazia, chiesa, borghesia ricca e ambiziosa – si è fatto garante delle scelte, e questo ha deresponsabilizzato l’artista nella scelta dei soggetti. Bastava che l’artista si concentrasse sulla qualità della sua cifra stilistica. Vero è che a volte potevano verificarsi incidenti e incomprensioni, basti pensare a come Caravaggio si concedesse libertà interpretative che conducevano anche al rifiuto di suoi dipinti. Ma più spesso prevaleva una lettura ortodossa, e allora il coefficiente artistico corrispondeva al virtuosismo dell’artista.

Anche in assenza di un committente, ancora nella prima metà del Novecento riferirsi a generi riconoscibili – ritratti, nature morte, paesaggi – seguitava a legittimare il disimpegno ideativo e consentiva di concentrarsi sulla propria originalità compositiva.

Ancora. Se già Marcel Duchamp si era assunto l’onere di sue idee trasgressive, l’eredità dadaista eterogenea del secondo Novecento vedeva però l’esistenza non tanto di singoli artisti autogestiti, ma di gruppi accomunati da una poetica. Dal Pop al Nouveau Réalisme, dalla Optical Art al Minimalismo, dallo Happening alla Body Art, l’esperienza artistica era supportata dall’appartenenza a un collettivo.

Se poi l’arte condivisa era teorizzata da un critico di spessore – il caso di Pierre Restany e il Nouveau Réalisme negli anni Sessanta -, l’attività artistica procedeva forte della decodificazione offerta da addetti ai lavori di cultura articolata. In fondo, anche il fenomeno italiano degli anni Ottanta che fu la Transavanguardia si ancorava alle parole sapienti di Achille Bonito Oliva, senza le quali i protagonisti avrebbero forse vacillato nel confronto con le coeve correnti neoespressioniste tedesche e americane.

Il guaio – posto che guaio sia – si è profilato all’orizzonte quando gli artisti si sono presentati sulla scena soli, ognuno per sé. Quando hanno incominciato a esprimere propri punti di vista.

Immaginare di avere punti di vista è possibile, di fatto accade, ma non necessariamente ogni punto di vista ha forza comunicativa; inoltre, la società attuale è connotata dalla relazione rapida e diramata, gli artisti soli non hanno possibilità di sopravvivenza. I galleristi colti, che fino a qualche decennio fa stringevano sodalizi con artisti e critici (su tutti Arturo Schwarz, scrittore, fra l’altro, e sofisticato conoscitore di Dadaismo e Surrealismo), hanno più spesso lasciato il posto a galleristi potenti e a grandi case d’asta (illuminanti le pagine dedicate da Sarah Thornton a questi contesti una decina d’anni fa, nel libro Seven Days in the Art World).

A chi si legano allora gli artisti, per operare in spazi di visibilità? Ai curatori.

Il critico si poneva come tramite fra l’operato degli artisti e il pubblico. Capitava che il suo linguaggio specialistico fosse intellegibile al solo pubblico preparato, e certo, promuovendo alcuni artisti, il critico finiva per renderli riconoscibili anche al mercato dell’arte. Ciò non toglie che il suo ruolo intendesse essere anzitutto esegetico.

Il curatore non nasce come interprete potenziale, semmai come organizzatore di mostre ispirate a sue idee, suoi interrogativi o immagini del mondo, a cui ricondurre opere di artisti che quelle idee possano confermare, illustrandole.

Le danze in tal senso furono aperte da Harald Szeemann con l’ormai storica mostra del 1969 alla Kunsthalle di Berna When attitudes become forms. Suo erede può oggi essere considerato un altro curatore svizzero, tra i più influenti al mondo, Hans Ulrich Obrist. Della categoria fanno parte anche Massimiliano Gioni, curatore della Biennale di Venezia del 2013 intitolata Il palazzo enciclopedico, e Milovan Farronato, curatore del Padiglione Italia dedicato al tema del labirinto, all’ultima Biennale veneziana.

Se i critici si collocavano tra gli artisti e il pubblico, i curatori sembrano collocarsi sopra gli artisti e sopra il pubblico: non si fanno tramite di possibili interpretazioni, ma sollecitatori di riflessioni attraverso l’arte. E sono conoscitori del mercato: sono loro a interloquire con i collezionisti.

Non a caso Milovan Farronato è assurto agli onori della cronaca internazionale dopo la nomina a direttore del Fiorucci Art Trust, a Londra, mentre Massimiliano Gioni aveva mosso i primi passi alla Fondazione Trussardi di Milano, cioè nel mondo del mecenatismo milanese legato alla moda.

A meno che non abbia raggiunto chiara fama, l’artista ora rischia di rimanere compresso tra il personaggio del curatore e la volontà speculativa del collezionista facoltoso, al quale ultimo è anzi affidato il destino dell’artista. A fare la fama dell’artista non è propriamente la scrittura del curatore, ma la somma di denaro con cui un suo lavoro è stato battuto all’asta. Dunque l’arte gratificata dal grande collezionismo è quella riconosciuta come capitale. Se ne deriva che i nomi di punta dell’arte contemporanea siano per lo più scelti dai grandi collezionisti.

Ma che fine ha fatto il pubblico, in tutto ciò?

Il pubblico è quello che si vede nel video della performance messa in atto da David Datuna nello stand della Galerie Perrotin alla fiera d’arte di Miami: decine e decine di cellulari a riprendere la scena. I video saranno stati pubblicati nei social network, amplificando a dismisura la fama di Cattelan, omaggiando di pubblicità gratuita la Galerie Perrotin e puntando i riflettori su un artista poco noto fino a quel momento. Il pubblico è il nuovo agente promotore di un’arte che non necessariamente capisce o ama, ma di cui si sente compartecipe attraverso la “condivisione” che è imperativo categorico di ogni “social”. Se prima occorreva capire i testi dei critici, pur spesso spocchiosi e persino indecifrabili, ora basta “postare” video e immagini, dimostrando di essere stati fisicamente presenti all’ “evento”.

Nel caso della banana di Miami, il contributo artistico di Cattelan è pressoché inesistente, rispetto all’operazione commerciale e all’attenzione mediatica ottenuta.

Qui è come se i sarti truffaldini de I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen non avessero neppure bisogno di mentire, come se anzi dichiarassero subito di voler ingannare tutti, e l’opera d’arte fosse proprio l’inganno dichiarato. Talmente dichiarato, da capovolgere i termini del discorso.

Ecco, si ha l’impressione che nell’arte più recente i termini del discorso siano capovolti. Difficile dire se debbano e possano essere ripristinati parametri di più rigorosa e fondata consapevolezza storico-artistica. O meglio, la logica questo vorrebbe, ma non necessariamente essa corrisponde ai bisogni prevalenti. Di certo però, se questo sarà il procedere artistico a venire, gli strumenti analitici da mettere in campo afferiranno sempre più spesso agli studi di economia e di sociologia, e sempre meno alla storia dell’arte stricto sensu.




de Pisis: piccole riflessioni dopo la mostra al Museo del Novecento

di Silvia Ferrari Lilienau – Intanto: che sollievo visitare una mostra che sia tale, non un’esperienza immersiva in cui i dipinti siano manipolati per coinvolgere i sensi e la fantasia degli spettatori. Che sollievo che la mostra di Filippo de Pisis al Museo del Novecento non sia un piccolo Luna Park, ma la mostra di una novantina di opere in un crescendo cronologico, con pannelli esplicativi a introduzione delle sale. 

Che poi una mostra così allestita non sia facile è pegno inevitabile da pagarsi all’arte, visto che sarebbe sensato – contro l’insensatezza di ogni banalizzazione – accettare che l’arte non sia facile. Che sia comunque lecito accostarvisi è fuor di dubbio, come pure che sia doveroso provare a renderla accostabile. Ma, appunto, lo spostamento dovrebbe essere del cultore verso l’arte, per tramite di studiosi tenuti a offrire strumenti interpretativi, e non, invece, dell’arte verso il cultore, perché in tal caso si rischia una spettacolarizzazione quasi mai rispettosa della natura dell’opera.

Certo rifuggono da ogni forma di spettacolarizzazione i dipinti di Filippo de Pisis. Tutti, nessuno escluso, dalle prime nature morte che testimoniano l’incontro a Ferrara con de Chirico e Savinio, ai paesaggi e alle figurette agili degli anni parigini, e poi oltre, nei soggetti che tornano uguali, ma sempre più segnati da un pennello rapido e leggero, in cui sosta infine anche il suo arretrare alla vita.

A parte le prove che sono esplicito omaggio allo spaesamento metafisico, se si pensa alla pittura di de Pisis la si rivede costruita con segni brevi e vibranti, che toccano la tela in velocità. Carattere questo da più parti considerato troppo lieve, benché le parole di Elio Vittorini – citato in catalogo nel saggio di Pier Giovanni Castagnoli – bastino a garantirne il pondus: nel 1933, ne “L’Italia Letteraria” Vittorini scriveva infatti di come i detrattori di de Pisis non si rendessero conto dei “novemila metri di profondità ch’egli raggiunge senza nemmeno indossare lo scafandro”.

A ben vedere, si ha l’impressione che dipingere fosse, per de Pisis, come scrivere, là dove la scrittura era stata la sua vocazione prima e precoce, nonché una prassi mai interrotta. Rimangono di lui lettere, articoli, scritti di storia dell’arte, prose, poesie, diari. Non aveva ancora venti anni quando conobbe de Chirico e Savinio, e però a casa di Corrado Govoni, che aveva scritto per lui la prefazione a I Canti de la Croara, pubblicati già nel 1915.

Solo che nella sua pittura, la polpa materica un po’ sfatta si carica di un silenzio invece difficile a tradursi in parola scritta.

Come ne La lepre del 1932, con l’animale morto allungato sul tavolo, la pelliccia stropicciata dai picchiettamenti del pennello e la piccola chiazza di sangue accanto al muso, quasi colore sgocciolato, quasi una dimenticanza.

Il silenzio che si fa tattile, alla fine, dentro alle nature morte dipinte nella casa di cura dove avrebbe concluso i suoi giorni. In Cielo a Villa Fiorita, del 1952, l’esterno diventa un piccolo quadro in un interno, un quadro nel quadro in cui de Pisis sembra ricordarsi di se stesso quando componeva nature morte su uno sfondo di mare e cielo, a dire – allora – lo spazio senza margini anche del suo pensiero.

de Pisis

Milano, Museo del Novecento, 4 ottobre 2019-1 marzo 2020

a cura di Pier Giovanni Castagnoli con Danka Giacon

Catalogo a cura di Pier Giovanni Castagnoli, Milano, Electa, 2019




Peace: alla ricerca della pace con Fabio D’Amato

A pochi mesi dall’uscita del suo penultimo singolo, intitolato “Peace”, il compositore e musicista Fabio D’Amato ne pubblica il suggestivo videoclip, scritto e diretto dal regista Andrea Mini. 

Peace” è un viaggio ideale, simbolico, spirituale, alla ricerca della pace, un percorso che inizia tra le note di un pianoforte, attraversa il magnifico quartetto d’archi del Conservatorio di Brescia (Mi Hyang Lee e Giroldi Giulia, Violino; Akari Yamagishi, Viola; Salomè Perlotti Trovato, Violoncello), per culminare tra le montagne dei favolosi Piani di Bobbio (LC).

Le immagini suggestive rappresentano, in maniera essenziale, il percorso intrapreso dall’artista, in una dimensione sempre emozionale. Le note scandiscono i passi ed il peso di una scalata, a tratti faticosa, sulle montagne, fino al raggiungimento del punto più alto, dove l’artista vorrebbe trovare quella pace e serenità a cui ogni uomo aspira.  Ne parliamo con Fabio, per conoscere qualche dettaglio ulteriore di questo bellissimo progetto.

1. Come nasce il brano “Peace”?

“Peace” nasce dall’esigenza di pace interiore che ognuno di noi, in fondo, ricerca nella propria vita, vuole raccontare un viaggio interiore, un percorso per raggiungere la serenità.

 

2. Raccontaci qualcosa di te, delle tue passioni e aspirazioni

Mi considero un trascrittore di emozioni in note, comporre musica è un po’ come tradurre tutto ciò che sentiamo o vogliamo trasmettere. La passione è la molla che mi spinge ad andare sempre oltre, a  sognare. Posso dire di essere stato fortunato: molti sogni che avevo quando ho iniziato a studiare musica si sono realizzati.

Mi piacerebbe scrivere musica per un film d’autore, far sì che  le immagini ed il suono viaggino insieme, generando emozioni in chi ascolta e guarda.
3. Hai pubblicato già due album fino ad oggi

Sì, il primo album risale al 2017, “Essential Songs”:  l’inizio di una bella avventura dove ho messo a frutto la mia ricerca personale sulla musica e la sua semplicità ed essenza. 

Il secondo album, “Essential Songs 2“, già dal titolo sottolinea la continuità con il primo: ho continuato, infatti, con la mia ricerca musicale dell’essenziale, utilizzando ancora suoni come il pianoforte e gli archi. Le tematiche traggono spunto, come sempre, dalla quotidianità… da quello che accade nel mondo.

Questo ultimo album è andato molto bene con grandi riscontri di ascolti, portandomi così a pubblicare anche il disco fisico.

Per entrambi i dischi, alcune tracks sono stata utilizzate per spot pubblicitari.

 

4.  Cosa pensi dell’attuale panorama musicale italiano?

Penso che la musica sia stata maltrattata negli ultimi 20 anni, purtroppo, e questo ha portato, a mio avviso, ad abituare le nuovissime generazioni ad ascolti musicali discutibili.

Credo che ci sia bisogno di avere più educazione musicale in generale e credo che bisognerebbe dare anche molte più opportunità agli artisti emergenti, perché ci sono dei veri talenti in Italia che spesso vanno a perdersi in una montagna di produzioni musicali.

Produrre musica è diventato paradossalmente più facile e questo ha permesso una produzione esagerata di musica di qualsiasi tipo e di qualsiasi livello, ma la cosa strana è che spesso chi fa musica poi non la sa né leggere né scrivere né suonare, ma “solo” scrivere sul pc; questo da una parte ha creato opportunità per tutti, dall’altra ha creato un vero appiattimento, per cui tutto suona uguale o come già sentito.

5. Tu Lavori in vari ambiti dal punto di vista musicale, qual è quello che ti appassiona maggiormente?

Scrivere canzoni mi piace molto e lo faccio sempre in maniera parallela, lavorando con artisti emergenti giovani, ma anche con i big.

Lavorare con gli spot è sempre molto creativo, perché permette di valorizzare magari delle immagini con la musica, cercando di entrare dentro il mood del prodotto o servizio.

Le colonne sonore poi sono il mio pane quotidiano, quindi non saprei proprio scegliere, la mia è una passione a 360°!

 

6. Progetti futuri e novità in arrivo?

Progetti sempre tanti, sto scrivendo il prossimo singolo, sto scrivendo canzoni, sto scrivendo spot; sicuramente usciranno altri singoli nel 2020 e, intanto, sto preparando il nuovo album.

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Trionfa la commedia brillante La Sposa Conveniente al Teatro Villa

di Giuliana Tonini – La compagnia teatrale Pasticcini & Fragole ha sfornato una nuova prelibatezza: la commedia brillante La Sposa Conveniente, andata in scena il 16, il 17 e il 22 novembre al Teatro Villa di Milano.

Ideata, scritta, diretta e interpretata da Evita Paleari, la ‘capocomica’ della compagnia, La Sposa Conveniente è la storia dei tre fratelli Taylor, Dorothy, Bartholemy e Dave, rampolli di una nobile famiglia inglese caduta in disgrazia economica, che stanno per essere travolti dai debiti lasciati dal loro defunto padre. A mali estremi, estremi rimedi: i due maschi pensano bene di sistemare la sorella col vecchio e donnaiolo, ma ricchissimo, conte Sheppard. Salvo poi pentirsi di tanto cinismo e cercando quindi di rimediare, fino a offrirsi di sostituirsi alla sorella per tenere a bada l’eccessiva vitalità del vecchio conte.

Due ore di puro divertimento, con gag esilaranti, battute scoppiettanti  e con un finale che cita il film Il matrimonio del mio migliore amico. Bravissima Evita Paleari nel ruolo di Dorothy e letteralmente da urlo Marco Berna e Alessandro Oteri nei panni dei due fratelli en travesti. Senza tralasciare, naturalmente, la bravura di Loredana Agosta, interprete della governante Grace, di Mauro Maggioni, il temuto conte Sheppard, che appare per pochi minuti alla fine, ma conquista subito la scena, e di Aurora Cecchettin, il fantasma della dolce mamma Taylor che ogni tanto appare recitando in rima.

La compagnia teatrale Pasticcini & Fragole è attiva da sedici anni. Formata da attori non professionisti, è nata come gruppo di genitori che metteva in scena le fiabe per i propri figli della scuola dell’infanzia Cristo Re in zona Villa San Giovanni a Milano, ed è cresciuta nel corso del tempo in numero e in qualità.

La vulcanica Evita Paleari è anche scrittrice e, nel 2018, ha pubblicato il libro Per fare la segretaria devi avere le scarpe adatte, edito da Albatros, autobiografia autoironica sulla sua pluridecennale esperienza di segretaria di direzione in una delle aziende più importanti d’Italia.

Il ricavato della replica del 22 novembre è stato devoluto interamente in beneficenza a favore di African Dream Onlus, organizzazione no profit, fondata dai coniugi Vincenzo Baggio e Antonella Benigna, presenti in sala, che si occupa di sostenere progetti educativi e sanitari in Uganda e Zambia. 

Informazioni e contatti

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