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“ANIMALI NOTTURNI” – UN FILM SCONVOLGENTE E AVVINCENTE

di Elisa Pedini – In sala dal 17 novembre, il film “ANIMALI NOTTURNI”, a opera dello sceneggiatore e regista Tom Ford. Nell’adattamento al cinema del libro “Tony & Susan” di Austin Wright del 1993, il cineasta si è concentrato con uguale intensità sia sulla parola scritta che sull’immagine in movimento, dando vita a un prodotto solido e ben strutturato. Pellicola geniale, tremendamente coinvolgente, assolutamente sconvolgente e brutale, che fino all’ultima, intensa, inquadratura, non svela il suo lucido, cinico piano. In un climax di tensione, lo spettatore è portato a cercare un senso, invitato dagli indizi, disseminati nello svolgimento della trama, a tentare d’inferire la situazione, ma, è la fine, la chiave di lettura. La straordinaria intelligenza e bellezza del film fanno decisamente perdonare e dimenticare i primissimi cinque o sei minuti, che risultano abbastanza inutili e anche bruttini. “ANIMALI NOTTURNI” è, potrei dire, basato sulle contrapposizioni: non solo, ben nette tra protagonisti e antagonisti: Edward vs Hutton, Ray vs Bobby; ma anche, di passioni, tra amore e freddezza, malinconia e vendetta; di trama: la “realtà” contro la “fiction”; di luoghi: ambientazioni lussuose e cittadine contro posti umili e desolati in mezzo al nulla; di luci: i toni freddi e la penombra, quando non la notte, fronteggiano il giorno e i toni caldi in una “partita” continua, fino all’ultima scena, dove, a mio avviso, persino il colore del vestito della protagonista ha un senso, che definirei, freudiano. La tecnica della storia-nella-storia e delle contrapposizioni, crea un forte senso di suspense e di ansia, che tengono lo spettatore come in apnea e lo trascinano a desiderare, ardentemente, di sapere come tutto andrà a finire. Le interruzioni, operate ad arte, completano il gioco d’una sceneggiatura decisamente solida. La trama di “ANIMALI NOTTURNI” è, dunque, complessa. Susan e Hutton Morrow sono sposati, ricchi e con lavori interessanti. Susan ha una galleria d’arte ed è al suo secondo matrimonio. In realtà, suo marito non c’è mai, per viaggi, diciamo, d’affari. Lei, è una donna, che si descrive pragmatica e cinica, ma in realtà è depressa perché vive una vita priva d’amore e d’intimità. Il suo primo marito è Edward Sheffield, un romantico, un uomo che vive le sue emozioni e i suoi ideali. Lui, lavora in una libreria e intanto insegue il suo sogno di fare lo scrittore, lei, al principio, è affascinata dal profumo della libertà dei sogni e della forza d’inseguirli; ma, poi, comincia a volerlo diverso, fino al punto in cui la situazione degenera in un modo brutale e tutto finisce. È proprio dall’ex marito, che Susan non sente ormai da anni, che, un bel giorno, riceve un pacco: un romanzo, dal titolo “Animali notturni”, dedicato a lei. Hutton è di nuovo fuori città e la donna decide d’iniziare subito a leggere il libro. Il racconto è violento e devastante e la turba sin dal principio. È qui, che inizia la storia-nella-storia e l’intrecciarsi, nonché il contrapporsi, della vita “reale” e quella della “fiction”. Edward narra la storia di Tony Hastings. Siamo in Texas e l’uomo sta viaggiando in macchina, di notte, con la sua famiglia. Vengono assaliti e buttati fuori strada da un manipolo di pazzi, capitanati da Ray Marcus. La tensione raggiunge livelli molto alti, anche perché, fino all’ultimo, non si riesce a comprendere come evolverà la situazione. Purtroppo, molto male. La moglie e la figlia vengono rapite e lui abbandonato in mezzo al nulla. Quando riesce a tornare nella civiltà, Tony va subito alla polizia e il caso viene preso in carico dal Tenente Bobby Andes. Da questo momento, mentre le indagini, nel romanzo, si dipanano in situazioni sempre più inquietanti e brutali, la mente di Susan è spinta a ripiegarsi in un’indagine diversa, interiore, profonda e non per questo meno violenta. Riaffiorano i ricordi. Il passato torna al presente, con tutta la sua carica d’amore e di passione, di errori e di dolore. La storia narrata da Edward è forte, molto forte, tremendamente triste e cattiva. Queste precise caratteristiche richiamano altrettanto puntuali parole e momenti, nella memoria di Susan, relativamente alle scelte che ha fatto, al come le ha fatte e alle conseguenze che sono seguite alle sue decisioni. Il dolore che si risveglia in lei, comporta il riaffiorare d’un amore che lei pensava, ormai, finito e comincia a percepire il sapore della vendetta fra le righe di quel romanzo di Edward. Una percezione che ha, anche, lo spettatore. Come ho detto all’inizio, ci sono indizi che fanno presagire che ci sia molto di più oltre al romanzo. Tuttavia, quella sensazione di profonde inquietudine e confusione, dovute all’incertezza su come evolveranno, al dunque, gli eventi, non abbandona mai lo spettatore, mentre la storia procede verso una resa dei conti che riguarderà sia Tony, l’eroe del romanzo, che Susan stessa. “ANIMALI NOTTURNI” è un film, decisamente, ben costruito. Un cast straordinario completa l’opera: una convincente Amy Adams, nel ruolo di Susan Morrow, rende, anche col solo sguardo, le trasformazioni psicologiche che il suo personaggio subisce nel corso della vita; anche l’interpretazione di Jake Gyllenhaal, che recita nella parte sia di Edward che di Tony, risulta ben modulata sui personaggi, generosa e piuttosto intensa; Michael Shannon, ci mostra un Bobby Andes molto profondo e sfaccettato; infine sta a Aaron Taylor-Johnson interpretare, in modo acutamente credibile, lo psicopatico Ray Marcus.




Georges Mathieu: alla nascita dell’Astrazione Lirica

di Andrea Farano – Resta ancora qualche giorno utile per accostarsi (ed ammirare coi propri occhi) alla strabiliante potenza del tratto segnico di Georges Mathieu (Boulogne sur Mer, 1921 – Boulogne-Billancourt, 2012), uno dei padri della pittura del novecento, al quale la giovane Dellupi Arte dedica una retrospettiva di valore assoluto.

Sito all’interno dello straniante panorama di City Life, lo spazio espositivo accoglie un’antologia di opere realizzate dal pittore francese nelle due decadi fondamentali per la nascita e lo sviluppo della propria espressione artistica, selezionate in collaborazione con il Comité Georges Mathieu, a garanzia della qualità dell’allestimento apparecchiato dalla galleria milanese.

Già all’ingresso si è quasi tramortiti dalla monumentalità delle tele alle pareti, compiute testimonianze di quella “Astrazione Lirica” che a partire dal 1947 canalizza – attraverso un binomio semantico apparentemente inconciliabile – la poetica innovativa di Mathieu, capace di concepire una via autonoma e sempre riconoscibile nell’oceano delle correnti di pittura informale: si accosta alla scuola americana dell’ Action Painting e dell’Espressionismo Astratto (Pollock e De Kooning), guarda allo Spazialismo di Fontana e lambisce le avanguardie giapponesi del gruppo Gutai, pur restando una voce sostanzialmente unica nel panorama mondiale del secondo dopoguerra.

Questa nuova astrazione – che resta pur sempre profondamente gestuale – eleva a proprio totem una fenomenologia puramente pittorica, dove il coinvolgimento corporeo è totale, da vivere spesso attraverso una performance teatrale svolta sotto gli occhi del pubblico: i colori, sovente applicati sulla tela (dal fondo rigorosamente monocromo) direttamente dal tubetto, sfociano alternativamente in simboli calligrafici o esplodono in dinamismi al limite del caos.

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Eppure, a ben vedere, ogni composizione, nonostante l’apparente disordine, si struttura quasi sempre a partire da un asse centrale – sviluppandosi poi per linee ortogonali e curve semicircolari spinte all’esterno da forze centrifughe – in un costrutto che piuttosto rivela, in ultima analisi, un’energia solenne e pacificata.

2Sarebbe un errore lasciarsi abbagliare dalla facilità compositiva di Mathieu e confonderne la mano innegabilmente virtuosa con un mero decorativismo vuoto di contenuti; se nella sua poetica il segno anticipa il significato è solo per divenire mezzo di connessione fra l’inconscio e il mondo reale.

Nel suo gesto – apparentemente incontrollato, ma in realtà figlio di un processo di automatismo psichico di matrice surrealista – traspare con forza la dimensione di un pensiero profondo e complesso, che riflette e indaga sul passato, sul presente, sulla propria esistenza, trasmettendoci la febbre e l’eccitazione della vita… sino a travolgerci.

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I primi concetti dell’intelletto preesistono in noi come semi di scienza, questi sono conosciuti immediatamente dalla luce dell’intelletto agente dall’astrazione delle specie sensibili… in questi principi universali sono compresi, come germi di ragione, tutte le successive cognizioni.” | Tommaso d’Aquino

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Georges Mathieu: 1951-1969
Dellupi Arte, via Spinola n. 8 – Milano
sino al 20 novembre 2016
Info: www.dellupiarte.com




“SING STREET” – UN INNO ALLA VITA

di Elisa Pedini – In sala da domani, 9 novembre, il film “SING STREET”, per la regia di John Carney. Pellicola veramente ben fatta: coinvolgente, commovente ed anche divertente, “romantica” nel senso più pieno del termine, ovvero, non solo dal punto di vista emotivo-sentimentale, ma anche di valori e ideali. Un film di formazione, costruito sulle fondamenta musicali delle band inglesi degli anni ’80 e sulla straordinaria rappresentazione tanto delle atmosfere, quanto delle ambientazioni, quanto delle mode di quegli anni. Lo spettatore viene, letteralmente, calato in quel periodo storico e lo vive, contemporaneamente, ai personaggi. “SING STREET” è ambientato nella Dublino degli anni ’80, quando, una profonda recessione socio-economica porta alla mancanza di lavoro, alla fuga dei giovani, a profondi cambiamenti nelle economie domestiche. «È una storia di contrasti» ci dice il regista «tra Irlanda e Inghilterra, tra Dublino e Londra, tra ricchezza e povertà, tra scuola privata e scuola pubblica (…) una storia di “prima e dopo”». Tutto questo, filtrato dagli occhi d’un adolescente, Conor, che si trova, da un lato, a dover fare i conti con quanto cambia nella sua vita relazionale e dall’altro, ad assistere allo sgretolarsi del matrimonio dei suoi genitori, in un’Irlanda che, in questo periodo, proibisce il divorzio e non ammette relazioni al di fuori d’un’unione regolare. La vita in famiglia ha, da molto tempo, forti tensioni, registrate in modo diverso dai tre figli. La bolla scoppia con il sopraggiungere dei problemi lavorativi del padre. Una mattina, viene comunicato a Conor che verrà tolto dalla scuola privata, che frequenta, per andare alla scuola pubblica: la “Synge Street”. Nonostante le rimostranze del ragazzo, tutto è stato già deciso. Mi piace, qui, sottolineare, ancora, le parole di Carney: «volevo fare qualcosa di musicale che fosse ancora più personale, qualcosa solidamente autobiografico». Difatti, John, come Conor, è passato da una scuola privata, raffinata ed elegante a quella di Synge Street, per un intero anno e ha subito le stesse trasformazioni del personaggio principale del film: da un’esperienza educativa benestante, a una popolare, più violenta e più rozza. Tuttavia, nonostante l’ambiente decisamente ostile, Conor ha una mente libera e usa proprio la sua intelligenza e il suo talento per emergere da quel contesto. L’occasione gli arriva, in realtà, del tutto casualmente, dal tentativo d’avvicinare una ragazza bellissima: Raphina. È assolutamente tangibile l’abisso, reale o apparente, che li separa; ma Conor ha un’idea, fulminea quanto folle, che mette immediatamente in atto: propone a Raphina di fare la protagonista femminile del video della sua band. Lei accetta e gli da il suo numero. Sembra tutto straordinariamente fantastico, se non fosse per il piccolo particolare che non c’è nessuna band e non c’è nessun video, almeno fino a quel momento. Tuttavia, questa è una meravigliosa storia d’un ragazzo forte, coraggioso, idealista, che, nonostante la sua giovane età, sa molto bene cosa vuole. “SING STREET” è un inno alla vita, è il percorso d’un ragazzo straordinario, che diventa uomo straordinario. È la storia d’un processo, d’una crescita. Un talento naturale, che non può che creare, attorno a sé, qualcosa di naturalmente talentuoso. Volutamente resto vaga per non rovinarvi il gusto e la sorpresa di quanto vedrete sullo schermo. Qualcosa di travolgente che vi entrerà dentro, come solo la musica e le anime “romantiche” possono essere capaci di fare. “SING STREET” fa ridere e in certi punti diventa proprio esilarante, fa sognare e vibrare di ideali, fa commuovere e riflettere malinconicamente, fa sorridere e intenerire. Una regia che intelligentemente e saggiamente accarezza i volti in primo piano per i sogni, delega al primo piano americano le decisioni, o le scelte, o le contrapposizioni e poi gioca, con lo spettatore e con le emozioni, fra soggettive e panoramiche. Ritroviamo tutta la freschezza e l’innocenza dell’adolescenza, ma anche tutta la sua forza nel credere, nel rischiare, nel desiderare. Una pellicola davvero vibrante, solida e ben costruita. Menzione d’onore va fatta per la musica, che è davvero straordinaria: autentici sensibilità e ritmo anni ’80. Va sottolineato che, John Carney ha voluto il supporto del brillante cantautore Gary Clark, sin dalle prime fasi di lavorazione, ben un mese prima dal fattivo inizio delle riprese e proprio per avere dei pezzi che riproducessero, esattamente, gli stili di quei tempi e raccontassero, dunque, anch’essi, la storia. Concludo con i personaggi, perfettamente definiti, sia nel carattere, che nell’evoluzione, seppur con semplici tratti essenziali. Veramente magistrale e altrettanto, si mostra l’interpretazione dei medesimi, decisamente naturale, coinvolgente e intensa da parte di tutto il cast, che, però, è anche molto nutrito, quindi, mi limiterò a citare i due soli attori principali: Fredia Walsh-Peelo, nel ruolo di Conor e Lucy Boynton, nella parte di Raphina.




A SPASSO CON BOB” – UNA MERAVIGLIOSA “FAVOLA” VERA

di Elisa Pedini – Dal 9 novembre al cinema, arriva il film “A SPASSO CON BOB”, per la regia di Roger Spottiswoode. Pellicola coinvolgente, empatica, toccante, delicata, che fa ritrovare il piacere d’andare al cinema. Una “favola”, che s’apprezza e s’assapora ancora di più, sapendo che è vita vera, vissuta, dall’inizio alla fine, da una persona reale e vivente. Tanto che il film è tratto dal romanzo autobiografico “A spasso con Bob”, uscito nelle librerie italiane il 18 ottobre, ma, in realtà, già un bestseller, con sette milioni di copie vendute in tutto il mondo e posizionatosi al 23° posto dei libri più venduti, in Inghilterra, negli ultimi quarant’anni. Spesso, ci sentiamo ripetere che nella vita può succedere di tutto, ma è una di quelle frasi fatte, talmente usurate, da non avere più alcun valore informativo. La vita di James Bowen, viene, all’improvviso, a portarci un arcobaleno nel cuore, a ricordarci che, davvero, nella vita, tutto può succedere, anche nei momenti più bui, anche quando s’è già toccato il fondo. “A SPASSO CON BOB” è la storia d’un’amicizia speciale, d’un rapporto profondo, che nasce per caso, come tante relazioni nella quotidianità, per diventare “il rapporto” della vita. È la storia d’un ragazzo di strada: James. Un tossico, che ha tentato mille volte d’uscire dal tunnel della droga senza riuscirci. Un barbone, che dorme per strada, fruga nei cassonetti e raccimola qualche spicciolo suonando la sua chitarra al Covent Garden Market. Insomma, James, è un outcast, è uno dei tanti “invisibili”, che popolano i bordi delle strade delle grandi città. Non ha una famiglia, o meglio, ce l’ha, ma è troppo impegnata nel suo perbenismo per occuparsi di lui e sceglie, che sia più opportuno fingere che il figlio non esista. Dal canto suo, James, ha iniziato a farsi molto giovane, ponendosi, lui per primo, al di fuori delle regole borghesi del suo entourage. Non ha un lavoro ed è abbastanza logico pensare che abbia impiegato le sue energie nel trovarsi una dose, piuttosto che nel cercarsi un impiego. Tirando le somme, questo ragazzo, ha fallito su tutta la linea. Tuttavia, ha toccato il fondo ed è stanco di tutto questo. Intraprende, di nuovo, la terapia col metadone per cercare d’uscire dalla tossicodipendenza; ma, vivendo in strada, continua ad inciampare nelle solite vecchie compagnie e ricaderci è facile. Talmente facile, che James sta a un passo dal morire. La sua assistente sociale vede in lui delle potenzialità e comprende perfettamente il problema, così, s’impegna in tutti i modi per fargli assegnare un alloggio popolare e levarlo dal pericolo numero uno: la strada. Non senza difficoltà, ci riesce. Ora, il ragazzo ha un tetto sulla testa. Lontano dalle insidie. Mentre si gode un bel bagno caldo, che per lui è una sorta di “ritorno alla vita”, sente dei rumori in casa. Pensa sia un ladro, ma quando va in cucina, vede lui: un bellissimo micione fulvo, entrato dalla finestra aperta e alla ricerca di cibo. Tenta di farlo uscire, ma ha già perso in partenza. Impossibile resistere allo sguardo implorante d’un gatto. Il giorno dopo, lo lascia fuori e va a suonare a Covent Garden. Di ritorno al suo alloggio, il micione, stremato e ferito, lo sta aspettando. Si narra che i gatti siano animali talmente empatici, da sentire quando un umano ha bisogno di loro e dunque, lo scelgano. Personalmente, condividendo, praticamente da sempre, la mia vita con dei felini, sono portata a dire che sia assolutamente vero. Tuttavia, a prescindere da questo, la vita di James è messa davanti a un bivio e cambia totalmente, nel momento in cui, decide che la vita del suo nuovo amico, cui da nome Bob, sia più importante di lui e del suo egoismo. È il primo passo verso il vero cambiamento. Da questo momento, il ragazzo di strada, che doveva occuparsi solo di se stesso, ha la pesante responsabilità della vita d’un altro esserino, randagio e solo, esattamente come lui. È il punto di rottura tra la vita di prima, fatta solo di “vorrei” e di “domani forse” e quella di oggi, fatta di scelte e decisioni da prendere, “hic et nunc”, perché in ballo c’è la vita d’un altro essere vivente. Non vi dico altro, perché la storia di questi due amici, che divengono un sinodo e dividono tutto, va davvero gustata, in prima persona, fino all’ultimo minuto del film. Momenti felici e momenti drammatici si alternano. La vita non è mai facile, ma “insieme” ci si può riuscire. “A SPASSO CON BOB” è un capolavoro di emozioni, proprio perché vita reale e c’insegna molto, anzi, meglio, ci fa ricordare molto. Menzione particolare va all’interpretazione del protagonista del film: Luke Treadway, nel ruolo, appunto, di James Bowen: una recitazione intensa, totalmente calata nella parte, che rende, con grande credibilità e naturalezza, lo spessore psicologico ed emotivo del suo personaggio, in ogni stadio della sua crescita evolutiva. Infine, non si può non citare lo straordinario Bob, nel ruolo di se stesso, potendo sostenere, con grande sicurezza, che se esistessero gli Oscar per i felini, lui, certamente, sarebbe il candidato favorito a quello per miglior gatto protagonista.




Oasis: Supersonic, dai sobborghi al mito

di Elisa Pedini – Arriva al cinema il 7, 8, 9 novembre, l’atteso film “Oasis: Supersonic” in cui si ripercorre l’ascesa degli Oasis. “Oasis: Supersonic” è diretto da Mat Whitecross, ben noto per aver girato la maggioranza dei videoclip dei Coldplay e film del calibro di “Sex & Drugs & Rock & Roll” su Ian Dury (2010), o “Spike Island” sugli Stone Roses (2012). A mio avviso, nessuno meglio di lui avrebbe potuto realizzare questo docu-film. Pellicola di forte impatto: coraggiosa, coinvolgente, graffiante, “belligerante”, ma anche incoraggiante e sognatrice. Il ritmo serrato e avvincente, con cui le immagini, tutte di repertorio, si susseguono, è proprio quello d’un videoclip. Le interviste, gestite come voci fuori campo, danno veramente l’impressione d’un racconto estemporaneo di vita vissuta. Sembra che i due fratelli parlino, lì, insieme, davanti agli spettatori, quando, in realtà, ad oggi, non si parlano più.

Il risultato di “Oasis: Supersonic” è qualcosa di spettacolare: due ore piacevoli ed emotivamente molto impattanti, che scorrono con grande fluidità. Uno specchio chiaro della vita, della storia e delle personalità dei due protagonisti: i fratelli Liam e Noel Gallagher, che hanno dato vita a un vero e proprio miracolo musicale: gli Oasis.

In soli tre anni sono arrivati a dominare totalmente le scene musicali, senza concorrenti, poi, la rottura. «Tutto troppo in fretta» dicono. Bellissimo, anche, il paragone che fanno tra il successo e una macchina da corsa potente: entrambi belli da vedere, belli da guidare, ma se non si sa gestirli, il rischio d’andare troppo veloci e perdere il controllo, è altamente probabile. La giovane età, il successo repentino e le pressioni pesanti dell’industria discografica, portano al collasso il già altalenante rapporto tra Liam e Noel. I fratelli Gallagher, tre in tutto, crescono nella realtà povera e desolante dei quartieri popolari della periferia di Manchester, con un padre assente e molto violento e una madre che deve fare tre lavori per sbarcare il lunario. È una vita difficile, una vita dura, soprattutto, quando si è piccoli e molte cose non si è in grado di spiegarsele. La violenza, poi, non ha mai una spiegazione, né una giustificazione. Mentre le botte svuotano l’anima, la rabbia la riempie. Da qui, da questa realtà, apparentemente senza scampo, Noel trova la sua evasione nella musica; Liam, il più piccolo, stenta a trovare un vero interesse e sarà una martellata in testa, racconta egli stesso, a fargli scoprire la sua passione per la musica e la successiva epiphany sarà un concerto degli Stone Roses a Manchester.

Veramente toccante e vivido il racconto delle loro vite, dalla viva voce dei due protagonisti e delle persone a loro vicine in quei momenti. Le emozioni scatenate sono vere e proprie “bombe”, che fanno accapponare la pelle. Due talenti innati e due leader naturali di altissima caratura, ma di personalità, totalmente, opposte. Un “gatto” e un “cane”, si descrivono. Da cui, le litigate, le rivalità.

Lascio a voi la sorpresa di scoprirle in modo approfondito, mentre salto direttamente a quell’aprile del 1994, quando, col singolo “Supersonic”, la band indie, proveniente dai sobborghi di Manchester, s’impone all’attenzione del panorama musicale. Sono solo esordienti, ma, nell’agosto del medesimo anno, il loro album “Definitely Maybe”, scala le classifiche e vince sette dischi di platino con oltre due milioni di copie vendute. Il titolo è un ossimoro, come i due fratelli Gallagher, direi. Dopo tanto tempo di lavoro durissimo e di gavetta nell’oscurità, finalmente, la svolta e diventano giganti della musica. Sta accadendo qualcosa di biblico, qualcosa di “supersonico”, destinato a cambiare, completamente, il panorama musicale e la vita di Liam e Noel.

Nell’agosto del 1996, gli Oasis, sono i protagonisti indiscussi della scena musicale mondiale. Hanno, letteralmente, dato vita a una realtà unica e mai vista prima, né dopo, vien da dire. I loro concerti a Knebworth raccolgono un pubblico di 250000 persone e con altri due milioni e mezzo di fans alla ricerca disperata di biglietti. Un evento storico, anzi, mitico. Per chi, come me, viveva in quel periodo i suoi vent’anni, non può non sentirsi compartecipe di quanto vede sul grande schermo e non solo, perché, oggettivamente, è un film straordinario, ma anche, per la forte carica empatica. Le emozioni suscitate dal film, si fondono e si confondono con i ricordi personali, che, sulle note delle canzoni e sulla voce, roca e graffiante, di Liam, si dipanano nella mente come un secondo, privatissimo, film. Inutile, sottolineare l’impatto interiore che, ovviamente, fa venire i lucciconi agli occhi.

Alla fine della proiezione, la sala esplode in un applauso che stenta a fermarsi. L’emozione è davvero tangibile. “Oasis: Supersonic” è un film da gustare dall’inizio alla fine. Una pellicola che, all’inizio, ho definito, anche, incoraggiante e sognatrice, perché, in questo mondo dominato dai social e dal business, di scene come quelle che vedrete nel film, non se ne vedono più. Di visionari folli e spericolati, non ce ne sono più. Questo film vuole essere, per un verso, un incoraggiamento per le nuove band di giovani a credere nei loro sogni, risvegliare la passione e saper, anche, rischiare per essa; per l’altro, un monito a prestare attenzione a non perdere il controllo e a non permettere all’industria musicale di limitare i propri orizzonti.




Alex Mastromarino e Jersey Boys tornano in Italia

Jersey Boys”, il pluripremiato show rivelazione della scorsa stagione, vincitore degli Italian Musical Awards, torna a Milano al Teatro Nuovo dal 3 al 20 novembre, dopo aver conquistato il pubblico parigino. Lo spettacolo del regista Claudio Insegno, infatti, ha letteralmente sbancato al Folies Bergère di Parigi, registrando il tutto esaurito ogni sera, standing ovations da parte di un pubblico coinvolto e molto entusiasta nonché un grande successo di critica sulla stampa locale.

Abbiamo incontrato Alex Mastromarino, il protagonista di questo entusiasmante show. Alex, che veste i panni di Frankie Valli, storica indimenticabile voce dei Four Seasons, è stato scelto tra oltre duemila perfomer e, dopo tanti anni da caratterista, ora è al suo primo vero ruolo da protagonista.

D. Alex, calchi le scene da circa 16 anni, sei un performer completo, cosa ti ha portato a voler far parte del cast di “Jersey Boys”?

R. Intanto “Jersey Boys” segna il mio ritorno al musical, dopo tre anni di fermo in cui mi sono dedicato all’apertura della mia accademia a Livorno, la WOS Academy, nella quale a tutt’oggi insegno. In questi 16 anni di palco scenico ho fatto tanti spettacoli, tutte esperienze favolose. Tra i tanti mi piace ricordare “Pippi Calzelunghe” con Gigi Proietti e la regia di Fabrizio Angelini; “Aladin” con Manuel Frattini, in cui interpretavo Abù; due spettacoli che ho fatto con Paolo Ruffini; e naturalmente i musical fatti con Compagnia della Rancia: “The Producers” con Enzo Iacchetti e Gianluca Guidi e “Grease” in cui avevo il ruolo di Roger. Tutte bellissime esperienze, che mi hanno dato molto, ma in cui ero un caratterista. “Jersey Boys” mi ha convinto a ritornare al musical perché finalmente non sarei più stato un caratterista ma un personaggio a tutto tondo, completo, che vive momenti drammatici, commoventi e anche divertenti. Finalmente un ruolo da protagonista.

D. Frankie Valli è un personaggio completo quindi?

R. Questo spettacolo è costruito tutto in flash back. I 4 ragazzi, i Four Season, ricordano e rivivono il loro percorso artistico dagli albori fino ad oggi o meglio fino al 1999, anno in cui sono stati inseriti nella Vocal Group Hall of Fame. Il mio Frankie, in scena, vive dai 16 anni fino ai 65. Anche per questo è un personaggio a tutto tondo.

D. Come è stato lavorare con Claudio Insegno?

R. È stato fantastico! Claudio è un grande, una persona molto simpatica. La cosa che più ho apprezzato di lui è che ci ha lasciato molta libertà nella creazione dei personaggi. Non ci ha obbligati a restare fedeli al copione né ad imparare miliardi di battute o movimenti a memoria, lasciando così la possibilità di costruirci i personaggi addosso, di metterci molto di noi stessi. Questa libertà ha permesso anche di avere sempre un clima molto sereno e giocoso durante le prove.

D. Lo spettacolo è fedele all’originale inglese?

R. Assolutamente, sia a livello di scenografia sia di costumi sia di coreografie. Unica modifica, e anche in questo Claudio è stato un grande, è l’umorismo. Le battute sono state adattate al pubblico italiano. L’umorismo anglosassone non avrebbe di certo funzionato qui da noi. Claudio ha caratterizzato moltissimo l’ensemble, tutti attori bravissimi, un cast meraviglioso, di grandi eccellenze, “italianizzandolo” a livello di battute e di testo.

D. “Italianizzazione” che è stata apprezzata anche a Parigi. Come è andata al Folies Bergère?

R. È stata una grandissima esperienza! Mai mi sarei aspettato che lo spettacolo arrivasse fino in Francia. Non mi sono accorto della grandiosità di questa trasferta fino a quando non ho realizzato appieno che eravamo su tutti i giornali locali, come Le Monde, Le Parisien,… Lì ho capito che stavo vivendo una situazione fantastica, fuori dal comune. Sono rimasto stupito dal successo che abbiamo avuto, anche perché lo spettacolo era in italiano con sottotitoli in inglese. Invece il pubblico era entusiasta. Ogni sera vi era grande partecipazione: la gente rideva, applaudiva e si alzava a ballare. E noi che pensavamo di trovare un pubblico ipercritico e silenzioso! Ogni sera, molte persone mi aspettavano per firmare autografi e scattare foto. E la mia vocalità ha suscitato grande interesse: sono stato invitato per interviste in molte trasmissioni televisive e sono stato ospite presso la prestigiosa Accademia Nazionale del Musical. È stato straordinario. Si sono formati contatti e anche prospettive di lavoro. Non escludo di dover tornare a breve in Francia!

D. Alex, sei cantante, ballerino, attore ma anche regista e autore di spettacoli anche musical…

R. …parlare di me come regista forse è dire troppo! Non mi sono mai sentito un regista, ho fatto delle piccole cose per delle produzioni semi professionistiche ma preferisco lasciar fare questo mestiere a chi lo sa davvero fare. Sicuramente ho avuto anche questo tipo di esperienza.

D. Che cosa vedi nel tuo futuro oltre ad un possibile ritorno in Francia?

R. Nel mio futuro vedo sempre la mia WOS Academy di Livorno. Amo insegnare, amo portare i miei ragazzi a vivere le belle esperienze che mi concedo di tanto in tanto anche io. Laureandomi in vocal coaching mi sono avvicinato all’insegnamento, un mondo che mi affascina tantissimo, mi ha preso molto, ed è una strada che non lascerò mai, anzi vorrei coltivarla sempre di più perché amo davvero fare il vocal coach. Ovviamente mi piacerebbe anche fare altre esperienze a livello di spettacoli. Ora che mi sono avvicinato all’esperienza da protagonista, mi piacerebbe andare a ricoprire quei ruoli che, fisicamente, a livello attoriale, potrebbero essere congeniali per me come, ad esempio, Seamur nella “Piccola Bottega degli Orrori”.

D. C’è un musical in particolare che ti piacerebbe fare?

R. C’è uno spettacolo che ho amato moltissimo, uno spettacolo tutto italiano: “Hollywood – Ritratto di un Divo” che vedeva il grande Massimo Ranieri nel ruolo del protagonista, John Gilbert. Questo ruolo mi ha sempre molto affascinato e mi piacerebbe moltissimo un giorno poterlo fare anche io. Inoltre so che presto arriverà anche l’edizione italiana di “Mary Poppins”! Se alla produzione andasse bene un Bert non troppo alto… io mi propongo!




Montelvini: tradizione e avanguardia per spumanti da favola

Le bollicine italiane sono sempre le migliori. Quando poi sono targate Montelvini, sono decisamente perfette.

Montelvini è un’azienda vinicola, con sede a Venegazzù, in provincia di Treviso, nel cuore delle aree DOCG Prosecco Superiore Asolo e Rosso Montello e della DOC Montello e Colli Asolano. La zona fa capo ad Asolo, la “Città dei Cento Orizzonti“, uno dei borghi più belli di Italia, ricco di storia e di tradizioni.

Da 135 anni e ben cinque generazioni, l’azienda è guidata dalla famiglia Serena, oggi da Armando con i figli Alberto e Sarah.

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Pur rimanendo legata alla tradizione vinicola del territorio e alla sua cultura, Montelvini è continuamente rimasta al passo con i tempi e con la tecnologia per offrire prodotti di qualità sempre più eccellenti.

Montelvini oggi vanta più di mille clienti sul mercato nazionale, è presente in ben 40 paesi nel mondo e ha una produzione di oltre 4 milioni di bottiglie.

Tradizione e avanguardia si riflettono sul fatturato: 23 milioni di euro per l’anno 2015, un dato che legittima l’aspettativa di un raddoppio di fatturato con, ovviamente, un raddoppio di produzione di bottiglie, entro il 2020.

Cinque sono le linee di produzione che compongono l’offerta Montelvini: Collezione Serenitatis, Collezione Master, Collezione Promosso, Collezione Plumage e Collezione Vintage.

E cinque sono le bottiglie che vi presentiamo, tutte di grandissima qualità.

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Spumanti vivaci, fruttati, con spuma rotonda che riempie il palato, da gustare nelle occasioni più disparate o da regalare, come la prestigiosa Gift Box Natale 2016.

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Cin cin a tutti.

Per maggiori info: www.montelvini.it




Il mito di Evita secondo Massimo Romeo Piparo

È uno dei capolavori indiscussi di Andrew Lloyd Webber, insieme a Cats e The Phantom of the Opera. Nato come concept album nel 1975, ha debuttato nel West End a Londra nel 1978 e a Broadway nel 1979 raccogliendo un grande successo di pubblico e critica. Da allora ha continuato a conquistare il cuore del pubblico nei vari allestimenti che si sono susseguiti in tanti paesi del mondo. Oggi, per la prima volta, arriva in lingua italiana in una nuova grande produzione firmata dal re Mida del musical Massimo Romeo Piparo e con una protagonista d’eccezione: Malika Ayane. Stiamo parlando di Evita, il musical più atteso di questa stagione.

Il celebre musical, scritto da Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, è liberamente ispirato alla vita dell’indimenticabile e carismatica moglie del presidente argentino Juan Domingo Perón. In questa vera e propria “opera rock”, tra le più famose e amate della storia del Musical, Piparo ha curato ogni dettaglio, dalla regia all’adattamento in italiano, traducendo gli splendidi testi di tutte le 27 canzoni scritte da Tim Rice, tra cui l’indimenticabile Don’t Cry for me Argentina (Da ora in poi in Argentina) e la canzone premio Oscar You Must Love Me (Stai qui, sii mio), scritta appositamente per l’edizione cinematografica di Alan Parker del 1996 con Madonna, nel ruolo principale, Antonio Banderas e Jonathan Pryce.

Con Malika sul palco un cast di grandi eccellenze del musical italiano, tra cui il bravissimo Filippo Strocchi nel ruolo del Che, Enrico Bernardi e Tiziano Edini in quelli di Juan Perón e Augustìn Magaldi.

Il debutto di Evita arriverà il 9 novembre al Teatro della Luna di Milano (dopo alcune anteprime il 4, 5 e 6 al Teatro Team di Bari) e proseguirà poi in tour a Genova (Politeama Genovese dal 29 novembre), a Firenze (Teatro Verdi dal 6 dicembre) fino ad approdare a Roma, sul palco del Teatro Sistina, dove lo spettacolo sarà in scena per tutto il periodo delle Festività, a partire dal 14 dicembre (fino al 15 gennaio). Il tour italiano si chiuderà al Politeama Rossetti di Trieste (dal 18 gennaio).

Per il pubblico lo spettacolo rappresenta l’opportunità di scoprire le tappe fondamentali della vita della grande eroina, e al tempo stesso la possibilità di vivere insieme ai protagonisti le emozioni dei 27 brani che compongono quest’opera musicale, tutti eseguiti dal vivo sul palco dalla grande orchestra diretta dal maestro Emanuele Friello.

Ogni sera, grazie alle fantastiche scene di Teresa Caruso, al grande lavoro sui costumi svolto da Cecilia Betona, alle bellissime coreografie di Roberto Croce e all’incredibile talento di un grande cast composto da oltre 40 artisti tra attori e orchestrali, il pubblico vivrà la magia di poter tornare indietro nel ‘900, direttamente negli anni in cui Evita fece conoscere al mondo la sua eccezionale e controversa personalità.

In questa emozionante avventura umana e professionale, grandissimo sarà l’impegno per Malika Ayane e per i suoi compagni di viaggio, che si troveranno faccia a faccia con il racconto di una grande storia in uno spettacolo davvero imponente.

Molto amata dal pubblico per la classe e le suggestioni della sua voce, Malika Ayane metterà il suo poliedrico talento al servizio di un personaggio complesso e affascinante, dalle mille sfaccettature, in un Musical sofisticato e curatissimo, che fa dell’intensità e delle emozioni forti le sue carte vincenti. Le luci e le ombre di una figura entrata nell’immaginario collettivo popolare come Evita, eroina emblema di tenacia, carisma e determinazione, saranno dunque restituite al pubblico in uno spettacolo di grande impatto.

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foto Antonio Agostini




Il ritorno di Siddhartha

Dopo il grande successo di pubblico e di critica ottenuto prima nel tour italiano del 2013 e, successivamente, in quello internazionale, che ha portato lo spettacolo nelle più grandi capitali europee (come Edimburgo e Parigi), in America (New York e Los Angeles), in Asia (India, Cina, Giappone, Corea, Brunei) e oggi in Messico a Guadalajara, l’opera pop “Siddhartha The Musical” si prepara a tornare in Italia.

Dal 2 febbraio 2017, infatti, lo spettacolo sarà ospitato sul palco milanese del teatro LinearCiak nella nuova versione internazionale, con nuove scenografie, nuovi costumi e nuove coreografie.

Lo spettacolo, prodotto da Lilith Sa | Gloria Grace Alanis, è il primo musical tutto italiano distribuito nel mondo da Broadway International Company, LLC.

Tratto dall’omonimo romanzo di Herman Hesse, il musical Siddhartha, scritto da Isabeau, Fabio Codega e Fabrizio Carbon, racconta la storia di un principe destinato al lusso e alla bellezza che, spogliatosi delle sue vesti, lascia il suo mondo dorato e si mette in cammino alla ricerca dell’illuminazione, scoprendo così la vera essenza della vita e le ragioni della sofferenza. Lo spettacolo vuole rappresentare le grandi emozioni dell’esistere: la gioia della nascita, il fulgore della gloria, il dramma della morte, la strenua lotta della autentica ricerca interiore e la completa felicità nella ritrovata illuminazione.

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Un susseguirsi di quadri ed emozioni che coinvolgono il pubblico, lo emozionano, lo stupiscono fornendo spunti di riflessione: in un’epoca di crisi di valori e di grandi trasformazioni socio economiche, la storia di Siddhartha rivela il senso profondo del vivere e la necessità di occuparsi gli uni degli altri.

Il tutto messo in scena da un grande cast di cantanti e ballerini e da un intenso Giorgio Adamo nel ruolo del protagonista.

Le musiche coniugano echi della antica cultura indiana fino alle più contemporanee sonorità e, insieme alle scenografie e alle maxiproiezioni, avvolgono gli spettatori in un’esperienza multisensoriale molto coinvolgente.

Importante il contributo musicale di Beppe Carletti dei Nomadi, che firma un finale emozionante e coinvolgente, e di Osvaldo Pizzoli che, con il flauto, ha “colorato” le aree del Musical.

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FIGLI DI UN DIO MINORE: una grande emozione a teatro

Era il 1986 quando arrivava sul grande schermo il film di Randa HainesFigli di un Dio minore“, una delle storie d’amore più intense e commoventi di questi anni.

A distanza di 30 anni dal film, “Figli di un Do minore” torna nella sua sede naturale, a teatro, nella sua prima versione stesa da Mark Medoff, mai adattata prima in italiano.

Il dramma romantico che sfida le regole, abbatte le barriere e parla dritto al cuore, sarà infatti in scena al Teatro Franco Parenti di Milano dal 26 ottobre al 6 novembre.

Sul palco, Giorgio Lupano interpreta l’insegnante logopedista James Leeds, un giovane professore dai metodi poco convenzionali che fa breccia nell’istituto per sordi in cui lavora ma si scontra con l’ex allieva Sarah, interpretata dall’attrice sorda Rita Mazza, svelando e cercando di risolvere le incomunicabilità fra due mondi.

Per Lupano, già amato dal pubblico per le fiction interpretate in tv e diretto in scena e al cinema da grandi registi come Luca Ronconi o Roberto Andò, l’esperienza di Figli di un Dio minore non è come le altre: “In una carriera teatrale non è semplice trovare uno spettacolo davvero importante e significativo per la vita di un attore: dopo esperienze importante come il debutto con Ronconi, il mio primo lavoro teatrale oltreoceano, la mia prima regia andata in tour per 6 anni, finalmente ora ne ho trovato un altro”, dichiara il protagonista.

Un’esperienza tanto incisiva per l’esistenza e la carriera di Lupano, da portare l’attore ad affrontare un anno e mezzo di studio intensivo nell’Istituto Statale dei Sordi di Roma per apprendere la Lingua dei Segni Italiana e imparare a interagire con attori sordi.

L’allestimento, diretto da Marco Mattolini, mescola così in modo del tutto originale la comunicazione orale e quella gestuale, in un incontro di parole e sentimenti che cattura il pubblico e gli attori stessi. “L’integrazione tra sordi e udenti non è solo il punto di partenza della storia, ma anche l’esito dello spettacolo stesso – prosegue Lupano – Recitare con la lingua dei segni coinvolge il pubblico e io stesso sento di andare oltre la verosimiglianza: è verità messa in scena sul palco, un momento emozionante che arricchisce me e gli spettatori insieme”.

La tournée di “Figli di un Dio minore”, partita la scorsa stagione dalla Sala Umberto di Roma, è stata un successo quasi inatteso: “Molti produttori avevano paura di mettere in scena uno spettacolo di questo tipo, ma dopo aver notato l’afflusso continuo e ripetuto di spettatori la voce si è sparsa velocemente – racconta il protagonista – Io spero di portarlo in scena per molti anni ancora”.

La tournée in partenza da Milano toccherà in questa stagione alcune delle piazze più importanti d’Italia, passando tra le altre da Torino, Roma e Napoli per 65 nuove repliche in programma fino ad aprile.

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FIGLI DI UN DIO MINORE

dal 26 ottobre al 6 novembre

Teatro Franco Parenti | Milano – Via Pier Lombardo 14