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LUGANO, GRANDE SUCCESSO PER LA MOSTRA MUNDUS DEL MAESTRO ITALIANO BONGIOVANNI

E’ stata prolungata fino al 31 luglio Mundus – Exclusive Art Exhibitionevento istituzionale che celebra la pittura del Maestro italiano Daniele Bongiovanni nuovamente su scala internazionale. La mostra, presentata ufficialmente come progetto itinerante, che in autunno, a grande richiesta verrà riproposta anche in Italia, ha aperto i battenti il 17 maggio in pieno centro a Lugano, nelle sedi della CD Arts, con il patrocinio della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera. L’esposizione, presenziata da molte personalità della cultura, e dal sindaco di Lugano Marco Borradori, fin dal giorno della sua apertura, ha riscosso grande successo di critica e di pubblico, attirando così l’attenzione di moltissimi esperti del settore, collezionisti, e fruitori d’arte. Mundus, lanciato come un percorso in crescendo, progressivo, e volutamente antologico, ha dato modo al pubblico di ammirare quelle che fino ad oggi sono i lavori più rappresentativi e importanti della carriera del pittore, oggi operante tra l’Europa e gli Stati Uniti. In mostra è possibile ammirare ancora per un mese, opere appartenenti a collezioni pubbliche e private, come: Il creatore (m’illumino d’immenso), Croma Sophia, Studi sulla pura forma, Collezione Pelle Sporca, ciclo dedicato al rapporto tra uomo e spazio naturale, già esposto alla 53. Biennale di Venezia, la collezione Aesthetica/Natural, il trittico di grandi dimensioni T.d.C (mundus), opera centrale di tutto il percorso, ed elaborati recenti, interamente realizzati nel suo studio in Svizzera.

”Mundus, entrando dentro questo percorso, e guardando le opere del Maestro Bongiovanni, vediamo che ogni soggetto dipinto durante la sua carriera, da una delle tante prospettive possibili, ha parzialmente abbandonato la forma concreta, quasi tutti i lavori dell’artista hanno a che fare con il il progredire interiore, il ritrovarsi in un punto di svolta, su dei campi figurativi, e all’occorrenza informali che vengono elaborati come metafora del tempo sulle cose. Nel dettaglio, in questo processo, per l’occasione contestualizzato in un percorso antologico, la chiave di lettura rimane la filosofia, la ricerca cromatica e la luce. Una luce che abbagliante ed estesa su un tessuto materico, filtrato da velature dai toni a volte corposi, a volte leggeri, si apre in un doppio movimento, esterno e interno al quadro. Tecnicamente, in questo movimento, che si manifesta sublime nello sfondo, i volti e gli spazi sbiadiscono parzialmente, generando presenze e assenze. Mundus, come emblema, ci suggerisce di seguire un ritmo lento e complesso per i nostri occhi, simile a quello della natura, qui rielaborata; natura contaminata che si manifesta come teorema visivo, come risultato di una consolidata sapienza artistica, traguardo di numerosi anni di studio sulla materia pittorica. Le letture di Daniele Bongiovanni appartengono alla realtà: ”L’Uomo”, realizzato per omaggiare ”l’essere” che dialoga con la storia, ha uno sguardo emblematico, che indaga e s’interroga sulla vita. In questa cronologia, Bongiovanni è più volte pittore del ritratto, ritratto di persone e dettagli, dettagli di un’estetica generale. Le sue opere in ordine cronologico emergono come un racconto del vissuto, suo e degli altri. Loro come tasselli numerati hanno una logica precisa, e legano per coerenza e appartenenza ad una trama articolata e importante. Una poetica nel complesso autentica, perchè originale, poetica come linguaggio che diventa opera, appartenente al passato e al presente, indubbiamente legata ad un’iconografia già storica.”

(Mundus, L’uomo e la natura diventano operaTicinolive, 2016)




“LA BELLEZZA RITROVATA”: ULTIMI GIORNI DI MOSTRA

di Elisa Pedini – Ultimissimi giorni, fino al 17 luglio, per visitare la mostra “La bellezza ritrovata”, presso le Gallerie d’Italia in Piazza Scala a Milano, con apertura straordinaria fino alle 23. L’esposizione fa parte del progetto “Restituzioni”, programma di restauri di opere appartenenti al patrimonio artistico pubblico, curato e promosso da Intesa Sanpaolo. Questa è la XVII edizione del progetto, che, per la prima volta, si tiene a Milano. Il restauro è un’eccellenza italiana e mi piace, anche, sottolineare che, questo progetto, nel tempo, ha consentito la scoperta di nuove tecniche di restauro come, ad esempio, quello degli smalti medievali. Un’occasione davvero unica e imperdibile, dunque, per gustare, in anteprima, 145 capolavori sottoposti a restauro, che, poi, torneranno ai rispettivi luoghi d’appartenenza. Ben trenta secoli di storia attraverso il nostro patrimonio artistico culturale. Opere eterogenee che ci conducono a spasso nel tempo e nel nostro magnifico paese, come, per esempio, la “Statua naofora di Amenmes e Reshpu” in calcare egiziano di ben 32 secoli fa. Un restauro precedente, per preservare l’opera, l’aveva ricoperta con una miscela al silicone che, purtroppo, però, impedì la normale traspirazione del calcare, comportandone la frattura interna. Questo capolavoro è stato ora riportato alla sua bellezza. Altra opera, di ben 25 secoli fa, è il “Cavaliere Marafioti” in terracotta policroma, rappresentante, probabilmente, un Dioscuro. Il suo nome deriva da “Casa Marafioti”, ovvero, la villa, vicino Locri, sotto le cui fondamenta, fu ritrovato, a pezzi, questo capolavoro. Oggi, lo ammiriamo in tutto il suo splendore, grazie, anche, a un’accurata opera d’uniformazione del colore. È interessante notare come il restauro, secondo le leggi di Cesare Brandi nella sua “Teoria del restauro”, debba seguire i principî di “storicità” e “reversibilità”, ovvero: ogni lavoro di ripristino effettuato deve, rigorosamente, rispettare sia l’opera che la sua epoca e deve poter essere totalmente rimosso. Principî che, purtroppo, non furono rispettati dal primo restauratore dell’“Adorazione del bambino” di Lorenzo Lotto, che trattò il dipinto con una pasta abrasiva molto aggressiva, devastandolo completamente. L’unica azione di restauro che è stato possibile attuare su quest’opera è stata di sola conservazione. Scempio a parte, sarà, però, molto interessante paragonare il lavoro su quest’olio con i lavori su altri olî, come, a titolo d’esempio, la “Madonna con il Bambino tra i santi Gennaro, Nicola di Bari e Severo” di Filippo Vitale, oppure il “Cristo risorto” di Rubens, ove, invece, il lavoro di restauro raggiunge la perfezione, ridonando bellezza, lucentezza e completezza alle opere senza manipolarle troppo. Un equilibrio veramente perfetto. Cito solo alcune delle altre chicche presenti in questa mostra e da gustare come, per esempio, i vetri dei maestri vetrai muranesi. È straordinario apprendere come il vetro nasca perfetto in sé e pertanto, il lavoro successivo di restauro e conservazione di tale materiale necessiti un procedimento particolarissimo e molto delicato, poiché, persino la semplice acqua rovinerebbe, irreversibilmente, le opere. E ancora, la magnificente armatura da parata giapponese donata ai Savoia, del tipo do-maru a fettucce di seta azzurra e composita di numerosi materiali. Proprio quelle fettuccine hanno richiesto l’intervento d’una restauratrice di tessuti che ha lavorato su ciascuna di esse. Si noterà che, l’armatura, dietro ha degli anellini: essi servivano a chiuderla con un nastro rosso, purtroppo, andato distrutto; per non mutare la “storicità” dell’opera, si è ritenuto opportuno, non sostituirlo con nastro moderno. Infine, vorrei spendere una parola sui disegni restaurati in mostra, perché, per chi l’avesse visitata nei primi mesi, essi sono stati cambiati, ora, troviamo esposti trentasette disegni di Sebastiano Ricci e vi spiego perché. Il “disegno” è un’opera delicatissima che deteriora molto rapidamente, pertanto, non può essere esposto per più di novanta giorni e sempre sotto una luce fredda di massimo 30A. Decorso questo periodo, deve, tassativamente, essere riposto, al buio, per cinque anni. Saputo questo, posso assicurarvi che diventa estremamente affascinante osservare questi capolavori, così intensi, ma anche, così fragili. Eventuali buchi o lacune sono stati restaurati utilizzando una finissima carta di riso giapponese prodotta a Tokyo.

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Le intime Infinitesimalità del poeta Davide Rocco Colacrai

Oggi incontriamo un giovane poeta di Terranuova Bracciolini, Davide Rocco Colacrai. A soli 34 anni ha già conseguito oltre 500 riconoscimenti partecipando a concorsi letterari, anche internazionali ed europei, le sue poesie sono contenute in più di un centinaio di antologie, e ha all’attivo ben tre libri: Frammenti di parole (GDS, 2010), SoundtrackS (David and Matthaus, 2014) e Le trentatré versioni di un’ape di mezzanotte (Progetto Cultura, novembre 2015), quest’ultimo sostenuto da uno spettacolo musico-visivo di presentazione, in tournée fino a pochi giorni fa. La nuova opera, Infinitesimalità (VJ Edizioni, Verona), è in uscita entro la fine del mese.

Il tuo nuovo libro di poesia si intitola “Infinitesimalità”. Come nasce?
Tecnicamente il libro nasce come premio di un concorso letterario: infatti ho vinto il primo premio del Concorso “Arco dei Gavi” per la sezione poesia, e mi è stata riconosciuta la possibilità di realizzare una mia opera per le VJ Edizioni di Verona. Artisticamente invece non ho una risposta precisa da dare, nel senso che sapevo, “sentivo”, che erano maturi i tempi per un nuovo libro e sapevo anche di volerlo chiamare “Infinitesimalità”, tutto il resto è stato intuivo, era, come dire, già pronto, in attesa.

C’è una evoluzione rispetto al tuo libro precedente, “Le trentatré versioni di un’ape di mezzanotte”?
Penso che, rispetto al lavoro precedente, sia da riscontrarsi una inevitabile evoluzione, sicuramente nell’uomo, di conseguenza nel poeta. Infatti si affrontano temi diversi ovvero alcuni degli stessi temi ma in modo più diretto, più di petto, c’è un maggiore coraggio nel parlare, nell’esporsi, anche nel prendere una posizione, una maggiore naturalezza in tutto questo, tuttavia lo stile è più elaborato, simbolico, di non semplice e immediata decifrazione, aperto a molteplici letture. “Infinitesimalità” è un lavoro più intimo, più intimista, e come tale pervaso da un dualismo “infinitesimale”.

Visto che c’è, l’evoluzione di cui chiedevamo, quale è il tuo poeta o scrittore di riferimento?
La verità è che non ho un poeta o uno scrittore di riferimento o che è da me preferito ad un altro. Mi piace leggere, ascoltare, fare mie le parole, i silenzi e le storie, “possedere” il mondo. Inoltre amo sperimentare, soprattutto con la lingua italiana, giocare e stravolgerla, osare e andare oltre rispetto ai limiti tacitamente imposti, accettati, nella poesia, non dire cose già dette ovvero dirle ma in un modo diverso, un modo che obbliga il lettore a fermarsi e a domandare, ad entrare in contatto a tu per tu con i suoi dubbi, un modo che lo mette sulle spine perché deve decidere, egli medesimo, sotto la propria responsabilità, come e quanto significare, e perché.

Ci parli della tua esperienza poetica e del tuo percorso artistico?
Ho avuto la fortuna di sperimentare più strade artistiche prima di “sentire”, di sapere, che la poesia fosse la mia. Infatti ho iniziato con la musica, suonando alcuni strumenti, ho dipinto per molti anni, per un periodo ho realizzato alcuni remixes come dj che circolano tutt’ora nella rete e, infine, sono approdato alla poesia. La mia esperienza poetica pertanto mi piace definirla una esperienza “medianica”, nella misura in cui tutte le sensibilità che ho coltivato nel tempo si sono unite per confluire verso una sensibilità unitaria, indefinita, a volte anche “maledetta”, per mezzo della quale devo saper gestire il dono, e così la responsabilità, di raccontare storie, storie che non sono mie, personali, e che tuttavia appartengono a tutti, sono storie del mondo, storie dell’uomo. L’esperienza poetica infatti ha come fondamento, per me, una vocazione, non una passione, non un passatempo, ma una vocazione dalla quale deriva una responsabilità precisa verso se stessi e verso gli altri: come dicevo, la responsabilità di prendere con sé le storie e di raccontarle, esplicitarle, condividerle. E posso confermare che a volte fa male.

Il mondo ha bisogno della poesia o la poesia ha bisogno del mondo?
Sono convinto che il mondo abbia bisogno della poesia tanto quanto la poesia è bisognosa del mondo. Infatti la poesia si nutre del mondo, come dicevo poc’anzi è fatta di storie, le parole sanno raccontare ed ascoltare, così il mondo a sua volta si nutre della poesia per non essere dimenticato, per sentirsi meno solo, per vivere. L’uno presuppone l’altra in un rapporto biunivoco di sopravvivenza, di completezza, e anche di bellezza.

Allora possiamo riconoscere un ruolo al poeta nella nostra società?
Ho già affermato che il poeta ha una responsabilità ben precisa, quella di prendere una storia e raccontarla. Pertanto se è da riconoscergli un ruolo penso debba essere quello di stimolare le persone, i lettori, di spingerli ad essere se stessi, ad ascoltarsi, a volersi bene, ad accettarsi, ad avere cura di sé e degli altri, ad ascoltare, ascoltare soprattutto quello che l’altro custodisce dentro di sé, le voci del mondo, i silenzi del cuore. Insomma il poeta può influenzare il lettore ad essere migliore. Può fare in modo che via sia una maggiore responsabilità, e bellezza, dentro e fuori.

Che cosa è allora un poeta?
La domanda esatta è chi è un poeta, o forse cosa c’è dentro, dietro, un poeta.
Un poeta, almeno per quanto mi riguarda, è un uomo dominato da un essenziale dualismo nella misura in cui da un lato da sempre “percepisce” l’esistenza di qualcos’altro, un oltre, qualcosa di indefinibile e inafferrabile, di sottile e infinitesimale che, da dentro, lo fa sentire completo, sicuro, a proprio agio nella sua diversità, probabilmente è una forma di fede, di amore, d’infinito, insomma “sa” di appartenere a un Tutto; dall’altro ha conosciuto, e così accumulato, un numero incontabile di cattiverie, ingiustizie, dolori, brutture, solitudini, e similari, senza una capacità di reazione, che un giorno si è ritrovato con una sola alternativa possibile, quella di implodere e quella di esplodere, e gli è venuta naturale la seconda: in primo luogo per ascoltare se stesso, per ri-comporsi, per darsi una forma, di conseguenza per condividere la propria versione con gli altri, in particolare con coloro che hanno, ciascuno, vissuto una esperienza simile secondo una versione differente, la propria. Il poeta è allora quella somiglianza d’uomo nel buio del mondo per gli altri.

I temi sociali quanto influenzano la tua poesia?
Dal momento che ho parlato di una responsabilità del poeta, e di una funzione dello scrivere, dell’essere più che del fare poesia, e del poeta come modello di riferimento, allora la poesia è, essa stessa, per sua natura, intrinsecamente sociale. Ciò significa che la poesia, la mia poesia, è finalizzata a vincere l’indifferenza e le solitudini, il lato oscuro che l’uomo ha, e tutte le sue espressioni. E l’unico modo, secondo me, per farlo, è metterlo davanti allo specchio con se stesso.

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Natura tra realtà e astrazione secondo Guido Alimento

Natura tra realtà e astrazione è la nuova mostra personale dell’artista e fotografo Guido Alimento (Macerata, 1950) a cura di Vittorio Schieroni ed Elena Amodeo, che verrà presentata il prossimo 28 giugno presso lo spazio Made4Art di Milano.

In esposizione una selezione di opere caratterizzate dalla presenza preponderante della natura, ritratta, interpretata e immaginata da Alimento sulla base della propria profonda e poetica personalità artistica.

In particolare si potranno ammirare le opere appartenenti alla serie Profumo di fiori, lavori delicati e forti allo stesso tempo, nei quali ogni soggetto ritratto da simbolo di caducità diviene icona di eternità e di sacralità della vita, nonché gli scatti di Natura stilizzata, dove le decorazioni presenti negli elementi architettonici di antichi edifici religiosi tratteggiano una natura essenziale, densa di significati simbolici.

In mostra anche alcune immagini fotografiche di Luci e geometrie, scatti inediti dell’artista marchigiano che colgono le linee, i segni e i colori di un territorio rurale mettendone in luce geometrie e campiture, come in pregevoli composizioni pittoriche astratte.

Una natura intima e piena di ispirazioni ed emozioni, quella di Guido Alimento, ricca di quella musicalità che è presente in ogni essere vivente e in ogni elemento che compone il Creato, senza trascurare l’opera dell’uomo.

Natura tra realtà e astrazione, con data di inaugurazione martedì 28 giugno, rimarrà aperta al pubblico fino all’11 luglio. La mostra è inserita nella piattaforma progettuale Made4Expo.

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Guido Alimento. Natura tra realtà e astrazione
a cura di Vittorio Schieroni ed Elena Amodeo

28 giugno – 11 luglio 2015
Inaugurazione martedì 28 giugno, ore 18.30
Lunedì ore 16 – 19, martedì – venerdì ore 10 – 13 / 16 – 19

M4A – MADE4ART Spazio, comunicazione e servizi per l’arte e la cultura
Via Voghera 14 – ingresso da Via Cerano, 20144 Milano
www.made4art.it, info@made4art.it, t. +39.02.39813872

Un progetto M4E – MADE4EXPO | www.made4expo.com
Un evento: Expo in Città




West End Live, 48 ore di musical pronte a infiammare Londra

Sabato 18 e domenica 19 giugno, in un solo weekend oltre 25 block buster del West End londinese si alterneranno in scena a Leichester Square per uno show imperdibile: il West End Live 2016, giunto ormai alla sua 12° edizione. Dalle 11 (domenica dalle 12) alle 12 una full immersion con i migliori interpreti della scena londinese che riproporranno, davanti al pubblico di Leichester Square , il meglio dei diversi show. C’è di più…è anche gratis.

I nomi dei musical attesi al West end Live sono da brivido tra i superclassici del West End londinese:  American Idiot, Beautiful – The Carole King Musical, The Bodyguard, Charlie And The Chocolate Factory, Disney’s The Lion King, In The Heights, Impossible, Jersey Boys, Les Misérables, Mamma Mia!, Matilda The Musical, The Phantom Of The Opera, Showstopper! The Improvised Musical, Stomp, Sunny Afternoon, Thriller Live e Wicked. debuttan questanno all’11° edizione del West End Live: Kinky Boots,  Breakfast At Tiffany’s, Crazy For You, Guys And Dolls, Jesus Christ Superstar, Motown The Musical, Murder Ballad, The Secret Garden, Show Boat e The Wedding Singer. Tra le star del musical sono poi attesi: Beverley Knight, Matt Cardle, Samantha Barks e  Pixie Lott.

L’ideale per  partecipare all’evento e goderselo fino in fondo è quello di arrivare già attrezzati a Leichester Square con tutto quello che può servire in una classica giornata londinese: dalla crema solare all’ombrello, senza dimenticare magari qualche genere di alimentare di conforto per ampliare il godimento…ovviamente anche all’interno del Wes End Live non mancano i punti ristoro, ma la scelta è più ampia in un tesco qualsiasi.  Arrivare presto è un must per non perdersi neppure un secondo del West end Live ed essere sicuri di entrare,  possibilmente prima dell’apertura dei cancelli  così come mettersi ordinatamente in fila  (generalmente l’apertura dal lato della Sainsbury Wing della National Gallery corre più veloce) e aspettare il proprio turno. una volta entrati è bene scendere subito verso il palco, non appena infatti la piazza si riempie chiudono l’accesso al palco. Se sono libere poi è consigliabile accaparrarsi subito un posto sulle scale, possibilmente in alto: si ha un audio e una visuale perfetta, stando per di più comodamente seduti.
Insomma il West End Live per chi è a Londra in questi giorni, è un’occasione da non lasciarsi sfuggire.

 




ISPIRAZIONE D’AUTORE: GIACOMETTI MEETS HOMINI

Verrà inaugurata, lunedì 13 giugno alle ore 18.30 presso lo Spazio Eventi di Regione LombardiaGrattacielo Pirelli, la mostra “Ispirazioni d’autore: GIACOMETTI MEETS HOMINI”.

L’esposizione è il frutto concreto della collaborazione, avviata lo scorso anno, tra il magazine d’arte e cultura Hestetika, la The Boga Foundation e il Centro Studi Casnati di Como.

In mostra saranno esposte due opere di Alberto Giacometti appartenenti alla collezione della The Boga Foundation (Donna che camminaNudo in piedi) alle quali saranno contrapposte una serie di sculture-installazioni della serie “Homini”, realizzate dai Boga, frutto dell’eclettica creatività degli artisti che, attraverso le loro visioni post-moderne e surreali, trovano preziosa fonte di ispirazione dall’opera di Giacometti, creando un perfetto percorso concettuale incentrato sullo sviluppo e la ricerca della dinamica come forma di espressione e generatore di emozioni.

A contorno del progetto una serie di manufatti elaborato dai ragazzi del Casnati (sculture, pitture e installazioni di food) che nascono da una serie di laboratori e workshop con a tema l’opera di Alberto Giacometti e l’interpretazione del colore, del segno e della sua scultura.

La realizzazione della mostra, progettata, organizzata e realizzata da Habitare – Idee Culturali di Tradate (Va), è stata possibile grazie alla collaborazione di Regione Lombardia e grazie ai prestiti della The Boga Foundation e vuole essere un tributo in occasione della ricorrenza dei 50 anni della morte dell’artista Svizzero oltre che essere una opportunità per conoscere come l’opera di Giacometti sia sempre viva nel tempo ispirando generazioni e generazioni di artisti.

Così spiegano i Boga l’approccio alla mostra: “La nostra è una visione post-moderna e surreale che ha sempre trovato preziosa fonte di ispirazione dall’opera di Giacometti. In mostra si viene a creare un perfetto percorso concettuale incentrato sullo sviluppo e la ricerca della dinamica come forma di espressione e generatore di emozioni. “L’uomo che cammina” è un passo avanti al futuro. Gli Homini sono l’essenza dell’essere umano. Una sua proiezione silenziosa, statica e dinamica al tempo stesso. Gli Homini osservano il mondo, ne creano il suo contorno, sottile, impreciso e a volte anche grezzo. Sono la rappresentazioni del pensiero e della quotidianità e si muovono attraverso l’idea progettuale. L’Homino, attraverso la sua forma e la sua dinamicità, mostra il suo carattere per poi riempirsi ed integrarsi con quello dell’osservatore. Il suo vuoto interno è colmato da chi lo guarda. L’Homino è l’idea dell’essere umano e la sua forma che va oltre il surrealismo e l’espressionismo. L’Homino dinamico nella sua staticità è vivo”.

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ISPIRAZIONE D’AUTORE: GIACOMETTI MEETS HOMINI
Dal 14 giugno al 11 luglio 2016
Spazio Eventi di Regione Lombardia – Grattacielo Pirelli – 1° piano
Via Fabio Filzi 22 – Milano
Inaugurazione lunedì 13 giugno 2016 – ore 18.30 – Ingresso da Piazza Duca D’Aosta 1
Ingresso libero
Informazioni al pubblico: info@thebogafoundation.it




Le Rappresentazioni dell’inconscio di Marina Berra

Rappresentazioni dell’inconscio è la nuova esposizione di opere pittoriche dell’artista Marina Berra (Milano, 1969), presentata da Made4Art, in mostra da questa sera fino al 15 giugno 2016 presso Castelli Gourmet – Castelli Gallery in Via Cerano 15 a Milano.

In mostra una selezione di lavori di Marina Berra rappresentativa della sua produzione artistica più recente, tele che fanno parte delle serie Espressionismo astratto e Materici. Le composizioni dell’artista lombarda sono caratterizzate da una presenza cromatica decisa e affascinante, colori che talvolta si uniscono a materiali diversi quali sabbia e gesso e che danno origine a dipinti capaci di stupire e avvincere, di esprimere i sentimenti e le emozioni dell’essere umano. Opere che si rivelano essere delle vere e proprie rappresentazioni dell’inconscio dell’artista, nelle quali ognuno di noi può riconoscersi e ritrovare aspetti della propria interiorità.

Marina Berra, Invincibile per proteggerti, 2016, tecnica mista su tela, 60x60 cm Marina Berra, Perché lei è speciale, 2016, tecnica mista su tela, 70x70 cm

Marina Berra | Rappresentazioni dell’inconscio

Castelli Gourmet – Castelli Gallery | Via Cerano 15 | 20144 Milano
31 maggio – 15 giugno 2016

Evento a cura di:
M4A – MADE4ART
| Spazio, comunicazione e servizi per l’arte e la cultura
di Vittorio Schieroni ed Elena Amodeo
www.made4art.it – info@made4art.it

Un progetto M4E – MADE4EXPO




“KISS ROCKS VEGAS” – EVENTO UNICO PER GLI AMANTI DEL ROCK

di Elisa Pedini – Da non perdere, data unica il 31 maggio per le sale italiane: i magici, ineguagliabili, mitici KISS conquistano anche il grande schermo, con “KISS ROCKS VEGAS”. Un film che promette e mantiene uno spettacolo psichedelico e coinvolgente. E allora, pronti a gridarlo forte, perché la data è unica e irripetibile. Potete trovare la sala più vicina a voi sul sito: www.nexodigital.it. Immaginate cosa può succedere se il gruppo icona mondiale del rock atterra nella città del peccato: come spesso accade, la realtà supera la fantasia, in un’iperbole di effetti speciali e grandi classici della band più premiata al mondo. Se gli amanti del rock pensano che ci sia poco da sapere sui KISS e sui loro concerti, debbono ricredersi perché, questo di Las Vegas, è davvero uno spettacolo unico al mondo e vado a spiegarvi il perché. Innanzi tutto, introduco brevemente i tratti salienti. I Kiss si formano nel 1973 a New York, per volontà di Gene Simmons, al basso e Paul Stanley, lead vocal e chitarra ritmica, che resteranno sempre i due pilastri della band. Per gli altri due membri, invece, ci saranno diverse sostituzioni nel tempo, dovute a motivi differenti. Il gruppo si caratterizza, fin da subito, con alcune peculiarità: prima fra tutte, il look. Ispirandosi al teatro Kabuki, ogni membro si pittura la faccia di bianco e quindi si dipinge con i tratti che più lo caratterizzano. Si creano dei veri e propri personaggi, con trucco, costume e “personalità” ben definite. Resterà per sempre così. In effetti, a tutt’oggi, i Kiss sono uno dei pochi gruppi dove ogni elemento è riconoscibile immediatamente e proprio per questo, ognuno di loro ha il suo “seguito” anche al di fuori della band. Altra particolarità è la scelta d’una musicalità ben precisa: un rock duro, incisivo e fortemente caratterizzato, seppur i testi parlano, per lo più, d’amore e di sesso. Ultima nota di spicco è costituita dagli effetti speciali, legati non solo ai personaggi come possono essere le lingue di fuoco e il sangue sintetico di Gene-“The Demon”, o le seducenti movenze di Paul-“The Starchild”; ma anche quanto accade tutto intorno a loro sul palco: scenografie colossali, fuochi d’artificio, chitarre che sparano razzi e fumo, giochi di luci, video, piattaforme mobili e molto altro ancora. Ad oggi, la band ha all’attivo più di 100 milioni di dischi venduti, 30 album d’oro e 14 di platino. Nel 2014 sono stati inseriti nella Rock and Roll Hall of Fame. Nel 2015 hanno ricevuto anche l’illustre ASCAP Award. Oltre 40 anni di tour mondiali e l’ultimo, avvenuto sempre nel 2015, con cinque spettacoli in Giappone e un singolo che ha rapidamente raggiunto la prima posizione: “Samurai Son”, composto insieme al gruppo pop Momoiro Clover Z. Ecco, riassunta, molto brevemente, l’identità del gruppo, ora, vi chiedo d’immaginare la spettacolarità classica dei Kiss, che, tengo a precisare, generalmente s’esibiscono in stadi ove fanno registrare il tutto esaurito, trasposta su un palcoscenico, al chiuso. Detta così, sembra proprio un’impresa impossibile. Ma, qui, è col perfezionismo e la determinazione dei Kiss che ci si confronta. “Kiss rocks Vegas” vi mostra proprio il “dietro le quinte” e poi, il concerto stesso che la band ha tenuto nel novembre 2014 all’Hard Rock Hotel & Casino di Las Vegas. Collezionando ben nove repliche. Interviste esclusive a Gene Simmons, Paul Stanley, Tommy Thayer, che è anche il produttore del film, v’illustreranno proprio le difficoltà, le sfide e le soluzioni che la band ha affrontato per allestire uno spettacolo che, non solo fosse rappresentativo dei Kiss in tutto e per tutto, ma che potesse, anche, competere con i concerti che, usualmente, la band fa e che i fans si aspettano. Lo spettacolo ha letteralmente spopolato. Inoltre, il fatto che le interviste precedano il concerto, rende il film ancor più realistico, perché, non solo mette lo spettatore in prima fila a un concerto dei Kiss, pur restando dentro l’ovattata comodità d’un cinema; ma, consente di guardare le scenografie e gli effetti speciali con una profonda consapevolezza delle scelte e delle prove che ci stanno dietro. Aspetto, questo, che fa gustare ancora di più la performance. La sensazione è quella d’aver preso attivamente parte alla creazione dello spettacolo. Sul palco dell’Hard Rock Hotel, insieme a Gene e Paul, ammiriamo e ascoltiamo anche Tommy Thayer-“The Spaceman”, alla chitarra solista ed Eric Singer-“The Catman” alle percussioni. Mi sento di non restringere il target del film ai soli appassionati di hard rock, perché potrebbe rivelarsi una bella esperienza anche per chi non sia esattamente un fan del genere. A mia opinione, “Kiss rocks Vegas” rappresenta, invece, un’opportunità unica, non solo per gli amanti del genere di gustarsi un vero concerto dei Kiss, ma anche per chi fosse soltanto curioso e volesse “sperimentare” l’hard-rock, in versione cinematografica.




“COLONIA” – LA FORZA DELL’AMORE, L’ATROCITÁ D’UN REGIME

di Elisa Pedini – Nelle sale italiane dal 26 maggio, il film “Colonia”, ad opera del regista tedesco Florian Gallenberger, che ne è anche sceneggiatore. Regista versatile che nella sua carriera ha dimostrato di sapersi confrontare con generi diversi e sempre con successo. Vincitore del Premio Oscar per il miglior cortometraggio nel 2001 con “Quiero ser”, è poi passato al lungometraggio. Già col suo precedente film, “John Rabe”, il regista s’è incanalato sul filone delle storie ispirate a eventi realmente accaduti. “Colonia” è un film drammatico, severo, crudele. La tematica trattata è molto pesante, ma vera e la pellicola ne mostra in modo lucido tutta l’atrocità. Forse, un po’ troppo romanzata la sceneggiatura in certi punti, ma rientra, senza forzature, nei canoni della trasposizione degli eventi in linguaggio cinematografico. La trama è complessa e profonda perché, seppur sostenuta da due binari molto chiari: l’amore da un lato, la dittatura dall’altro, di fatto sottende e mostra tutta una serie di riflessioni ad ampio spettro. Vi accennerò i punti salienti, ma è un film che va visto perché sono molti, troppi, i pensieri suscitati, le emozioni evocate, da poter essere trasposti; vanno provati in prima persona. La storia è ambientata a Santiago del Cile nel 1973. Siamo in piena guerra fredda e questa terra ne diviene uno specchio, un terreno di disputa. Il traffico d’armi passa per il territorio cileno e gli interessi, sia politici che economici, sono troppi. Salvador Allende è Presidente del Cile in quel momento. Il primo Capo di Stato marxista, eletto democraticamente dal popolo nell’America del Sud. Gli USA ne contrastano la presidenza, ma il popolo, invece, è in piazza per appoggiarlo. Il clima è teso e le manifestazioni si susseguono. Il mondo tiene gli occhi puntati sul Cile. Si teme una guerra civile. Daniel, giovane foto-reporter tedesco, s’è trasferito a Santiago da quattro mesi per motivi di lavoro. Vuole documentare quanto sta avvenendo in Cile. È attivo nel movimento a sostegno di Allende e quindi costantemente in piazza insieme al comitato socialista. La sua fidanzata, Lena, è una hostess e si fa assegnare sulla tratta per Santiago per fargli visita. In teoria, deve restare solo quattro giorni, fino al volo di rientro. Una mattina, invece, arriva una telefonata a Daniel. È la mattina dell’11 settembre 1973. C’è stato un golpe. Salvador Allende è stato assassinato. Augusto Pinochet ha preso il potere. I sostenitori e i simpatizzanti di Allende e del socialismo vengono arrestati. È iniziata la dittatura. I due ragazzi scappano immediatamente dalla casa, primo posto dove, eventualmente, verrebbero a cercare Daniel. Corrono in strada. Il ragazzo si porta dietro la macchina fotografica e s’attarda a scattare fotografie ai soldati che reprimono la folla. Lena lo chiama, lo sprona a correre. Tardi. I soldati s’accorgono, lo picchiano, gli sequestrano la macchina fotografica e li arrestano. Tutte le persone “rastrellate” vengono riunite allo Estadio Nacional de Chile”. È notte ormai. Arriva un elicottero della Fuerza Aérea de Chile, ne scendono dei militari e un uomo a volto coperto. Quest’ultimo, passa in rassegna la schiera di persone e indica, uno per uno, i sostenitori, i simpatizzanti, i sindacalisti. Daniel, ovviamente, viene segnalato come tedesco attivista. Il ragazzo viene caricato su un pulmino, che sembra un’autoambulanza e portato via. Lena, invece, viene liberata. La ragazza rientra a casa e trova tutto a soqquadro. Si reca alla sede del comitato socialista, ma non ne riceve l’aiuto sperato. Descrive il mezzo con cui è stato portato via Daniel e le spiegano che quello è il pulmino per “Colonia Dignitad”, un posto che si trova nel sud e dal quale nessuno ha mai fatto ritorno. Lena decide di non fare rientro in patria e di cercare Daniel, ad ogni costo. Si reca alla sede di Amnesty International, dove viene a scoprire che “Colonia Dignitad” è una setta, guidata da tale Schäfer e che gode della protezione del regime. Le viene, anche, confermato che nessuno ne è mai uscito. Ma, l’amore, si sa, è il più potente motore del mondo. È l’unica passione che può dare la forza di superare qualunque ostacolo, anche la morte. Lena decide che, se Daniel non può uscire, allora, sarà lei a entrare. Avvisa al lavoro che ci sono problemi grossi in Cile e che lei non può rientrare. Si veste da pudica educanda, prende una piccola borsa di effetti personali e parte. Destinazione: Colonia Dignitad. Quando arriva, è ben chiaro, da subito, che c’è qualcosa di strano: il posto sembra una zona militare con tanto di filo spinato e torrette di controllo. Lena entra. Subito le vengono sequestrati passaporto ed effetti personali, quindi, incontra Schäfer, o, come si fa chiamare lui, “Pius, il buon pastore”. La ragazza non ci mette molto a capire che, in realtà, è un luogo di prigionia dove regnano terrore e atroce violenza. Il luogo è triste, l’oppressione è tangibile, le camerate sono squallide, le persone totalmente spersonalizzate e costrette a lavori estenuanti. Contestualmente, Daniel viene torturato crudelmente e ridotto in fin di vita. Trasportato in infermeria, dove lo credono totalmente privo di coscienza, sente dire che con altissima probabilità non sopravvivrà e quand’anche vivesse, non si riprenderà. I danni cerebrali subiti potrebbero essere irreversibili. In tutto questo, lo spettatore sente il peso dell’oppressione: la vive coi protagonisti e soprattutto vive lo strazio di Lena, dovuto alle violenze ignominiose che vede, a quelle che vive, ma, soprattutto, al suo più grosso, intimo, personale problema: Daniel non sa che lei è lì, né lei è in grado di scoprire dove lui sia e questo perché, a “Colonia Dignitad”, uomini, donne e bambini vivono totalmente separati senza avere contatto alcuno tra loro. Non siamo molto distanti dalle tristi realtà dei lager. Lena è prostrata. Lo sdegno, il dolore e l’impotenza la devastano. Tutto quello che succede attorno a lei è allucinante. Una notte, scopre un modo per farsi vedere da Daniel, è pericoloso, potrebbe costarle la vita, ma lei deve rivederlo, deve sapere, almeno, se è vivo. Il folle piano della ragazza non da l’esito cercato. È, in verità, la parata organizzata per l’arrivo di Pinochet a “Colonia Dignitad” a offrire ai due ragazzi l’opportunità di vedersi. È in questa occasione che veniamo a scoprire che la colonia non serve solo da campo di tortura e prigionia per dissidenti, ma anche da centro di reperimento armi per il regime e di test per le armi chimiche sui prigionieri. Daniel, ritenuto inutile nella colonia per i suoi apparenti problemi neurologici, è la vittima designata per il test del gas asfissiante. Non resta che tentare una fuga disperata, ma, è noto a tutti che, da “Colonia Dignitad”, nessuno ha mai fatto ritorno. Inoltre, vi ricordo, che uomini e donne sono separati e senza possibilità alcuna d’incontrarsi. Da qui non vi dico altro perché se cominciassi a descrivervi tutto quello che succede, tutto quello che passano i due protagonisti, ma anche le stesse persone che vivono nella colonia, finirei per raccontarvi tutto il film. Quello che, invece, voglio sottolineare ancora, è che si tratta di una pellicola che va vissuta, fino in fondo. Il bagaglio emotivo, così forte da essere stordente, con cui sono uscita dalla sala s’è tradotto in un silenzio profondissimo, non trasponibile in parole. “Colonia” è un film che ha centrato in pieno l’obiettivo di Florian Gallenberger: mettere in luce quanto accadeva aColonia Dignitad realmente e le torture di cui era capace il regime di Pinochet per punire quelli che a lui erano contrari. Sublime l’interpretazione dei protagonisti. Un’intensa e superlativa Emma Watson, nel ruolo di Lena, trasmette la sensazione che la parte le sia stata cucita addosso come una seconda pelle. Sarà perché ella stessa è davvero un’attivista impegnata nella vita, ma, veramente, in questa parte, riesce a oltrepassare la soglia dell’“ottima interpretazione”, va decisamente oltre. Emma è Lena. Impeccabile anche Daniel Brühl, nel ruolo di Daniel, che si mostra fortemente intenso e versatile, rendendo con grande naturalezza e realismo ogni azione del protagonista.

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“PELÉ”: COME SI DIVENTA UN MITO

di Elisa Pedini – Arriva nelle sale italiane dal 26 maggio, l’attesissimo film “Pelé” per la regia dei giovani registi Jeffrey e Michael Zimbalist. Il loro successo nel campo documentaristico, dove hanno esplorato sia il Brasile che la cultura brasiliana, ha assicurato al film una prospettiva unica e un tono profondo di veridicità. Hanno curato anche la sceneggiatura, basandosi su mesi d’interviste a Pelé, ai suoi amici più stretti e ai suoi parenti. Una pellicola intensa, potente e carismatica come l’anima del grande campione di cui ci narra la storia: Edson Arantes do Nascimento, “O Rei” (trad: “Il Re”) come lo chiameranno i brasiliani, o Pelé, come lo chiamerà tutto il mondo. Un uomo che, dal nulla e dalla profonda povertà, s’è fatto “leggenda”, grazie a un talento innato, ereditato forse dal papà, ma soprattutto e ci tengo a sottolinearlo, grazie alla determinazione e a un lavoro durissimo. Questo immortale “campione del calcio”, è, prima di tutto, un “campione nella vita”: esempio di sportività pura, di “fair play” all’ennesima potenza, di passione, di determinazione e di sacrificio. Sono le sue doti umane, i suoi «tre cuori», come lui stesso ha più volte affermato, giocando sul nome del paese natìo: Três Corações, unite a quelle agonistiche, che hanno fatto di lui un idolo. Inoltre, prima d’introdurvi al film, mi piace sottolineare alcuni aspetti. Il Brasile è una terra bellissima e gravata da pesantissimi problemi sociali, laddove la maggioranza della popolazione vive in una miseria straziante. Ma, caratteristiche, indomabili e basilari, del popolo brasiliano sono: la voglia di vivere e il senso di profondissime identità e appartenenza, che, questo film, delinea magistralmente. Una pellicola, dunque, che non è solo un omaggio a un mito umano, a un campione che, a tutt’oggi, resta “Il Re” e che ha cambiato per sempre la storia del calcio, ma è anche e soprattutto un atto d’amore verso un popolo: quello brasiliano. Edson Arantes do Nascimento nasce a Três Corações il 23 ottobre del 1940, ma quando ha cinque anni la sua famiglia si trasferisce a Bauru. Suo padre è João Ramos do Nascimento, meglio noto come Dondinho, calciatore professionista di talento, che, però, termina prematuramente la propria carriera a causa di un infortunio al ginocchio e sua madre è Maria Celeste Arantes. Il film inizia che Edson, detto “Dico” da amici e parenti, ha nove anni. Gioca a pallone a piedi nudi per le vie del villaggio coi suoi compagni. La passione del calcio e il talento, per lui, sono ereditari. Il 1950 vede lo svolgersi della quarta edizione del Campionato Mondiale di Calcio, dopo una pausa di ben dodici anni, causata dalla guerra, e il paese ospitante è proprio il Brasile. C’è grande aspettativa. C’è voglia di vittoria. Il padre di Dico segue fremente le partite. Il Brasile, però, subisce una cocente sconfitta, che viene vissuta in modo molto pesante dal popolo. Il piccolo Dico fa, allora, una promessa al suo papà, che suona audace e improbabile come tutti i sogni dei bambini: lui porterà il Brasile alla vittoria del Campionato del Mondo. Il tempo passa fra scuola e piccoli lavori per aiutare l’economia domestica. La mamma di Dico fa le pulizie a casa d’una famiglia benestante e un giorno porta Dico con sé. Il figlio dei proprietari, José, rientra con dei suoi amici. Stanno parlando d’un torneo giovanile di calcio che faranno lì a Bauru. Il piccolo Dico interviene, con tutta l’ingenuità dei bambini e pronuncia male il nome del portiere Bilé, chiamandolo Pilé. Ovviamente, s’attira la derisione e lo scherno della comitiva, che gli affibbia il nomignolo di Pelé, da cui l’odio di Dico verso quel soprannome, che, però, lo accompagnerà, per sempre, verso la gloria. Decide d’iscriversi al match con i suoi compagni. Perdono per un soffio, ma un talent scout nota le sorprendenti capacità di Dico e soprattutto il suo modo di giocare: la Ginga, orgoglio e spirito del popolo brasiliano. Personalmente ignoravo la storia del gioco spettacolare di Pelé e quindi, lascio il gusto di scoprirla anche a voi. Pelé andrà a giocare al Santos FC, prima nelle giovanili, poi nelle riserve, fino ad approdare in prima squadra. Fra competizione, dissidi con l’allenatore e duri allenamenti, arriva la convocazione per il Campionato Mondiale di Calcio. Pelé ha solo sedici anni. La competizione per essere scelti ed entrare in squadra è molto alta, oltre alla spiacevole evenienza di reincontrarsi con un altro fenomeno del calcio, ma sicuramente non suo amico: José. Quando scende in campo con la maglia della nazionale brasiliana, Pelé, ha 17 anni, è il 1958 e il Mondiale si gioca in Svezia. Il Brasile è dato totalmente perdente da tutti. Invece, giocando con questo stile unico e straordinario, che farà affermare in tutto il mondo il calcio come “il gioco più bello del mondo”, il Brasile, guidato da Pelé, vince il suo primo mondiale, diventando la prima nazione ad aver mai vinto un Campionato Mondiale fuori dal proprio paese. Il suo goal, realizzato nella finale con la Svezia, è considerato il terzo più grande goal nella storia della Coppa del mondo FIFA e il primo, tra quelli realizzati in una finale di un mondiale.
“Pelé” è un film davvero avvincente e poetico ad un tempo, anche per l’esecuzione molto realistica. A tale proposito trovo interessante accennarvi come siano giunti a scegliere gli attori protagonisti. Per il ruolo di Pelé è stato necessario avere due attori: uno che impersonasse il giocatore all’età di 9 anni e l’atro all’età di 16-17. Questo significava che, non solo dovevano avere caratteristiche fisiche simili al campione, ma anche, un talento naturale nel calcio e nella recitazione, oltre, a dover conoscere l’inglese. Si può comprendere come la selezione sia stata decisamente difficile e sfidante, tanto che ha comportato l’organizzazione del più ampio casting della storia del cinema contemporaneo. Sono state visionate persone d’ogni estrazione sociale e professione, attori professionisti, neofiti, giocatori esperti, studenti. Il primo a essere stato inserito nel cast è stato un bambino brasiliano che avrebbe interpretato Pelé all’età di nove anni: Leonardo Lima Carvalho, scelto per la sua grande spontaneità davanti alla cinepresa e il suo carisma. La ricerca del “Pelé sedicenne” è stata ben più disperata. Non riuscivano a trovare nessuno che soddisfacesse tutti i parametri necessari. Hanno iniziato a cercare per strada e anche sulle spiagge di Rio. Fino a trovare, finalmente, un candidato: Kevin de Paula, il quale s’è mostrato strepitoso, nonostante non avesse alcuna esperienza nella recitazione. Al fine di mantenere intatte l’integrità e l’autenticità della storia, i registi hanno deciso che il film sarebbe stato girato interamente in Brasile.

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