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La più grande stagione di sempre al teatro Manzoni di Milano

Il Teatro Manzoni di Milano lancia la sua stagione 2016-2017, la più grande e importante della capitale meneghina. Parliamo infatti di una stagione che ne contiene cinque: il cartellone prevede ben più di 250 serate con titoli per tutte le età, che spaziano dalla prosa al musical e al cabaret.

La stagione si apre il 13 ottobre con la pièce “Sarto per signora” interpretata da Emilio Solfrizzi. A seguire, nella categoria prosa, “Il bagno” con Stefania e Amanda Sandrelli, “Nudi e crudi” con Maria Amelia Monti e Paolo Calabresi, “Tradimenti” con Ambra Angiolini, Francesco Scianna e la regia di Michele Placido, “Due partite” con Giulia Michelini, Paola Minaccioni, Caterina Guzzanti e Giulia Bevilacqua, “Alla faccia vostra!” con Gianfranco Jannuzzo, Debora Caprioglio e Antonella Piccolo, “Serial killer per signora” con Gianluca Guidi e Giampiero Ingrassia, “Il sorpasso” con Giuseppe Zeno, “Calendar Girls” con Angela Finocchiaro.

La stagione, però, vede sul palco anche spettacoli di cabaret con spettacoli collaudati e molto amati dal pubblico come “Ormai sono una milf” con Angelo Pintus, “Perché non parli” con Paolo Cevoli, “Hotel Forest” con Mister Forest, “Platone – La caverna dell’informazione. Il lato comico dell’attualità” con Leonardo Manera e Alessandro Milan.

Numerosi poi gli appuntamenti per i bambini e le famiglie nonché gli eventi culturali promossi ed organizzati dal Teatro.

Grandi titoli, grandi produzioni, grandi interpreti nel teatro più in di Milano. Un successo assicurato!

Per maggiori informazioni sulla stagione:
www.treatromanzoni.it

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STREEAT® Food Truck Festival: ultimo giorno a Milano poi riparte il tour

Ultimo giorno, oggi, per visitare , soprattutto, assaggiare le delizie offerte dallo STREEAT® Food Truck Festival, il primo e unico grande festival del cibo di qualità su ruote, itinerante, che quest’anno, a Milano, si svolge nella suggestiva cornice di Carro Ponte, Sesto San Giovanni.

Lasciatevi conquistare da deliziosi e sfiziosi manicaretti di ogni sorta, preparati dai migliori FOOD TRUCK d’Italia, selezionati secondo i rigidi parametri di STREEAT® secondo cui GOURMET, DESIGN e ON THE ROAD convivono su furgoncini, carretti, biciclette e ape car allestiti come vere e proprie cucine mobili.

L’esperienza gastronomica è totale e unica: si va dal dolce al salato e ce n’è davvero per tutti i gusti e le intolleranza, nessuno escluso.

Supplì, panini con porchetta, arrosticini di pecora, pizza fritta Napoletana, gnocchi di bosco con zola e mirtilli, gelati naturali, patate sieglinde cotte nel vincotto Primitivo, churros, pancakes, cozze fritte, baccalà in pastella, cannoli Siciliani, hamburger di Chianina – hot dog di maiale toscano, farinata di ceci, lumache alla Bourguignonne,… sono solo alcune delle prelibatezze che potrete gustare.

Inoltre, la degustazione degli innumerevoli street food è arricchita dalla presenza di Birrifici Artigianali, tra i più rinomati nel panorama brassicolo italiano, dalle centrifughe di frutta e verdura fresche in collaborazione con Ceado e una selezione di vini naturali Nazionali.

L’atmosfera è resa ancor più eccezionale dalle proposte musicali selezionate da Barley Arts Promotion, storico promoter di concerti e spettacoli dal 1979.

STREEAT® – European Food Truck Festival è un evento organizzato da Barley Arts Promotion e da Buono – Food & Events, giovane realtà che opera nell’ambito dei food-events e specializzata nella promozione di piccoli e medi produttori artigianali.

Dopo Milano, il tour autunnale della manifestazione prosegue nelle seguenti città:

MANTOVA – Piazza Virgiliana dal 30 settembre al 2 ottobre
UDINE – Piazza 1° Maggio dal 7 al 9 ottobre
BARI – Torre Quetta dal 14 al 16 ottobre

Ogni tappa avrà i seguenti orari:
venerdì dalle ore 16:00 p.m. alle ore 01:00 a.m.
sabato dalle ore 11:00 a.m. alle ore 01:00 a.m.
domenica dalle ore 11:00 a.m. alle ore 01:00 a.m.

Ingresso libero.

FB: https://www.facebook.com/StreeatFoodTruck/?fref=ts
TWITTER: https://twitter.com/streeatfestival?lang=it
INSTAGRAM: https://www.instagram.com/streeatfoodtruckfestival/
YOUTUBE: www.youtube.com/channel/UCYoaEwnbGvAcfYly4gJgSFg
www.streeatfoodtruckfestival.com
www.barleyarts.com




Dalla parte degli animali: Annalisa Gimmi presenta il suo nuovo libro

Bestie come noi” è il nuovo libro/saggio scritto da Annalisa Gimmi, insegnante di lettere in un liceo pavese, giornalista, scrittrice e, soprattutto, paladina degli animali. Un libro che vuole far riflettere sull’importanza del rispetto di tutti gli esseri viventi. Un libro di forte contenuto, scritto con molta intensità, che, senza mezzi termini, denuncia tutti quei comportamenti, tipicamente ed esclusivamente umani, che si riflettono in modo drammatico nei confronti del mondo animale, di cui, peraltro, l’uomo stesso fa parte.

D. Perché hai deciso di scrivere un libro su questo specifico argomento?

R. Ho sentito la necessità di scrivere di questo argomento nel momento in cui mi sono resa conto che i libri attualmente in commercio sono o molto specifici e di difficile lettura oppure troppo semplicistici e quindi con conseguente banalizzazione del complesso rapporto uomo/animale. Ho quindi pensato di scrivere un testo molto semplice, divulgativo, ma completo, in cui ho affrontato il rapporto uomo/animale sotto ogni punto di vista, etico, filosofico e giuridico.

D. Quali sono gli argomenti più importanti che hai trattato?

R. Gli argomenti più grossi di cui mi sono occupata sono quelli legati all’allevamento intensivo e alla sperimentazione animale. Dico “più grossi”, perché coinvolgono una quantità di animali incredibile. Solo l’allevamento intensivo coinvolge più di 5 miliardi di animali all’anno. Il problema non è tanto il fatto che questi animali finiscono nei nostri piatti: l’uomo ha da sempre mangiato gli animali.  Quello che è immorale è come questi animali vengono fatti vivere.

Si parla tanto del grave problema di come vengano allevati questi animali, spesso con somministrazioni smodate di ormoni e antibiotici. Se ne parla tantissimo ma sempre ed esclusivamente dal punto di vista umano, cioè pensando al male che ci possono fare queste carni. Nessuno però sembra riflettere sul male che noi facciamo a questi poveri animali.

Per approfondire questo tema, ho incontrato Annamaria Pisapia, presidentessa di CIWF (Compassion in World Farming Onlus Italia). CIFW è una associazione internazionale, con sede anche in Italia, che si pone come obiettivo quello di cercare di migliorare la vita di questi animali angariati negli allevamenti. Gli animali trattati peggio sono i volatili di ogni genere, polli e tacchini, ma anche i conigli e i maiali, costretti in gabbie così piccole in cui non hanno alcuna possibilità di movimento, spesso malati e curati con dosi massicce di antibiotici che poi, tra l’altro, finiscono anche nei nostri piatti.

L’altro argomento estremamente spinoso è quello della sperimentazione animale. Il mondo medico avanza una giustificazione altamente morale per portare avanti la sperimentazione: sacrificare animali per la salute dell’uomo. Ho parlato con medici che dicono che questo non è assolutamente vero. La sperimentazione sugli animali poteva avere una sua ragione in epoca illuminista, nel Settecento, quando ancora non si sapeva molto sul funzionamento del corpo umano dal punto di vista fisiologico. Aprire e vedere il corpo di un animale, tra l’altro di un animale vivo, ha sicuramente portato l’uomo a conoscere meglio i meccanismi del proprio corpo.

Oggi, tuttavia, tale indagine non ha più alcun senso. Sperimentare farmaci per curare patologie proprie dell’uomo su specie viventi diverse porta a risultati inattendibili. Il Prof. Stefano Cagno, medico psichiatra, è stato uno dei primi, della sua categoria, ad alzare la voce contro l’inutilità di questa sperimentazione. Il Prof. Cagno (partendo dai dati ufficiali resi noti dalla Food and Drug Administration, l’organizzazione statunitense che si occupa dell’entrata in circolazione dei nuovi farmaci) sostiene che il 92% dei farmaci testati su animali non sono buoni per gli uomini. Ciò vuol dire che il 92% degli animali utilizzati sono sacrificati per niente.

Vi è poi un dato paradossale: la legge italiana, come la maggior parte delle leggi degli altri paesi, prevede anche l’obbligatoria sperimentazione dei farmaci direttamente sugli esseri umani. Questo dimostra, ancora una volta, che la sperimentazione sugli animali porta a risultati non attendibili, perché diversamente quale necessità ci sarebbe di sperimentare i farmaci sugli umani prima di metterli in commercio? Continuiamo nella lettura delle statistiche. Abbiamo detto che il 92% dei farmaci che hanno passato il test sugli animali sono da scartare perché tossici sull’uomo. Bene: di quelli sperimentati sugli umani, che poi vengono messi in circolazione, circa il 50% danno reazioni negative. Non ci vuole un luminare per capire che, tra l’altro, i farmaci reagiscono in maniera diversa da persona a persona. Sommando, quindi, questi dati, l’inattendibilità delle sperimentazioni sugli animali è pari al 98%. Non capisco perché a nessuno venga in mente che forse questo tipo di sperimentazione è sbagliato e sarebbe necessario trovare metodi alternativi. Purtroppo, ed è un dato incontrovertibile, non c’è volontà da parte degli enti pubblici di trovare questi metodi alternativi, al punto che non vengono neppure stanziati fondi per la ricerca.

D. Ci sono leggi che tutelano espressamente gli animali in Italia?

R. In Italia c’è la legge n. 189/2004 che dovrebbe proteggere gli animali. Dico “dovrebbe” perché, in realtà, non trova quasi mai applicazione e spesso viene furbescamente aggirata. Tale legge prevede anche l’istituzione di una figura molto importante: la guardia zoofila. Le guardie zoofile hanno il compito di verificare situazioni di maltrattamento animale, di cercare eventuali rimedi, laddove possibile, o denunciare alla competente autorità giudiziaria i casi particolarmente gravi. La legge, tuttavia, riesce anche a “negare se stessa” e a consentire espressamente i maltrattamenti degli animali nel momento in cui cristallizza la norma secondo cui non rientrano sotto la protezione della legge 189/2004 gli animali destinati a diventare cibo, quindi per allevamenti intensivi,  e quelli per le manifestazioni culturali, come il palio, o le manifestazioni tipo spettacolo, come il circo.

D. Quale è la posizione della Chiesa nei confronti degli animali?

R. Nel corso degli anni direi che c’è stata una piccola apertura da parte dei teologi. Certo, la maggior parte di questi, discrimina gli animali perché, diversamente dall’uomo, non dotati di anima. Ma sarà poi vero? Ho molto apprezzato il Papa che, in un’enciclica molto bella e molto coraggiosa, si è schierato apertamente in difesa della biodiversità, includendo nel termine tutte le creature viventi sulla terra. Ho scoperto poi l’esistenza di una piccola associazione di cattolici vegetariani che si batte perché il rapporto uomo/animale venga riconosciuto come paritario, come compagni nati con uguale dignità all’atto della creazione stessa. Questa mi sembra una cosa molto bella anche perché fino ad oggi molti cristiani, e spesso i sacerdoti stessi, sono stati veramente i peggiori nemici della difesa degli animali, proprio sul presupposto dell’asserita e non documentata circostanza che questi non hanno l’anima.

D. Quali benefici porterebbe invece una pacifica convivenza tra uomo e animale?

R. Sono convinta che un miglioramento comune, porterebbe a un vantaggio reciproco. Se li facciamo vivere meglio, gli animali ci danno tanto e migliorano la nostra vita. Nel libro ho fatto l’esempio della pet-therapy: con i cani, con i cavalli, con gli asini e, in generale, con tutti gli animali. Persino i pesci pare che diano una sensazione di serenità e pace in chi li osserva. La pet-therapy viene molto utilizzata anche negli ospedali, nelle case di riposo e negli ospizi. I dati dimostrano che dove c’è la presenza di un animale è più rapida la guarigione, perché l’umore della persona malata o dell’anziano, che spesso è fortemente depresso, migliora immediatamente. L’ospedale San Matteo di Pavia è stato tra i primi ad aver fatto sperimentazioni di pet-therapy nel reparto di chirurgia infantile, dimostrando che le guarigioni dei bambini sono così più veloci e che necessitano di meno farmaci. Un altro impiego interessante della pet-therapy è quello fatto nelle carceri, come ad esempio a Bollate: il rapporto che si instaura tra il carcerato e il cane è una cosa molto profonda. Il cane riesce a far venire fuori il lato umano della persona, permettendo a quest’ultima di ritrovare un contatto affettivo.

D. Hai affrontato anche il tema del randagismo?

R. Assolutamente. Il randagismo è un altro grande problema, soprattutto in molte zone del Mediterraneo compreso il sud Italia. Ho esaminato il problema dei cani randagi in Turchia, e come sia stato risolto con una semplice donazione di $ 2000, e quello della colonia felina romana di Torre Argentina. Ogni anno il comune cerca sempre di sfrattare la colonia romana, anche se a Roma i gatti sono considerati cittadini romani e patrimonio culturale della città. I turisti, soprattutto gli stranieri, vanno a Torre Argentina non tanto per fotografare i ruderi ma piuttosto i gatti che lì risiedono.

D. Oggi si parla molto di dieta vegana e vegetariana. Al di là delle questioni al bene che può fare mangiare della carne o dei derivati animali, pensi che sia crudele cibarsi di altri esseri viventi?

R. La crudeltà non è propria degli animali. Un animale che uccide per mangiare non è crudele, segue la natura. Noi se uccidiamo una mucca per mangiarla non siamo crudeli, mangiamo. Noi siamo crudeli quando trattiamo gli animali come vengono trattati negli allevamenti. L’essere crudeli tra i propri simili è una prerogativa unicamente umana; non c’è nessun altro animale che ammazza in modo sistematico i propri simili per motivi di odio e rancore. La verità è che siamo tutti uguali, abbiamo lo stesso modo di sentire, la stessa sensibilità al dolore e alla sofferenza. Non è una novità: lo aveva già detto nel Settecento Jeremy Bentham, un grande filosofo e giurista inglese.

Più recentemente, nel 1975 Peter Singer un filosofo australiano scriveva che l’uomo, quale unico detentore della ragione, va in giro a martoriare tutti quelli che, a suo insindacabile giudizio, la ragione non ce l’hanno. Ma forse un corretto, consapevole e umile utilizzo della ragione potrebbe diventare lo strumento per vivere meglio tutti quanti insieme.

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ANNALISA GIMMI
BESTIE COME NOI (ed. EFFIGIE)




“ESCOBAR” – UNA STORIA INTENSA AD ALTA TENSIONE

di Elisa Pedini – Esce domani, 25 agosto, nelle sale italiane il film “Escobar”, per la regia e sceneggiatura di Andrea Di Stefano. Pellicola decisamente intrigante, potente, intensa. Assolutamente, da non perdere. Il regista, al suo esordio sul grande schermo, ci regala un vero capolavoro. Personalmente ha raccolto il materiale su Pablo Escobar, figura estremamente peculiare della scena del crimine organizzato. Nessuno come lui è stato amato e odiato, venerato e temuto. Un film che tiene lo spettatore incollato alla sedia per due ore, senza che neppure se ne accorga. Ogni aspetto è curato. Ogni situazione narrata, perfettamente calibrata. Nessuna scena inutile. Nessuna lungaggine. Tutto è necessario e l’attenzione non cala mai. La tensione è palpabile e presente sin dalla prima scena del film, senza mai trascendere né nella violenza gratuita, né in scene, tanto sperticate quanto improbabili. Una regia, a parer mio, magistrale, che si gioca sull’introspezione psicologica e sugli sguardi, oltre che sull’azione reale. Inquadrature a mezzo primo piano che rapide si spostano in soggettiva, bucando lo schermo. Lo spettatore è negli occhi dei protagonisti e ne prova gli stessi pensieri, le stesse emozioni, la stessa paura. Quando non si ha bisogno d’indulgere in inutili scene di violenza o di sesso, che nulla apportano né alla trama, né allo spettatore, è perché si ha davvero qualcosa da raccontare e soprattutto, perché si sa, veramente, fare regia. Pellicola degna d’encomio. La trama vede due storie parallele dipanarsi attorno a quella principale che è imperniata su Pablo Escobar: quella di Nick e Dylan e quella di Nick e Maria; ma nessuna soverchia l’altra, pur venendo ben sviluppate e delineate, né, tanto meno, sottraggono attenzione alla linearità e inesorabilità degli eventi. Ogni personaggio ha il suo spessore, alle volte solo tratteggiato; ma sufficiente per evincere perfettamente sia l’interiorità, che l’esteriorità del vissuto sullo schermo. La storia inizia in medias res. Una giovane e bella coppia, Nick e Maria, si stanno, a quanto pare, preparando a una celere fuga; ma qualcuno bussa. La tensione è già presente, nei loro sguardi, nel contrasto tra la luminosità della stanza in cui si trovano e il buio da cui si sente provenire il rumore. Nick è convocato da Pablo Escobar. Questi, sta per consegnarsi alle autorità e prega, colto in una profonda quanto terrificante umanità, per poi parlare ai suoi uomini, in tutta la sua inquietante, terribile, figura. Ha bisogno di fare un’ultima delicatissima operazione. Da qui, lo spettatore viene portato indietro nel tempo, a quando Nick, giovane e bel surfista canadese, arriva in Colombia per raggiungere suo fratello Dylan. Davanti ai suoi occhi si apre un paradiso: una laguna turchese, spiagge bianche come l’avorio e onde perfette. Non per niente, il titolo originale è proprio “Escobar: Paradise Lost”. I due fratelli pensano davvero d’aver trovato il loro paradiso in terra. Il loro sogno è stabilirsi lì e aprire una scuola di surf. Nick incontra Maria, bella e sensuale colombiana. La loro storia d’amore si sviluppa chiaramente per lo spettatore, che la percepisce e la vive senza ch’essa divenga mai esplicita o mielosa. Bastano pochi tratti per avere chiara la situazione. Tutto sembra perfetto. Maria vuole presentare ufficialmente Nick alla sua famiglia e in particolare a suo zio, amato e acclamatissimo, i di cui manifesti troneggiano in tutto il paese: Pablo Escobar. Sentire Maria definirlo come un esportatore del principale prodotto colombiano: la cocaina, è semplicemente geniale e mette il punto, attraverso una sola frase, sulla duplicità di visione del personaggio: narcotrafficante spietato e senza scrupoli per il mondo, benefattore per i suoi congiunti e il suo popolo. È così che Nick entra a far parte della “famiglia”, naturalmente, non solo nel senso amorevole del termine, ma anche nel senso più occulto che il crimine organizzato da a tale parola. Il primo dialogo tra Pablo e Nick è apparentemente molto tranquillo nei toni e nelle espressioni dei due protagonisti; ma posso garantirvi che lo si percepisce, letteralmente, agghiacciante. Il ragazzo non sa nulla di Escobar ancora e parla con serenità, senza comprendere né sospettare le conseguenze delle sue parole. Solo trasferendosi a vivere nella villa di Pablo vedrà, intuirà, capirà. Siamo appena all’inizio del film, in verità. La storia prosegue in un climax di tensione fino a ricongiungersi alla scena iniziale e condurre per mano lo spettatore verso situazioni sempre più ambigue e inquietanti fino alla conclusione del film. Volutamente non vi dico altro perché è un film che va visto e gustato: nella profondità e sapienza delle inquadrature, nei giochi di forte luce e cupa tenebra, nell’accostamento dei toni caldi e freddi, nella tranquillità dei dialoghi che sottendono, nel loro placido svolgersi, terribili minacce e verità. Tutto scandisce la tensione, senza mai stressare lo spettatore. Di fatto, non si vede nulla di cruento, ma tutto è percepito in modo potentemente “brutale”. L’interpretazione è affidata a un cast d’eccezione, che si conferma tale e non ha certo bisogno né di encomi, né di presentazioni: Benicio Del Toro, nel ruolo di Pablo Escobar, Josh Hutcherson e Claudia Traisac, rispettivamente Nick e Maria nel film e Brady Corbet, nella parte di Dylan.




“TORNO DA MIA MADRE” – UNA “FAVOLA” TENERA E MALINCONICA

di Elisa Pedini – Nelle sale italiane da domani, 25 agosto, il film “Torno da mia madre”, ad opera del regista e sceneggiatore francese Éric Lavaine. Commedia piacevole e leggera, che, al dunque, si mostra più come una “favola” sulla famiglia e sulle problematiche odierne, che, purtroppo, molti quarantenni si trovano a vivere. Le tematiche trattate sono molto attuali, ma la realtà si stempera nella tenerezza della poesia, tenendo toni malinconici, molto tenui e superficiali, senza sviscerare né introspettivamente, né socialmente, le varie situazioni proposte. Pertanto, è un film piacevole e anche comico, che va approcciato come una bella favola, senza forzarne i parallelismi con la vita vissuta. Mi spiego nel dettaglio, partendo dalla trama. La protagonista è Stéphanie, bella donna e architetto di quarant’anni. Il film inizia con lei, molto elegante e serenamente alla guida della sua cabrio rossa fuoco, mentre attraversa panorami stupendi. Tuttavia, quest’immagine di ricchezza e serenità, termina coi titoli di testa, quando, Stéphanie, restituisce l’auto e a piedi s’allontana con il suo bagaglio verso la fermata dell’autobus. È evidente che qualcosa è cambiato. Infatti, la donna fa ritorno a casa della madre, Jaqueline, la quale, l’accoglie a braccia aperte. Apprendiamo che Stéphanie è divorziata con un bambino e che ha chiuso il suo studio per fallimento, perdendo tutto. La prostrazione della donna è comprensibile ed evidente: è passata dall’avere tutto, al perdere tutto in un attimo. Quello che mi ha irritata e non poco è che Stéphanie non fa che lamentarsi e piangersi addosso: ogni occasione è buona per dire quanto sia sfortunata e quanto sia nei guai. Per quanto possa essere comprensibile il suo scoramento e l’imbarazzo di dover tornare dalla propria madre, non è possibile non pensare a quanti si trovino nella sua stessa, identica condizione, senza, però, avere la grandissima fortuna di rifugiarsi a casa di mamma. Aspetto fondamentale, perché, non solo le dona un tetto sicuro sopra la testa, ma anche la serenità di cercare un lavoro e il lusso di rifiutare impieghi umili e pesantemente squalificanti. Personalmente, avrei preferito udire meno lamentele e più gratitudine. E questo, secondo me, è l’aspetto più importante, per il quale, il film va gustato come una “favola”, da prendersi così com’è, senza parallelismi con la vita reale. L’ho premesso che la pellicola evita il drammatico, stemperandolo nella tenerezza della malinconia e del sentimento. Ovviamente, come si poteva, logicamente, supporre, le abitudini delle due donne sono diverse e da qui scaturiscono le situazioni più esilaranti del film. Soprattutto, perché, Jacqueline, ha un segreto, che vuole comunicare ufficialmente ai figli. Per tale ragione, ella assume non solo comportamenti strani, incomprensibili agli occhi di Stéphanie, che, addirittura, li scambia per segnali di demenza senile; ma organizza anche un pranzo con tutti i suoi tre figli. Quella tavola, imbandita con amore dalla mamma, diviene, però, una specie d’arena, dove i tre “gladiatori” combattono le loro personalissime guerre. Trapelano gelosie, vecchi rancori e soprattutto una sorta di fastidio verso la nuova situazione che s’è venuta a creare. Anche qui, però, il regista non s’inoltra nell’introspezione psicologica dei personaggi e non va oltre il mostrare tre personalità con grandissimi problemi relazionali, se non psichici, come nel caso di Carole, la sorella di Stéphanie. La reazione, giusta e coerente di Jacqueline, pone fine alla “corrida familiare”. Da questo momento, il film si concentra maggiormente sulle vicende personali della madre e del suo “segreto”, lasciando un po’ in secondo piano tutto il resto. Neppure nel momento di pathos della rivelazione ai figli della “grande notizia” si raggiunge una profondità introspettiva. La reazione dei tre, per quanto, forse, abbastanza probabile e realistica, resta sempre superficiale. L’impressione è che, Lavaine, abbia desiderato produrre una commedia “vera”, ma poi abbia avuto remore nel mostrare la durezza della verità. I toni stemperati e comici della commedia scorrono, comunque, gradevoli, con vicissitudini divertenti e alle volte, persino esilaranti, fino a garantire il lieto fine. Una “favola” piacevole, che lascia sereni. Ambientazioni bellissime e una fotografia molto curata danno il tocco finale. Un’altra cosa che mi ha colpita è l’estrema luminosità: questa pellicola è dominata dalla solarità e dai colori caldi, che trasmettono un senso di grande pace allo spettatore. Da sottolineare anche l’interpretazione sia di Alexandra Lamy, nel ruolo di Stéphanie, che risulta molto credibile e riesce a trasmettere il senso di disagio del suo personaggio, sia dell’eccellente Josiane Balasko, nella parte di mamma Jacqueline, che, non solo, risulta essere l’unica figura, in sceneggiatura, con una vita vera e ben vissuta e con un carattere ben definito, ma viene anche interpretata in modo profondamente “sentito” e sfaccettato.




LUGANO, GRANDE SUCCESSO PER LA MOSTRA MUNDUS DEL MAESTRO ITALIANO BONGIOVANNI

E’ stata prolungata fino al 31 luglio Mundus – Exclusive Art Exhibitionevento istituzionale che celebra la pittura del Maestro italiano Daniele Bongiovanni nuovamente su scala internazionale. La mostra, presentata ufficialmente come progetto itinerante, che in autunno, a grande richiesta verrà riproposta anche in Italia, ha aperto i battenti il 17 maggio in pieno centro a Lugano, nelle sedi della CD Arts, con il patrocinio della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera. L’esposizione, presenziata da molte personalità della cultura, e dal sindaco di Lugano Marco Borradori, fin dal giorno della sua apertura, ha riscosso grande successo di critica e di pubblico, attirando così l’attenzione di moltissimi esperti del settore, collezionisti, e fruitori d’arte. Mundus, lanciato come un percorso in crescendo, progressivo, e volutamente antologico, ha dato modo al pubblico di ammirare quelle che fino ad oggi sono i lavori più rappresentativi e importanti della carriera del pittore, oggi operante tra l’Europa e gli Stati Uniti. In mostra è possibile ammirare ancora per un mese, opere appartenenti a collezioni pubbliche e private, come: Il creatore (m’illumino d’immenso), Croma Sophia, Studi sulla pura forma, Collezione Pelle Sporca, ciclo dedicato al rapporto tra uomo e spazio naturale, già esposto alla 53. Biennale di Venezia, la collezione Aesthetica/Natural, il trittico di grandi dimensioni T.d.C (mundus), opera centrale di tutto il percorso, ed elaborati recenti, interamente realizzati nel suo studio in Svizzera.

”Mundus, entrando dentro questo percorso, e guardando le opere del Maestro Bongiovanni, vediamo che ogni soggetto dipinto durante la sua carriera, da una delle tante prospettive possibili, ha parzialmente abbandonato la forma concreta, quasi tutti i lavori dell’artista hanno a che fare con il il progredire interiore, il ritrovarsi in un punto di svolta, su dei campi figurativi, e all’occorrenza informali che vengono elaborati come metafora del tempo sulle cose. Nel dettaglio, in questo processo, per l’occasione contestualizzato in un percorso antologico, la chiave di lettura rimane la filosofia, la ricerca cromatica e la luce. Una luce che abbagliante ed estesa su un tessuto materico, filtrato da velature dai toni a volte corposi, a volte leggeri, si apre in un doppio movimento, esterno e interno al quadro. Tecnicamente, in questo movimento, che si manifesta sublime nello sfondo, i volti e gli spazi sbiadiscono parzialmente, generando presenze e assenze. Mundus, come emblema, ci suggerisce di seguire un ritmo lento e complesso per i nostri occhi, simile a quello della natura, qui rielaborata; natura contaminata che si manifesta come teorema visivo, come risultato di una consolidata sapienza artistica, traguardo di numerosi anni di studio sulla materia pittorica. Le letture di Daniele Bongiovanni appartengono alla realtà: ”L’Uomo”, realizzato per omaggiare ”l’essere” che dialoga con la storia, ha uno sguardo emblematico, che indaga e s’interroga sulla vita. In questa cronologia, Bongiovanni è più volte pittore del ritratto, ritratto di persone e dettagli, dettagli di un’estetica generale. Le sue opere in ordine cronologico emergono come un racconto del vissuto, suo e degli altri. Loro come tasselli numerati hanno una logica precisa, e legano per coerenza e appartenenza ad una trama articolata e importante. Una poetica nel complesso autentica, perchè originale, poetica come linguaggio che diventa opera, appartenente al passato e al presente, indubbiamente legata ad un’iconografia già storica.”

(Mundus, L’uomo e la natura diventano operaTicinolive, 2016)




“LA BELLEZZA RITROVATA”: ULTIMI GIORNI DI MOSTRA

di Elisa Pedini – Ultimissimi giorni, fino al 17 luglio, per visitare la mostra “La bellezza ritrovata”, presso le Gallerie d’Italia in Piazza Scala a Milano, con apertura straordinaria fino alle 23. L’esposizione fa parte del progetto “Restituzioni”, programma di restauri di opere appartenenti al patrimonio artistico pubblico, curato e promosso da Intesa Sanpaolo. Questa è la XVII edizione del progetto, che, per la prima volta, si tiene a Milano. Il restauro è un’eccellenza italiana e mi piace, anche, sottolineare che, questo progetto, nel tempo, ha consentito la scoperta di nuove tecniche di restauro come, ad esempio, quello degli smalti medievali. Un’occasione davvero unica e imperdibile, dunque, per gustare, in anteprima, 145 capolavori sottoposti a restauro, che, poi, torneranno ai rispettivi luoghi d’appartenenza. Ben trenta secoli di storia attraverso il nostro patrimonio artistico culturale. Opere eterogenee che ci conducono a spasso nel tempo e nel nostro magnifico paese, come, per esempio, la “Statua naofora di Amenmes e Reshpu” in calcare egiziano di ben 32 secoli fa. Un restauro precedente, per preservare l’opera, l’aveva ricoperta con una miscela al silicone che, purtroppo, però, impedì la normale traspirazione del calcare, comportandone la frattura interna. Questo capolavoro è stato ora riportato alla sua bellezza. Altra opera, di ben 25 secoli fa, è il “Cavaliere Marafioti” in terracotta policroma, rappresentante, probabilmente, un Dioscuro. Il suo nome deriva da “Casa Marafioti”, ovvero, la villa, vicino Locri, sotto le cui fondamenta, fu ritrovato, a pezzi, questo capolavoro. Oggi, lo ammiriamo in tutto il suo splendore, grazie, anche, a un’accurata opera d’uniformazione del colore. È interessante notare come il restauro, secondo le leggi di Cesare Brandi nella sua “Teoria del restauro”, debba seguire i principî di “storicità” e “reversibilità”, ovvero: ogni lavoro di ripristino effettuato deve, rigorosamente, rispettare sia l’opera che la sua epoca e deve poter essere totalmente rimosso. Principî che, purtroppo, non furono rispettati dal primo restauratore dell’“Adorazione del bambino” di Lorenzo Lotto, che trattò il dipinto con una pasta abrasiva molto aggressiva, devastandolo completamente. L’unica azione di restauro che è stato possibile attuare su quest’opera è stata di sola conservazione. Scempio a parte, sarà, però, molto interessante paragonare il lavoro su quest’olio con i lavori su altri olî, come, a titolo d’esempio, la “Madonna con il Bambino tra i santi Gennaro, Nicola di Bari e Severo” di Filippo Vitale, oppure il “Cristo risorto” di Rubens, ove, invece, il lavoro di restauro raggiunge la perfezione, ridonando bellezza, lucentezza e completezza alle opere senza manipolarle troppo. Un equilibrio veramente perfetto. Cito solo alcune delle altre chicche presenti in questa mostra e da gustare come, per esempio, i vetri dei maestri vetrai muranesi. È straordinario apprendere come il vetro nasca perfetto in sé e pertanto, il lavoro successivo di restauro e conservazione di tale materiale necessiti un procedimento particolarissimo e molto delicato, poiché, persino la semplice acqua rovinerebbe, irreversibilmente, le opere. E ancora, la magnificente armatura da parata giapponese donata ai Savoia, del tipo do-maru a fettucce di seta azzurra e composita di numerosi materiali. Proprio quelle fettuccine hanno richiesto l’intervento d’una restauratrice di tessuti che ha lavorato su ciascuna di esse. Si noterà che, l’armatura, dietro ha degli anellini: essi servivano a chiuderla con un nastro rosso, purtroppo, andato distrutto; per non mutare la “storicità” dell’opera, si è ritenuto opportuno, non sostituirlo con nastro moderno. Infine, vorrei spendere una parola sui disegni restaurati in mostra, perché, per chi l’avesse visitata nei primi mesi, essi sono stati cambiati, ora, troviamo esposti trentasette disegni di Sebastiano Ricci e vi spiego perché. Il “disegno” è un’opera delicatissima che deteriora molto rapidamente, pertanto, non può essere esposto per più di novanta giorni e sempre sotto una luce fredda di massimo 30A. Decorso questo periodo, deve, tassativamente, essere riposto, al buio, per cinque anni. Saputo questo, posso assicurarvi che diventa estremamente affascinante osservare questi capolavori, così intensi, ma anche, così fragili. Eventuali buchi o lacune sono stati restaurati utilizzando una finissima carta di riso giapponese prodotta a Tokyo.

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Le intime Infinitesimalità del poeta Davide Rocco Colacrai

Oggi incontriamo un giovane poeta di Terranuova Bracciolini, Davide Rocco Colacrai. A soli 34 anni ha già conseguito oltre 500 riconoscimenti partecipando a concorsi letterari, anche internazionali ed europei, le sue poesie sono contenute in più di un centinaio di antologie, e ha all’attivo ben tre libri: Frammenti di parole (GDS, 2010), SoundtrackS (David and Matthaus, 2014) e Le trentatré versioni di un’ape di mezzanotte (Progetto Cultura, novembre 2015), quest’ultimo sostenuto da uno spettacolo musico-visivo di presentazione, in tournée fino a pochi giorni fa. La nuova opera, Infinitesimalità (VJ Edizioni, Verona), è in uscita entro la fine del mese.

Il tuo nuovo libro di poesia si intitola “Infinitesimalità”. Come nasce?
Tecnicamente il libro nasce come premio di un concorso letterario: infatti ho vinto il primo premio del Concorso “Arco dei Gavi” per la sezione poesia, e mi è stata riconosciuta la possibilità di realizzare una mia opera per le VJ Edizioni di Verona. Artisticamente invece non ho una risposta precisa da dare, nel senso che sapevo, “sentivo”, che erano maturi i tempi per un nuovo libro e sapevo anche di volerlo chiamare “Infinitesimalità”, tutto il resto è stato intuivo, era, come dire, già pronto, in attesa.

C’è una evoluzione rispetto al tuo libro precedente, “Le trentatré versioni di un’ape di mezzanotte”?
Penso che, rispetto al lavoro precedente, sia da riscontrarsi una inevitabile evoluzione, sicuramente nell’uomo, di conseguenza nel poeta. Infatti si affrontano temi diversi ovvero alcuni degli stessi temi ma in modo più diretto, più di petto, c’è un maggiore coraggio nel parlare, nell’esporsi, anche nel prendere una posizione, una maggiore naturalezza in tutto questo, tuttavia lo stile è più elaborato, simbolico, di non semplice e immediata decifrazione, aperto a molteplici letture. “Infinitesimalità” è un lavoro più intimo, più intimista, e come tale pervaso da un dualismo “infinitesimale”.

Visto che c’è, l’evoluzione di cui chiedevamo, quale è il tuo poeta o scrittore di riferimento?
La verità è che non ho un poeta o uno scrittore di riferimento o che è da me preferito ad un altro. Mi piace leggere, ascoltare, fare mie le parole, i silenzi e le storie, “possedere” il mondo. Inoltre amo sperimentare, soprattutto con la lingua italiana, giocare e stravolgerla, osare e andare oltre rispetto ai limiti tacitamente imposti, accettati, nella poesia, non dire cose già dette ovvero dirle ma in un modo diverso, un modo che obbliga il lettore a fermarsi e a domandare, ad entrare in contatto a tu per tu con i suoi dubbi, un modo che lo mette sulle spine perché deve decidere, egli medesimo, sotto la propria responsabilità, come e quanto significare, e perché.

Ci parli della tua esperienza poetica e del tuo percorso artistico?
Ho avuto la fortuna di sperimentare più strade artistiche prima di “sentire”, di sapere, che la poesia fosse la mia. Infatti ho iniziato con la musica, suonando alcuni strumenti, ho dipinto per molti anni, per un periodo ho realizzato alcuni remixes come dj che circolano tutt’ora nella rete e, infine, sono approdato alla poesia. La mia esperienza poetica pertanto mi piace definirla una esperienza “medianica”, nella misura in cui tutte le sensibilità che ho coltivato nel tempo si sono unite per confluire verso una sensibilità unitaria, indefinita, a volte anche “maledetta”, per mezzo della quale devo saper gestire il dono, e così la responsabilità, di raccontare storie, storie che non sono mie, personali, e che tuttavia appartengono a tutti, sono storie del mondo, storie dell’uomo. L’esperienza poetica infatti ha come fondamento, per me, una vocazione, non una passione, non un passatempo, ma una vocazione dalla quale deriva una responsabilità precisa verso se stessi e verso gli altri: come dicevo, la responsabilità di prendere con sé le storie e di raccontarle, esplicitarle, condividerle. E posso confermare che a volte fa male.

Il mondo ha bisogno della poesia o la poesia ha bisogno del mondo?
Sono convinto che il mondo abbia bisogno della poesia tanto quanto la poesia è bisognosa del mondo. Infatti la poesia si nutre del mondo, come dicevo poc’anzi è fatta di storie, le parole sanno raccontare ed ascoltare, così il mondo a sua volta si nutre della poesia per non essere dimenticato, per sentirsi meno solo, per vivere. L’uno presuppone l’altra in un rapporto biunivoco di sopravvivenza, di completezza, e anche di bellezza.

Allora possiamo riconoscere un ruolo al poeta nella nostra società?
Ho già affermato che il poeta ha una responsabilità ben precisa, quella di prendere una storia e raccontarla. Pertanto se è da riconoscergli un ruolo penso debba essere quello di stimolare le persone, i lettori, di spingerli ad essere se stessi, ad ascoltarsi, a volersi bene, ad accettarsi, ad avere cura di sé e degli altri, ad ascoltare, ascoltare soprattutto quello che l’altro custodisce dentro di sé, le voci del mondo, i silenzi del cuore. Insomma il poeta può influenzare il lettore ad essere migliore. Può fare in modo che via sia una maggiore responsabilità, e bellezza, dentro e fuori.

Che cosa è allora un poeta?
La domanda esatta è chi è un poeta, o forse cosa c’è dentro, dietro, un poeta.
Un poeta, almeno per quanto mi riguarda, è un uomo dominato da un essenziale dualismo nella misura in cui da un lato da sempre “percepisce” l’esistenza di qualcos’altro, un oltre, qualcosa di indefinibile e inafferrabile, di sottile e infinitesimale che, da dentro, lo fa sentire completo, sicuro, a proprio agio nella sua diversità, probabilmente è una forma di fede, di amore, d’infinito, insomma “sa” di appartenere a un Tutto; dall’altro ha conosciuto, e così accumulato, un numero incontabile di cattiverie, ingiustizie, dolori, brutture, solitudini, e similari, senza una capacità di reazione, che un giorno si è ritrovato con una sola alternativa possibile, quella di implodere e quella di esplodere, e gli è venuta naturale la seconda: in primo luogo per ascoltare se stesso, per ri-comporsi, per darsi una forma, di conseguenza per condividere la propria versione con gli altri, in particolare con coloro che hanno, ciascuno, vissuto una esperienza simile secondo una versione differente, la propria. Il poeta è allora quella somiglianza d’uomo nel buio del mondo per gli altri.

I temi sociali quanto influenzano la tua poesia?
Dal momento che ho parlato di una responsabilità del poeta, e di una funzione dello scrivere, dell’essere più che del fare poesia, e del poeta come modello di riferimento, allora la poesia è, essa stessa, per sua natura, intrinsecamente sociale. Ciò significa che la poesia, la mia poesia, è finalizzata a vincere l’indifferenza e le solitudini, il lato oscuro che l’uomo ha, e tutte le sue espressioni. E l’unico modo, secondo me, per farlo, è metterlo davanti allo specchio con se stesso.

per ordinare il libro:
info@eccoiltuolibro.com

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Rumors Party! Con gli STRA-VAGANTI il pettegolezzo è servito

Tornano in scena gli STRA-VAGANTI e, come sempre, lo fanno in grande stile. Dopo essersi cimentati con Agatha Christie lo scorso anno, ora presentano un testo di Neil Simon, sicuramente tra i più comici e divertenti dei nostri tempi: Rumors Party – Il pettegolezzo è servito.

La pièce, liberamente tratta da Rumors, sempre diretta da Nicola Stravalaci, racconta la storia di quattro coppie di coniugi borghesi che, invece di festeggiare l’anniversario di matrimonio del vice sindaco della città, si ritrovano a fronteggiare il tentato omicidio del loro illustre concittadino. L’evento, imprevisto e drammatico, dà il via a una imbarazzante e grottesca situazione dove tensioni e timori svelano lentamente la fragilità e le nevrosi di ciascuno degli invitati. Tra bugie, ipocrisie e, naturalmente, tanti pettegolezzi la farsa prende corpo, diventando sempre più intricata fino al sorprendente finale.

Non sveliamo nulla della trama e delle sorprese che riserva questo nuovo allestimento.

Non perdetevi Rumors Party, del resto non presenziarvi darebbe adito a inutili e sgradevoli pettegolezzi.

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RUMORS PARTY – Il pettegolezzo è servito
Regia di Nicola Stravalaci
Con Sara Fedele, Ales Bonaccorsi, Rossella Santoro, Luca Cigognini, Floriana Nappini, Paola Palazzetti, Emanuela Marchesini e Giovanni Odetto.

11 luglio 2016 ore 21
TIEFFE TEATRO MENOTTI

Via Ciro Menotti 11
Info e biglietteria: 02 36592544 – biglietteria@tieffeteatro.it

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All’Elfo Puccini è tempo ancora di grande teatro con DRAGPENNYOPERA e ORE D’AMORE

Chi ha detto che con l’arrivo dell’estate il teatro a Milano si ferma?

Al teatro Elfo Puccini la stagione è ancora in piena attività.

Tornano in scena, dopo grande successo di critica e pubblico, l’eccentrico DRAGPENNYOPERA delle Nina’s Drag Queens e l’esilarante ORE D’AMORE di Rosario Lisma interpretato e diretto dalla frizzante coppia Stravalaci e Zuin.

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DRAGPENNYOPERA è la riscrittura del The Beggar’s Opera di John Gay da parte delle Nina’s che, dopo il raffinato e poetico “Giardino delle ciliegie”, si cimentano con una storia nera, permeata di amaro umorismo.

È l’alba. Nel cortile di un carcere, sotto il patibolo, si danno ritrovo alcune figure. Attendono l’esecuzione capitale del bandito Macheath. Sono le donne della sua vita. Saranno loro a raccontare questa storia: dalle nozze segrete di Macheath con Polly, regina dei mendicanti, agli incontri con l’amante, che batte, per giungere al momento dell’esecuzione, al giudizio finale… e forse ad un imprevisto: a quel qualcosa che capita quando nemmeno te lo aspetti.

The Beggar’s Opera di John Gay (1728) nasce come scrittura polemica e parodistica nei riguardi di un certo teatro lirico dell’epoca fatto di improbabili soggetti, messe in scena pompose e spettacoli che vogliono seguire le mode. Contro tutto questo va l’Opera di J. Gay, determinato a rompere gli schemi, a mostrare l’altro lato (quello vero e verace) del mondo e a esprimersi liberamente e in maniera tanto originale quanto anticonformista.

Di qui, la scelta delle Nina’s; di qui il DRAGPENNYOPERA.

John Gay miscelava la musica colta e la canzone da osteria, la presa in giro del “gran teatro”, la satira più nera, e soprattutto adattava canzoni già note al pubblico, fossero ballate o arie d’opera. Allo stesso modo, le Nina’s Drag Queens attingono al repertorio della musica contemporanea, reinventando (grazie alle composizioni originali di Diego Mingolla) alcuni riferimenti dell’immaginario pop che ci circonda. E lo fanno con la stessa allegra ferocia messa in campo da Gay, sotto il segno di un umorismo amaro e politicamente scorretto.

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ORE D’AMORE è la divertente commedia scritta da Rosario Lisma per Nicola Stravalaci e Debora Zuin, qui in veste non solo di attori ma anche di registi.

Metti una sera qualsiasi. Moglie marito sono rimasti soli, i bambini non ci sono e il giorno dopo non si deve andare al lavoro. La serata potrebbe essere piacevole se la coppia…non scoppiasse!

Improvvisamente la camera da letto si trasforma in un ring dove accuse e confessioni prendono il sopravvento.

Un viaggio esilarante e sofferto sul senso ridicolo della resistenza in amore. Otto ore in ottanta minuti. Otto match di combattimento verbale all’insegna dell’ironia, che i due protagonisti ingaggiano per vivisezionare con cinica e surreale meticolosità la loro storia d’amore, ogni personale segreto e sogno inconfessabile. Una notte di confessioni e tranelli infami. Due antagonisti che pure lottano nella stessa squadra per arrivare faticosamente alla meta. Fino al prossimo combattimento.

TEATRO ELFO PUCCINI
corso Buenos Aires 33, Milano
Info e prenotazioni: tel. 02/0066.06.06 – biglietteria@elfo.org – www.elfo.org

DRAGPENNYOPERA7 e 8 luglio 2016, sala Fassbinder

regia Sax Nicosia

con Alessio Calciolari, Gianluca Di Lauro, Stefano Orlandi, Lorenzo Piccolo, Ulisse Romanò

produzione Nina’s Drag Queens

 

ORE D’AMORE6, 7 e 8 luglio 2016, sala Bausch

di Rosario Lisma

con Nicola Stravalaci e Debora Zuin

produzione Animanera