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Carmen ammalia Verona

Una Carmen ribelle, sensuale, passionale, egoista, dominatrice e determinata è quella che ha aperto la stagione del 96° Opera Festival all’Arena di Verona. La Carmen immaginata da Hugo de Ana prende vita in epoca franchista, a metà degli Anni ’30, oltre cinquant’anni la messa in scena della prima rappresentazione di una delle opere più amate a livello mondiale grazie a quell’afflato di libertà che contraddistingue la protagonista. Carmen infatti è una donna che si distingue tra le altre proprio per la risoluta ricerca della libertà, scelta che riafferma con orgoglio anche di fronte anche alla morte imminente. Una vittima di femminicidio, come è stato sottolineato nel corso della prima rappresentazione areniana di un mese fa con la deposizione al posto 32 della platea di 32 rose rosse a ricordo della vittima di femminicidio da inizio anno. Da allora, il numero è salito a 39. Il che evidenzia, purtroppo, l’attualità dell’opera di Georges Bizet su libretto di Prosper Mérimée: dalla prima rappresentazione della Carmen del 1875 sono passati oltre cent’anni ma poco è cambiato, rimangono purtroppo numerosi gli uomini come Don Jose che confondono l’ossessione malata per amore e non accettano il “no” come risposta.

 

La scelta di de Ana di ambientare l’opera durante la guerra civile spagnola che ha imperversato nella Penisola iberica negli Anni ’30, ben si adatta al personaggio di Bizet. In quegli anni infatti, partecipando alla lotta armata, le donne hanno avuto modo di iniziare l’emancipazione anche sul fronte politico. Un altro tassello che ben si adatta alla rivoluzionaria complessità di Carmen. L’allestimento è dinamico tra cavalli, auto, carri si muovono ballerini, sigaraie e soldati in un movimento talvolta caotico ma studiato sulle le macerie di una Spagna ferita dalla guerra civile. Uno scenario che sottolinea la brutalità della guerra, piuttosto che la Spagna da cartolina spesso convenzionalmente rappresentata in Carmen. Nel primo e nel terzo atto predominano i colori più cupi, il bianco e il nero, mente il secondo atto, quello ambientato alla locanda di Lillas Pastia è un tripudio di colori e in qualche modo ricorda e forse omaggia, nell’uso dei grandi cartelloni pubblicitari di corride e spettacoli di flamenco, la Carmen di Franco Zeffirelli che ha trionfato in Arena nel corso delle ultime stagioni. Peccato solo che la piaggia abbia interrotto il 4° e ultimo atto dell’opera che avrebbe portato in scena la rappresentazione della corrida con l’ideazione di un’arena in arena. Ma in Arena capita ed è anzi una fortuna che, in una giornata di tempeste e temporali su tutto il Veneto come quella di sabato 21 luglio, sia stato comunque possibile assistere ai primi tre atti. Interessante infine l’uso del video mapping sugli spalti dietro il palco, ovvero la proiezione di scritte che contestualizzano la storia rappresentata in un luogo e in momento storico preciso e, talvolta, producono le immagini della città andalusa. Un spunto ulteriore è stara poi l’idea di de Ana di prevedere un percorso circolare che inizia dalla fine (una conclusione immaginata), l’esecuzione di Don Jose in seguito all’uccisione di Carmen nella stessa arena che vede nel 4 atto il trionfo di Escamillo.

 

Sul palco ottima prova per Anna Goryachova, mezzosoprano dal timbro omogeneo che ha saputo sprigionar la sensualità di Carmen in una interpretazione fluida e disinvolta. Serena Gamberoni, soprano al suo debutto in questa stagione in arena, è stata un Micaela dalla vocalità fresca e sicura che ha incantato il pubblico nel terzo atto nella struggente Je dis que rien ne m’épouvante. Un plauso a Francesco Meli, Don Jose, compagno di palco e di vita di Serena Gamberoni che ha unito un’esecuzione impeccabile alla tragica espressività del protagonista.  Alexander Vinogradov è stato infine un convincente Escamillo dalla voce piena e potente. In scena anche Ruth Iniesta (Frasquita) e Arina Alexeeva (Mercédès) che insieme a Goryachova hanno dato vita all’incantevole terzetto Mêlons!, Coupons!, divertente prima e con un crescendo drammatico sul finale. Completano il cast Davide Fersini (Dancairo), Enrico Casari (Remendado), Gianluca Breda (Zuniga) e Gocha Abuladze ( Moralès). A dirigere l’orchestra Francesco Ivan Ciampa, mentre il maestro del coro è Vito Lombardi e il coordinatore del ballo è Gaetano Petrosino. Il Coro di Voci bianche ALiVe è infine diretto da Paolo Facincani.

Uno spettacolo da non perdere.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Repliche:  3, 9, 12, 22, 25, 28 e 31 agosto  (h 20.45).

Biglietti a partire da 22 euro




Il Maestro Simone Di Crescenzo racconta la musica di Gioacchino Rossini

La  quarantaquattresima edizione Festival della Valle d’Itria, la manifestazione che celebra il Belcanto, non poteva non festeggiare il centocinquantesimo anniversario della morte di Gioacchino Rossini, il Cigno di Pesaro.

Oltre a un originale allestimento del Barbiere di Siviglia, il Festival propone la Soirée Rossini, un concerto celebrativo del compositore, con un cast internazionale di grande caratura: il violinista Yury Revich, il pianista Simone Di Crescenzo, la soprano Maria Aleida, il clarinettista Nicolai Pfeffer e il basso Michele Pertusi.

La Soirée avrà luogo il 18 luglio 2018, alle ore 21, nella prestigiosa cornice del Chiostro di San Domenico a Martina Franca.

Abbiamo incontrato il Maestro Simone Di Crescenzo, pianista e interprete raffinato, apprezzato a livello internazionale, che ci ha raccontato il suo rapporto con la musica rossiniana, con il Belcanto, e ci ha spiegato la Soirée Rossini.

Che rapporto ha con Rossini e la sua musica?

Con Rossini ho un rapporto assolutamente speciale ed esiste un particolare feeling fra me e la sua musica. Quando leggo uno spartito rossiniano, tutto mi sembra così familiare e naturale, come se lo avessi già studiato in precedenza. Ho scoperto Rossini circa 10 anni fa, quando avevo già compiuto i miei studi. È stato un amore che è cresciuto nel tempo, quando ho approfondito questo geniale compositore non solo da un punto di vista esecutivo ma anche storico-musicologico. Come dico sempre, purtroppo la stragrande maggioranza del pubblico conosce Rossini solo attraverso il teatro comico. Credo invece che sia nella produzione cosiddetta ‘seria’ che possiamo trovare la completezza di un autore che ha rappresentato l’apice ultimo e assoluto della grande stagione del Belcanto italiano. Io, nello specifico, mi occupo della sua produzione da camera, che è arrivata in un momento di grande maturità nella vita del Maestro, quando ormai era lontano dalle commissioni dei teatri e dalle ambasce che preoccupano un giovane compositore. Si tratta quindi di un repertorio sublime, pieno di raffinatezze, di dettagli, di sfumature che permettono all’interprete di creare qualcosa di davvero speciale nell’esecuzione. 

Si aspettava di partecipare ad un concerto in occasione dei 150 anni dalla morte dell’artista?

Per le celebrazioni dell’anniversario dei 150 anni dalla morte di Rossini mi sono già esibito lo scorso marzo a Firenze accanto alla super star Sumi Jo. È stata per me una piacevole sorpresa ricevere l’invito del direttore artistico Alberto Triola di creare un programma particolare per il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca. Insieme abbiamo riunito per l’occasione un cast di artisti di fama internazionale, quali il giovane virtuoso del violino Yury Revich, già artista dell’anno nel 2015 e vincitore del prestigioso premio ECHO Klassik, il clarinettista Nicolai Pfeffer, raffinato interprete del repertorio romantico, il soprano Maria Aleida, straordinaria vocalista specializzata nel repertorio di coloratura e il noto basso Michele Pertusi, al quale verrà assegnato nel corso della serata il premio Belcanto “R. Celletti” 2018. Sono quindi onorato ed entusiasta di partecipare alle celebrazioni rossiniane proprio in quel Festival dove ben 44 anni fa iniziò la cosiddetta ‘Belcanto Renaissance’ grazie a personaggi come Paolo Grassi, Rodolfo Celletti e Alberto Zedda, a cui andranno sempre la mia stima ed ammirazione. 

Quali sono le peculiarità del programma che proporrete il prossimo 18 luglio?

Il programma musicale nasce dall’idea di ricreare uno di quei concerti salottieri di inizio ‘800 in cui grandi musicisti si esibivano accanto alle primedonne dell’epoca creando addirittura delle gare di virtuosismo a colpi di scale, arpeggi, gorgheggi e picchettati. Un repertorio altamente godibile per il pubblico, poiché nasceva proprio con lo scopo di intrattenere. Leggendarie rimasero infatti serate in cui Maria Malibran, Charles August de Bériot, Sigismund Thalberg, Nicolò Paganini, allietavano i loro illustri ospiti con brani originali di Rossini e trascrizioni ispirate alle composizioni di colui che veniva considerato il ‘Nume tutelare’ della musica. Per la parte strumentale, eseguirò con Yury Revich due trascrizioni da Aureliano in Palmira e Armida di De Bériot, le due grandi trascrizioni di bravura di Paganini da La Cenerentola e Tancredi e l’Elegia Un mot à Paganini di Rossini; mentre con Nicolai Pfeffer suonerò una trascrizione di alto virtuosismo dal Maometto II e una da Il Barbiere di Siviglia per clarinetto e pianoforte. Per quanto riguarda la parte vocale, invece, eseguirò con Maria Aleida alcune Arie da camera tratte dalle Soirées Musicales e dai Péchés de vieillesse di Rossini e la grande scena di Zenobia tratta dall’Aureliano in Palmira. Con Michele Pertusi faremo un cammeo dal Maometto II. 

Come si inserisce il concerto nel Festival Valle d’Itria che punta su un genere musicale non di repertorio?

Il concerto si inserisce perfettamente nella linea del Festival, ovvero nella riscoperta del repertorio meno frequentato, in particolar modo del Belcanto. Il Festival della Valle d’Itria rappresenta un fiore all’occhiello nella programmazione estiva italiana ed è uno dei pochi Festival al mondo ad avere come missione la divulgazione e la promozione di capolavori poco conosciuti dal grande pubblico. Direi che con queste premesse la realtà artistica di Martina Franca diventa non solo ‘fare spettacolo’, ma ‘fare cultura’ in senso lato, come valorizzazione del nostro immenso patrimonio artistico, degno di essere apprezzato e divulgato. 

Aveva già collaborato con gli artisti con cui farà il concerto?

Conosco Maria Aleida da molti anni, da quando fece il suo debutto italiano proprio a Martina Franca e ho seguito la sua carriera in questo periodo. Con Yury Revich collaboro in maniera stabile e abbiamo insieme diversi progetti per il futuro; mentre con Nicolai Pfeffer non ho mai suonato, questo sarà il nostro debutto italiano, ma anche con lui ho diversi progetti in programmazione. Sarà la prima volta che accompagnerò Michele Pertusi, e sarà per me un grande onore. 

Che rapporto c’è tra queste perle rare che porta nel concerto e le opere invece più famose e conosciute di Rossini?

Come ho già detto, la maggiore produzione cameristica rossiniana risale ad un periodo successivo alla composizione di opere liriche, quindi di fatto, tranne in alcuni casi, non c’è un rapporto diretto fra le Arie da camera e le opere più popolari. Un caso a parte rappresentano invece le trascrizioni che altri compositori hanno realizzato partendo proprio da celebri melodie presenti nelle opere del ‘Cigno di Pesaro’. Intorno agli anni Trenta dell’800 Rossini era l’autore più popolare: tutti conoscevano “Dal tuo stellato soglio” oppure “Di tanti palpiti”: possiamo pensare a ciò che oggi accade con “Va pensiero” di Verdi o “Nessun Dorma” di Puccini. Mi sembra quindi molto naturale che si utilizzassero proprio fonti rossiniane per realizzare variazioni di bravura e di grande virtuosismo. 

Questi pezzi così rari verranno da voi incisi?

Ci sono dei progetti discografici con questo repertorio, soprattutto con l’etichetta Concerto Classics, con la quale mi dedicherò proprio alla produzione italiana da camera e per tastiera. Ma su questo non posso anticipare ancora nulla, invito i lettori a seguire i miei canali social, dove costantemente vengono annunciati i progetti in uscita, sia concertistici che discografici. 

Quali progetti l’aspettano dopo questo evento?

Dopo questo evento mi aspetta un breve periodo di vacanza e, spero, di riposo. Ma già dalla metà di agosto inizierò a preparare un progetto discografico di musica vocale da camera, che inciderò questo autunno con due note cantanti italiane, di cui non posso ancora rivelare i dettagli. A seguire alcuni concerti con Yury Revich in Italia e all’estero. 

Per la foto si ringraziano:

Photo Credit: Mirco Panaccio

Location: Conservatorio “L. D’Annunzio” – Pescara 

Outfit: Capuzzi Moda 

Hair stylist: Graziano Marcovecchio




Forever Crazy. Il Crazy Horse arriva a Milano

Luci soffuse, tavolini, bottiglie di champagne e sul palco bellissime ballerine che ammaliano e conquistano gli spettatori . Non è un sogno! Dal 20 al 24 giugno la sala del Teatro Nuovo di Milano si trasforma nel locale più glamour, affascinante e trasgressivo di Parigi: il Crazy Horse!

A distanza di quattro anni, torna a Milano l’eccezionale show che dagli anni Cinquanta conquista milioni di spettatori, e torna con il nuovo incredibile spettacolo  FOREVER CRAZY: sessantasette anni di creazione e follia concentrati in novanta minuti di incanto.

Forever Crazy” è uno show eccezionale grazie alla selezione dei numeri più famosi del cabaret più glamour di Parigi: dal leggendario “God Save Our Bareskin”, numero coreografato da un tenente dell’esercito britannico, che apre dal 1989 tutte le serate del locale parigino, fino alle recenti creazioni firmate dal coreografo Philippe Decouflé e dalla regina della lingerie chic Chantal Thomass.

Le performance sono esaltate da eleganti costumi, musiche originali, giochi di luci e proiezioni ad alta definizione. Il risultato è uno spettacolo unico, tra arte e divertimento, un caleidoscopio unico di bellezza, passione e precisione.

Crazy Horse presenta

Forevere Crazy

 

Teatro Nuovo di Milano 

piazza San Babila – Milano

dal 20 al 24 giugno 2018

ore 20.45  

venerdì 22 e sabato 23 giugno anche alle 23.15

Biglietti da 34.50€

www.teatronuovo.it




Luigi Ghirri: il paesaggio dell’architettura in mostra alla Triennale

di Federico Poni – È stata inaugurata, in occasione della Milano Arch Week 2018, la mostra “LUIGI GHIRRI, IL PAESAGGIO DELL’ARCHITETTURA

Devoto della pop art, Ghirri, sicuramente uno dei più grandi fotografi italiani, è stato pioniere del mezzo della pellicola a colori con cui ritrae il binomio paesaggio/architettura, partendo sempre dal legame con il suo territorio natio, con la dimensione della storia e della memoria, che rappresenta la costante di tutte le sue fotografie.

Attraverso l’adozione di metodi di osservazione e registrazione ispirati al modello della collezione (ma non del collezionismo), Ghirri vuole stabilire un inventario della cultura materiale italiana (e non). Infatti, buona parte della retrospettiva mette in luce la decennale collaborazione tra il fotografo emiliano e la rivista Lotus International, che ha dato all’architettura un nuovo punto di vista.

È proprio grazie agli archivi di Lotus International che ha preso vita  questa grande esposizione.

Ghirri, che ha avuto una formazione da geometra, ha sperimentato la fotografia da autodidatta. I suoi riferimenti culturali derivano da diversi ambiti artistici: non cerca né vuole la citazione colta, non vuole nemmeno formulare un credo estetico. Ghirri indaga modelli di comportamento e ci riesce tramite lo studio del medium dell’architettura.

Entrando nell’esposizione si riesce a vedere tutto l’allestimento, composto da due parti: la sala delle stampe e il corridoio delle diapositive.

Nel primo scenario le preziose stampe originali sono poste su piedistalli che permettono al pubblico di entrare realmente a contatto con le opere: le fotografie, non essendo di grandi dimensioni, rendono possibile una lettura veramente intensa e semplice.

Più in particolare, questo spazio espositivo è suddiviso in sette sezioni: “Un’idea dell’Italia”, che raccoglie molte opere dalla celebre mostra Paesaggio Italiano tenuta a Reggio Emilia nel 1989; “La grande pianura”, dedicata ai servizi fotografici svolti da Ghirri sui progetti di Aldo Rossi a Modena e a Parma su commissione di Lotus; “Nel Giardino” che racconta il servizio svolto nel 1983 sul cimitero di Carlo Scarpa a San Vito di Altivole; “Il percorso” dedicato al servizio del 1988 sulle opere di Jože Plečnik installate sul lungofiume di Lubiana; “Progetto domestico” sulla mostra omonima del 1986 esposta in Triennale; “La Triennale e il parco” con una selezione di immagini inedite di un ampio servizio realizzato nel 1986 sulla Triennale ma anche sul parco Sempione, il Castello Sforzesco, l’Arco della Pace, la fontana dechirichiana dei Bagni Misteriosi e altri luoghi milanesi. Infine “Atlante Metropolitano” comprende fotografie anche di altri autori internazionali sul tema della città e della metropoli.

Nel corridoio a lato si succedono proiezioni di grande formato, che permettono al pubblico di immergersi nelle opere.

Sul fondo compare una gabbia, ispirata dalle fotografie di Ghirri dell’installazione di Achille Castiglioni per la Triennale del 1986, con applicate fotografie di vari allestimenti di artisti e architetti, da Marcel Duchamp a Mario Merz, da Carlo Santachiara a John Hejduk e altri.

Nel contesto di un violento capitalismo in continua crescita, dopo la fine della guerra fredda, Ghirri ha elaborato un nuovo modo di guardare il mondo intorno a sé, in primo luogo attraverso una tecnica (l’uso del colore in particolari condizioni atmosferiche che danno risalto al concetto di temporalità), ma soprattutto attraverso una nuova e inedita riflessione sul paesaggio urbano.

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Informazioni

Luigi Ghirri. Il paesaggio dell’architettura

A cura di Michele Nastasi

Allestimento di Sonia Calzoni

Grafica di Pierluigi Cerri

Fino al  26 agosto 2018

Triennale di Milano

Da martedì a domenica, ore 10.30 – 20.30

Biglietti: 7 euro (intero) / 6 euro (ridotto)

Triennale di Milano

Viale Alemagna 6

20121 Milano

T. +39 02 724341

www.triennale.org




Festival della Valle d’Itria: intervista al direttore artistico Alberto Triola

Dal 13 luglio al 4 agosto 2018 torna uno degli eventi estivi più attesi per gli amanti dell’opera e della musica classica: il Festival della Valle d’Itria. Nella suggestiva e affascinante cornice di Martina Franca vanno in scena quattro secoli di teatro musicale, con grande attenzione al barocco, e la partecipazione di artisti di fama internazionale.

Abbiamo incontrato il direttore artistico del Festival, Alberto Triola, per scoprire tutte le peculiarità di questo grande evento e le novità che ha in serbo questa edizione.

Presentiamo questo Festival, giunto alla sua 44^ edizione.

Il Festival Valle d’Itria è un unicum nel suo genere in Italia. L’ambito di repertorio e il baricentro delle proposte culturali su cui il Festival si concentra è quello del belcanto italiano, riallacciandosi alle ricerche, alle proposte, agli studi fatti da Rodolfo Celletti a partire dagli anni ‘70 e proseguiti poi anche negli anni ‘80. Oggi quando si parla di “belcanto renaissance” si parla di Martina Franca come laboratorio di incubazione di quel tipo di ricerca e di riproposta, con opere e produzioni e messe in scena che oggi sembrano normali ma che negli anni Settanta erano poco praticate. Alberto Zedda, che fu legato al Festival di Martina Franca, ricoprendo anche la carica di direttore musicale nei primi anni del Festival, ricordava sempre che non sarebbe nato il Rossini Opera Festival, monografico su Rossini, senza l’esperienza di Martina Franca. Nel corso dei decenni questo Festival ha ampliato i propri ambiti. Pur mantenendo come baricentro il belcanto italiano, ha aperto dei filoni di approfondimento sul teatro musicale del ‘600 e sul ‘900. Questo soprattutto negli ultimi dieci anni, partendo dalla convinzione che un festival di ricerca non può considerarsi completo se non accende un interesse particolare nei confronti della creatività contemporanea. Entriamo subito in medias res, col Festival di quest’anno, con questa proposta, assolutamente inedita, trasversale e multistrato, del Barbiere di Siviglia rivisitato. Nell’anno di Rossini, il Festival ha scelto, piuttosto che mettere in scena un’opera di Rossini così come scritta, di mantenersi fedele alla propria identità di luogo di ricerca, di proposta e di laboratorio. Il Festival ha deciso di intraprendere la strada di una riscrittura drammaturgico-musicale del grande capolavoro rossiniano, cogliendo una serie di occasioni. Prima fra tutte la collaborazione con la Festa della Taranta, che è l’altro grande festival del Mezzogiorno italiano, salentino, naturalmente con potenzialità di pubblico molto più elevate e molto più ampie. In Rossini c’è questo elemento dionisiaco molto risonante rispetto a certi moduli che il tarantismo propone. Ci siamo imposti di scavare in questo punto di incontro. Abbiamo pertanto affidato alla Festa della Taranta la realizzazione della parte musicale. In buca invece di un’orchestra tradizionale ci sarà l’ensemble di musica popolare della taranta, insieme a strumenti tradizionali, più classici, con una riscrittura della musica di Rossini in questa chiave. La seconda occasione presa è quella di potersi avvalere sul palco di un talento teatrale e musicale in grado di intercettare anche il cosiddetto “grande pubblico”, quello di Elio (di Elio e le storie tese), che da una vita ha messo Rossini al centro di suoi lavori, di sue ricerche, della sua passione personale ma che non aveva ancora mai affrontato un’opera nel suo complesso. Avremo uno spettacolo sorprendente, inedito, in grado di chiamare un pubblico molto vasto ma non soltanto per un’occasione di facile fruizione. Il festival infatti darà un piccolo contributo di approfondimento, per una chiave di lettura della musica rossiniana diversa e inesplorata.

Una domanda nasce spontanea sul rapporto tra il Festival e Martina Franca. Perché è stata scelta Martina Franca e come si è radicato il Festival in questa città?

I nomi associati alla nascita del Festival sono tanti, parliamo soprattutto di personalità del mondo politico, culturale, sociale e imprenditoriale di quel territorio negli anni ’70, ma c’è un nome a cui credo si debba far risalire l’origine del Festival: Paolo Grassi. Grassi, che è stato sovrintendente della Scala, presidente della Rai, fondatore nonché direttore del Piccolo Teatro di Milano, era originario di Martina Franca. Immaginiamoci cosa poteva essere il Mezzogiorno, l’interno della Puglia, nei primi anni 70. Paolo Grassi partì dalla constatazione di una realtà ambientale e architettonica che sapeva unire il contesto della Valle d’Itria, di valore unico, senza paragone nel nostro Paese, con quello di un centro urbano, storicamente molto vitale, strategico. Il nome stesso Martina Franca racconta di un centro urbano che godeva in passato di privilegi unici, un crocevia straordinario per la via che collegava Adriatico e Ionio, nord e sud della penisola pugliese, e un contesto architettonico urbano di centro storico che era ed è oggi più che mai un esempio sorprendente di barocchetto napoletano, pugliese. Paolo Grassi ebbe l’intuizione di un cosiddetto “teatro diffuso”, cioè che la città stessa potesse diventare palcoscenico e potesse offrire diversi palcoscenici a delle proposte che fossero di teatro di ricerca. L’ulteriore intuizione di Paolo Grassi, che condivise subito con Rodolfo Celletti e con il sindaco di allora Franco Punzi, che è tuttora il presidente del Festival, fu quella di trovare una specificità. E fu trovata quella del belcanto italiano, riallacciandosi anche naturalmente alla grande scuola pugliese e napoletana che per tutto il ‘700 aveva dato al mondo intero i più grandi musicisti di quell’epoca.

È un festival molto sentito dalla popolazione, della città di Martina Franca? Come è accolto? Possiamo dire che si è consolidata una tradizione per la popolazione locale?

La tradizione è fortissima e va detto che negli ultimi anni specialmente nelle settimane del Festival Martina Franca e l’area limitrofa registrano il tutto esaurito, a livello ricettivo, alberghiero e di tutte le possibilità che oggi si sono sviluppate, dal b&b alla masseria ristrutturata e diventata hotel o residenza di lusso. Questo è il segno che il Festival ha saputo trasformare quel territorio, già di per sé straordinariamente ricco di potenzialità ambientali, paesaggistiche, enogastronomiche, anche in un polo d’attrazione per il turismo culturale, che in effetti porta a Martina Franca tutti gli anni migliaia di appassionati da tutta Europa. È stato fatto e viene fatto continuamente un lavoro molto paziente di convincimento sulla popolazione locale che il Festival non è un’occasione per pochi privilegiati o per persone che possono permettersi di assistere a degli spettacoli o che hanno gli strumenti per potersene interessare. Certo non aiuta il fatto che sia un festival non di repertorio; probabilmente se facessimo Aida, Turandot e La traviata sarebbe più facile eliminare questo preconcetto. Facendo opere barocche, opere settecentesche e ottocentesche, in prima esecuzione, titoli desueti, dimenticati, mai fatti o non sempre di facilissima fruizione per il grande pubblico, la frantumazione di questo pregiudizio è un po’ più lenta e un po’ più difficile. Molto è stato fatto in questi ultimi anni in questa direzione, tra cui aprire le prove generali ai giovani under 30 di Martina Franca, a cui viene fatto un piccolo discorso introduttivo di guida all’ascolto. Così i giovani locali cominciano finalmente a sentire quel Festival come loro patrimonio, un’occasione per aprire le porte della città al mondo. Il Festival sta diventando, negli anni, un fantastico laboratorio, in cui i giovani locali, frequentando il Festival, possono riconoscere in se stessi delle predisposizioni, dei talenti anche artistici, come sempre più spesso si verifica. Moltissimi giovani di Martina Franca hanno deciso di studiare teatro, di studiare danza, di studiare musica; e questo anche grazie alle attività della Fondazione Paolo Grassi, che per tutto l’anno svolge la sua attività di ricerca, di laboratori, di formazione, di divulgazione, di concerti, di teatro, di letteratura, di poesia, di fotografia.

Che tipo di pubblico richiama il Festival?

Il pubblico più rappresentativo è quello tipico del turismo culturale, soprattutto un pubblico internazionale. C’è anche una buonissima fetta di pubblico italiano, che frequenta i festival estivi di musica e di teatro. E poi devo dire che c’è una percentuale non trascurabile di pubblico locale. 

Oltre all’originalità del nuovo allestimento di Barbiere, le altre opere in cartellone presentano delle peculiarità?

Certamente! A partire dal Rinaldo di Händel che, in piena adesione alla identità del Festival, viene riproposto in una edizione totalmente inedita, che addirittura sarebbe stata perduta, e che invece, grazie al lavoro di un musicologo molto attento e molto tenace, è stata ricostruita. Verrà allestita la versione del capolavoro di Händel come andò in scena a Napoli nel 1718, cioè sette anni dopo la prima di Londra, diventando più che il trasferimento di una grande opera di Händel a Napoli, l’occasione di un pastiche, un genere estremamente in voga e popolare all’epoca. Il famosissimo castrato Grimaldi, detto Nicolini, porta la partitura a Napoli, depositandola nelle sapienti mani di un grande musicista di riferimento in quegli anni a Napoli: Leonardo Leo. Leo, sfogliando la musica si rende immediatamente conto del capolavoro e delle potenzialità dell’opera e pensa subito come adattarla al gusto del pubblico di Napoli. In primo luogo, aggiunge due personaggi buffi. Il pubblico infatti cominciava ad essere un po’ stanco dai drammi, dalle opere serie, schematiche, dove i protagonisti erano sempre personaggi altolocati, mitici, leggendari, inavvicinabili, inarrivabili. Proprio in quegli anni si cominciava invece a presentare sulle scene il modello di un teatro comico, non in lingua dialettale, non napoletana, con personaggi popolani che si prendevano gioco dei nobili o degli aristocratici. Nasceva così la commedia per musica. E l’usanza fu quella sempre più di contaminare l’opera seria con intermezzi buffi. Questi intermezzi si rivelarono subito come una fonte di successo incredibile. Sempre nel 1718 va in scena, ancora una volta a Napoli, Il trionfo dell’onore, l’opera che noi quest’anno facciamo in Masseria, che è proprio l’esempio più rappresentativo di commedia in musica; anzi molti la considerano come la prima vera commedia in musica della storia dell’Opera. Ci è sembrato utile e interessante mettere in scena nello stesso cartellone il dramma serio handeliano contaminato dalla scuola napoletana con la prima commedia per musica napoletana, scritta da Scarlatti, in lingua italiana e non napoletana, che ha all’interno quella che poi Goldoni nel teatro settecentesco, nel teatro di prosa, trasformerà nella commedia umana.

Anche l’opera in masseria è una peculiarità del Festival?

È una specialità del nostro festival, una nostra invenzione che ogni anno trova un pubblico sempre più convinto e sempre più entusiasta; è un’occasione fantastica per sentire musica e per vivere un’esperienza teatrale in un contesto architettonico incredibile, in piena campagna, in queste ville/fattorie del seicento e settecento, ristrutturate, sotto le stelle. Un’altra novità di quest’anno è che l’opera di Scarlatti verrà suonata con strumenti d’epoca.

Come possiamo definire il belcantismo?

La definizione più significativa e a cui io faccio sempre riferimento è quella di Rodolfo Celletti. Il belcanto è quella particolare forma di teatro musicale che si può leggere come un rigorosissimo sistema di filosofia estetica, in cui il modo di esprimere il contenuto è più importante del contenuto stesso. In altre parole, il belcanto presuppone un bagaglio tecnico e una consapevolezza stilistico-estetica per l’interprete che gli consente di divenire lui stesso coautore e di tradurre quello che l’autore aveva lasciato come codice scritto in forma sintetica, dando per scontato una serie di possibilità esecutive che all’epoca erano date per assodate, per note, per patrimonio, e che oggi invece richiedono un approfondimento, uno studio per essere riproposte tali quali. L’altra caratteristica fondamentale che definisce il belcantismo o il belcanto è quella della sua visione estremamente astratta e distaccata da quella che è la realtà del sentire e del sentimento. Al compositore, all’autore e quindi all’interprete belcantistico non interessa minimamente imitare la concretezza del sentimento, interessa sublimarla, trasformarla in un simbolo completamente astratto, codificato, riconoscibile in base a un abbecedario, a un sistema di riferimento all’epoca condiviso, che affondava le sue radici nella poetica degli affetti monteverdiana. È un codice di assoluta astrazione, che gioca anche molto sull’ambiguità ad esempio dei ruoli sessuali. Il castrato poteva rappresentare, con la sua voce assolutamente asessuata e androgina, completamente svincolata dalla natura quotidiana della voce umana, personaggi i più disparati tra loro. Anche certi eccessi di registri o certi passaggi di abilità virtuosistica acrobatica non erano mai però fini a se stessi: erano sempre rigorosamente riconducibili a un codice, a un patrimonio condiviso. Oggi la scuola del belcanto è una scuola di cui si sono smarrite le tracce. A causa di ragioni storiche: man mano che l’urgenza della realtà del sentire e dell’imitazione del reale hanno preso il sopravvento nella storia dell’Opera, la voce umana, appunto per essere più aderente possibile alla tangibilità del sentimento, si è dovuta spingere su emissioni sempre più vicine a quelle della quotidianità, e quindi fino ad arrivare al declamato, all’urlo, al grido, come se non ci fosse alcuna differenza fra la finzione del teatro e la realtà. Inoltre, questo cambiamento, questa evoluzione di gusto ha fatto perdere completamente memoria della tecnica belcantistica, perché spingendo la voce umana su quel declamato, gonfiandosi le orchestre, gli organici e aumentando le sonorità, la tecnica ha dovuto adattarsi a finalità espressive completamente diverse, completamente all’opposto dell’astrazione cristallina del belcanto. Siamo dovuti arrivare agli anni ’70, con Celletti e Martina Franca, poi Pesaro e Rossini, la renaissance barocca del Nord Europa per porci la domanda: ma come si cantava nel ‘600 e nel ‘700? Qual era la tecnica? Il dibattito è ancora aperto, però è un fatto culturale, estetico, filosofico estremamente significativo e complesso.

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Informazioni e programma completo del Festival all’indirizzo www.festivaldellavalleditria.it




Parole&Musica Academy, la scuola per i professionisti del canto e della musica di domani

di Giuliana Tonini – A Milano, in via Savona, c’è una scuola di eccellenza perfetta per chi ha la passione del canto e della musica, e per chi vuole farne la propria professione. È la Parole&Musica Academy a.p.s., fondata da Cristina Mascolo, Jose Mascolo e Lisa Cais.

La scuola mette a disposizione un’offerta di formazione a 360 gradi. Le discipline in cui può si può scegliere di cimentarsi sono davvero moltissime. Basta andare sul sito www.paroleemusica.net per farsi un’idea.

Si organizzano, ad esempio, oltre ai corsi base di tecnica e interpretazione di canto, corsi specialistici in canto lirico, canto e chitarra, canto e pianoforte, canto per performer di musical, canto in duetto, canto gospel, comportamento scenico.

Anche l’offerta formativa nell’ambito degli strumenti musicali è davvero molto ampia. Chi vuole, oltre agli strumenti più ‘classici’ come il pianoforte, la chitarra, il violino e la tromba, può imparare a suonare, ad esempio, l’ukulele, il banjo e la cornamusa.

Si può scegliere tra corsi individuali e collettivi, senza tralasciare i programmi appositamente dedicati ai bambini tra i 5 e gli 11 anni.

Ci sono, inoltre, moduli mirati per professionisti che desiderano perfezionarsi e corsi di preparazione per chi deve affrontare provini o audizioni.

Tutti gli insegnanti sono professionisti di standing altamente qualificato.

Le iscrizioni sono aperte tutto l’anno. Parole&Musica Academy a.p.s. è davvero il posto giusto dove dedicarsi alle proprie passioni artistiche.

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Laura Pusceddu Abis racconta le grandi rockstar

Laura Pusceddu Abis è l’autrice del libro “Che musica! 20 rockstar leggendarie” (EL edizioni), uscito lo scorso 20 marzo. Un volume molto originale e interessante, che vuole far scoprire alle nuove generazioni i grandi cantanti, del passato e non, partendo da Ray Charles fino a Lady Gaga, passando da Elvis, Bob Dylan, Bowie, Queen, Madonna e tanti altri.

L’opera è rivolta ai bambini dai 9 anni in su ma può essere apprezzata e goduta da chiunque. 

Abbiamo intervistato Laura che ci ha raccontato come è nato questo progetto e quale è il suo rapporto con la musica.

Che importanza ha la musica nella tua vita?

Tantissima, è un qualcosa che fin da piccola mi ha sempre accompagnato. Se la ami la porti sempre con te e diventa un rifugio, oltre che una continua fonte di ispirazione e forza.

Come hai scelto le 20 rockstar del tuo libro?

La lista dei 20 artisti raccontati nel libro l’ho stilata insieme alla casa editrice. Davanti alla mia proposta iniziale, l’editore ha suggerito nuovi nomi da aggiungere e alcune sostituzioni, finchè siamo arrivati ad avere la rosa dei 20. La scelta è ricaduta su quegli artisti che, oltre ad aver lasciato un segno importante nella storia della musica, raggiungendo, inoltre, altissimi livelli anche in termini di successo commerciale, avevano alle spalle anche una storia personale particolarmente significativa, in cui i piccoli lettori potessero in qualche modo riconoscersi.

Come nasce l’idea di un libro adatto a tutte le età?

L’idea è nata dalla voglia di raccontare principalmente le grandi star del rock e del pop ai bambini e ragazzi, per creare in loro una mappa di riferimento musicale che diventa automaticamente anche mappa di conoscenza storica. Avevo notato una lacuna nell’editoria per ragazzi a tema musicale, che nella maggior parte dei casi, qui in Italia, si concentra sui grandi compositori di musica classica e qualche jazzista, ma dedica poco spazio a generi come il pop e il rock. Inoltre, le storie di questi artisti per me hanno un grandissimo “messaggio” intrinseco da veicolare e volevo che arrivasse ai più giovani. Il target principale erano dunque i bambini e ragazzi dai 9-10 anni in su, ma nel suo esito finale il libro si è rivelato assolutamente adatto a lettori di tutte le età, sia per il racconto snello, che per la presenza delle curiosità e della top five, oltre che per le bellissime illustrazioni fatte dalla brava Lilla Bolecz che colpiscono a prescindere dall’età di chi guarda.

C’è una rockstar che ha segnato la tua vita? E una canzone?

Le star e i brani che hanno segnato la mia vita sono tantissimi e per me è davvero difficile rispondere a questa domanda. Da piccola ho ascoltato molto soul e cantautorato italiano, da adolescente molto rock e punk, adesso ho esplorato a fondo il pop e l’elettronica…. Se parliamo delle star del libro, sicuramente Aretha Franklin e Michael Jackson sono artisti a cui sono molto legata, ma anche i Ramones, i Nirvana, i Pink Floyd fanno parte della colonna sonora della mia vita.

Quali progetti hai per il futuro?

Per il futuro, sicuramente continuare a scrivere e a studiare musica. Mi piacerebbe poter avere di nuovo la possibilità di unire queste due passioni. Ad esempio, una cosa che spero di poter fare in futuro è quella di scrivere i testi dei brani di qualche bravo artista!




Mattia Marzi racconta come è nato “Tu lo conosci Coez”

Mattia Marzi, 24 anni, affermato e preparato giornalista musicale, redattore per Rockol, ha da poco pubblicato il suo primo libro, “Tu lo conosci Coez?”, sulla crescita umana e artistica del cantautore e rapper italiano Silvano Albanese, in arte Coez. Il libro, uscito lo scorso febbraio, è già un successo.

Un esordio letterario interessante. Perché un libro su Coez? Lo conoscevi? Come ti sei avvicinato al personaggio?

Innanzitutto permettimi di salutare tutti i lettori di “Cosmopeople” e di ringraziarvi per lo spazio che mi state dedicando. Dunque… Perché un libro su Coez? È stata la casa editrice a contattarmi per propormi di scrivere un libro su Coez, lo scorso settembre. Arcana stava per inaugurare una collana interamente dedicata ai cantautori del 2000 e tra i libri in programma c’era anche un volume dedicato a Coez. Lo conoscevo e avevo anche avuto modo di scrivere degli articoli su di lui per Rockol, il sito con il quale collaboro da ormai qualche anno e del quale sono uno dei redattori. In particolare, avevo recensito il suo ultimo album, “Faccio un casino”, e avevo parlato di Coez in un articolo sulla terza generazione di cantautori romani. È stato proprio dopo aver letto questi articoli che Arcana mi ha invitato a scrivere il libro e io ho accettato. Non vi nego che era da un po’ che sognavo di scrivere un libro, ma non mi ero mai sentito del tutto pronto a farlo. Forse non mi sentivo all’altezza o forse, più semplicemente, “non sapevo da dove iniziare” (quasi citando Coez!). Quando è arrivata la proposta di Arcana non ci ho pensato due volte: ho accettato e mi sono messo alla prova.

Mi sono avvicinato al personaggio semplicemente cercando di raccontare in modo onesto, sincero e schietto la storia di Coez (e spero di esserci riuscito): dalle prime rime scritte in cameretta fino al successo che ha ottenuto a livello “mainstream” con l’ultimo album, passando per l’esperienza con il suo primo gruppo, i Circolo Vizioso, il collettivo dei Brokenspeakers, il debutto come solista e la svolta di “Ali sporche”. Ho provato a raccontare non solo l’artista, ma anche la persona e la storia dietro le sue canzoni: il rapporto burrascoso con il padre, l’attaccamento alla mamma (alla quale ha recentemente dedicato anche “E yo mamma”), le tante porte che gli sono state sbattute in faccia, la fatica che ha fatto per arrivare al successo (per molto tempo i media “tradizionali”, “mainstream”, di Coez proprio non volevano saperne, perché secondo loro non era abbastanza “pop” per il pubblico generico e non era abbastanza rap per entrare in certi circuiti). Non è stato facile, prima di cominciare a scrivere il libro ho raccolto parecchio materiale, perché volevo che i contenuti fossero quanto più veritieri possibile. Anche se ho deciso di avvicinarmi molto, a livello di tono e di stile, alla forma del romanzo: proprio perché volevo raccontare una storia, ma con un taglio “giornalistico” nella ricerca dei contenuti.

Come hai raccolto il materiale per scrivere il libro?

Per raccontare gli ultimi tre album, “Non erano fiori” del 2013, “Niente che non va” del 2015 e “Faccio un casino” del 2017, quelli della svolta “cantautorale” per intenderci, ho avuto a disposizione parecchio materiale, tra interviste, videointerviste, recensioni e altro. Invece è stato più difficile andare a recuperare materiale relativo alla prima fase della sua carriera, quella precedente la svolta di “Ali sporche”, cioè il Coez-rapper. Sono andato a recuperare vecchie interviste ai Circolo Vizioso e ai Brokenspeakers e vecchi articoli su questi gruppi, con i quali Coez si è fatto conoscere all’inizio della sua carriera. Poi ho trovato spunti interessanti anche nei testi dei brani contenuti all’interno degli album del primo periodo, in particolar modo quelli dell’album solista “Figlio di nessuno”: lì Coez ha raccontato molto di sé e della sua storia personale. Ci tenevo ad essere preciso nel racconto dei fatti e delle vicende, così ho pensato di confrontarmi anche con chi è stato vicino a Coez nel momento cruciale della sua carriera, il passaggio da “rap” a “cantautorato”-“pop”: Riccardo Sinigallia (che ha prodotto l’album “Non erano fiori”) e Dario Giovannini di Carosello Records (che ha accolto Coez nel suo roster e ha pubblicato i suoi dischi tra il 2013 e il 2016). Entrambi hanno accettato di partecipare al progetto, di contribuire con una testimonianza: sono stati gentilissimi e il loro contributo è stato per me molto prezioso.

Secondo te, da esperto del settore musica, il rap è la musica del futuro? Anche in Italia? Ha ancora tanto da dire?

Parlare di “musica del futuro” secondo me è rischioso. Perché i tempi che stiamo vivendo sono decisamente frenetici. Le mode si rincorrono velocissime: una moda, o nel nostro caso un genere musicale, non fa in tempo ad affermarsi che subito arriva una nuova moda. Ora, ad esempio, va fortissima la trap, che nasce in ambito hip hop ma che sembra pian piano emanciparsi e diventare un genere a sé stante.

Il rap è nato negli Stati Uniti tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80, ma negli States ha raggiunto il successo “commerciale” solo qualche anno dopo. Il rap italiano è un caso particolare. I primi rapper hanno cominciato a farsi strada tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90 “scimmiottando” quelli americani. Per lungo tempo il rap, in Italia, è rimasto confinato all’interno del cosiddetto “underground” (se escludiamo casi come quelli di Jovanotti o degli Articolo 31, che però venivano accusati dai rapper duri e crudi e dai puristi di essere sostanzialmente dei “poppettari”). Anche perché erano gli stessi rapper che si auto-escludevano: per loro partecipare a manifestazioni come il Festivalbar oppure pubblicare pezzi più “radiofonici” era come svendersi al sistema. La vera testa d’ariete del rap italiano è stato Fabri Fibra, che con un album come “Tradimento” ha fatto il dito medio ai diktat della scena e ha dimostrato che era possibile fare un rap dai toni più “pop” ma dai contenuti importanti e coerenti con le radici del genere, restando comunque credibile. Un anno importante, per la storia del rap italiano, è stato il 2013: quell’anno i dischi dei rapper italiani hanno cominciato a scalare le classifiche. Però poi è come scattata una caccia ai primi posti: molti rapper hanno preferito avvicinarsi al “pop”, altri invece – come per reazione – sono tornati allo spirito degli esordi. Non so se il rap è davvero la musica del futuro e se ha ancora tanto da dire. Sicuramente come genere ha cambiato le carte in tavola e “rivoluzionato” – tra molte virgolette – la canzone italiana, non solo a livello di suoni e contenuti, ma anche a livello di spirito e di atteggiamento.

Stai lavorando ad altri progetti?

Per ora preferisco tenere la bocca cucita e non sbottonarmi. Scrivere il libro su Coez è stata una bella esperienza: mi ha insegnato molto e mi ha entusiasmato. E poi è stata la mia prima volta… e come tutte le prime volte è stata fantastica. Mettiamola così: non mi dispiacerebbe ripetere questa esperienza in un futuro prossimo. Chissà!




Barbara Foria torna al Nuovo con Eu…foria!

Torna al Teatro Nuovo di Milano un grande successo della scorsa stagione: Eu…foria! con la comicità travolgente di Barbara Foria.

Una carica esplosiva di femminilità e la consapevolezza di sentirsi, dopo i 40 anni, una “gnocca vintage” con ancora  un corpo da favola.

Barbara Foria, dopo una straordinaria edizione di Colorado su Italia 1 nei panni di Scianel (parodia di successo della boss di Gomorra), un cinepattone al fianco di Massimo Boldi, e dopo aver recitato al Teatro Manzoni e al Leonardo, è pronta a mostrare a Milano tutto il suo talento e la sua autoironia raccontando, in esilaranti monologhi, tutto quello che le donne non dicono, ma pensano!

Un mirabolante viaggio della donna d’oggi, in eterna lotta con i social, con whatsapp  e con l’amore sempre più virtuale e sempre meno reale. Una donna alle prese con il corpo che cambia e il metabolismo che va in blocco come le caldaie, e mai che si vedesse un’idraulico capace di sbloccare la situazione!

Barbara Foria affronta con la solita grande ironia i vizi e le virtù dell’essere donna con la D maiuscola, in balia di uomini con la C minuscola. Dove la C fa ovviamente riferimento al Cervello… o al Cuore.

La vita va vissuta con ironia e tanta euforia. Dopo i 40 ci chiamano M.I.L.F.? Per me è l’acronimo di: MO’ INIZIA LA FELICITÁ!

4 – 13 maggio 2018

Teatro Nuovo di Milano

Eu…foria!

di e con Barbara Foria

Biglietti e info

Tel. 02794026

Biglietti da 14,50€

www.teatronuovo.it




Autobiografia Erotica di Starnone in scena al Parenti

In un appartamento di Roma, un uomo e una donna, Aristide e Mariella, si rivedono dopo 20 anni. Non sono amici, solo due sconosciuti che si sono incontrati, una volta sola e per poche ore, 20 anni prima, e hanno avuto un furtivo e frettoloso rapporto sessuale.

Lui, pur non ricordando chi fosse quando ha ricevuto la sfacciata convocazione da parte di lei, accetta l’invito. Lei ora gli chiede di scavare in quelle poche ore di molti anni prima e di ricostruirle minutamente, utilizzando, per giunta, un linguaggio lascivo.

«Cosa è accaduto allora? La realizzazione di un puro, irresponsabile desiderio sessuale? Se è così – dice Mariella – perché parlarne con il linguaggio dolce dell’amore? Meglio l’oscenità».

Comincia così un gioco, in cui i due ripercorrono, scompongono e analizzano il loro primo incontro, mettendo a confronto, ora con allegria ora con crudeltà, due esperienze sulla sessualità molto diverse, alla ricerca di un punto di incontro.

In un mondo dove solo il sesso sembra dar senso alle cose, che sembra essersi trasformato in una nuova  religione laica con cui fare i conti quotidianamente, un ago della bilancia che soppesa, valuta, influenza ogni azione volontaria o involontaria.

E la psicanalisi, nuovo dogma dell’uomo moderno, fa da arbitro che ora assolve e ora condanna.

Domenico Starnone, dopo Lacci e La scuola, ritorna ancora una volta alla drammaturgia teatrale con Autobiografia Erotica (dal suo romanzo Autobiografia erotica di Aristide Gambía) in uno spettacolo diretto da Andrea De Rosa.

Credo che l’esperienza più importante che si possa fare ancora oggi a teatro è quella di mettere in discussione la propria identità – dice il regista Andrea De RosaPer questo sono affascinato da quei personaggi che, credendo di conoscersi, nel corso di un dramma o di una commedia finiscono invece per vedere sgretolarsi le proprie certezze, scoprono che ciò che credevano di sapere di sé stessi e della propria vita era falso, artefatto o almeno incompleto (Edipo è l’esempio più grande di questo tipo di personaggio). È ciò che accade ad Aristide Gambia, nel corso del bellissimo testo che Domenico Starnone ha tratto dal suo romanzo. Una donna si ripresenta nella vita di Aristide a distanza di vent’anni e lo invita, in maniera insieme ludica e misteriosa, a ripercorrere un episodio che lui aveva velocemente archiviato nel reparto “avventure erotiche senza importanza della mia vita”: una mezza giornata trascorsa insieme, una scopata veloce, vent’anni prima. Attraverso un linguaggio crudo ed esplicito, la memoria di quella giornata diventa pian piano il pretesto per andare a fondo nel pozzo nero della rimozione, dove spesso accantoniamo ciò che crediamo senza alcuna importanza e che è invece lì, in agguato, pronto a rimescolare profondamente il senso della nostra vita. Ho scelto di cancellare dalla scena e dal testo originale qualunque riferimento realistico. Dopo molti spettacoli in cui ho sperimentato a fondo gli apparati che le nuove tecnologie offrono al teatro (soprattutto nel campo delle tecnologie del suono), ho scelto stavolta di lavorare solo con gli attori, un tavolo e due sedie, per concentrarmi esclusivamente sulla domanda che il testo porta dentro di sé, l’unica che mi preme davvero: chi siamo noi, chi sono io veramente?

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24 – 29 aprile 2018

Teatro Franco Parenti – Sala AcomeA

Autobiografia Erotica

di Domenico Starnone
tratto da Autobiografia erotica di Aristide Gambía, romanzo di Domenico Starnone
con Vanessa Scalera e Pier Giorgio Bellocchio
Regia Andrea De Rosa

produzioni Cardellino srl

Biglietti
intero: platea 23,50€; galleria 18€
convenzioni > 18€
over 65/ under 26 > 15€
+ diritti di prevendita

Info e biglietteria 

Biglietteria
via Pier Lombardo 14
02 59995206
biglietteria@teatrofrancoparenti.it