di Elisa Pedini – Arriva al cinema, dal 3 novembre, “LA PELLE DELL’ORSO”, vincitore di numerosi premi al Festival Annecy Cinéma Italien 2016, per la regia dell’esordiente Marco Segato e tratto dall’omonimo romanzo di formazione di Matteo Righetto.
“LA PELLE DELL’ORSO” è una pellicola molto paesaggistica, riflessiva, onesta, pura, schiva e scarna come i protagonisti della vicenda. Il “set-up” della sceneggiatura mette subito lo spettatore all’interno della realtà fisica e umana dei protagonisti. Le prime scene ci dicono tutto quanto c’è da sapere, per avere gli strumenti di decodifica di tutto il resto del film. “LA PELLE DELL’ORSO”, è ambientato negli anni Cinquanta, in un paese rurale del trevigiano, ai piedi delle Dolomiti: gente semplice e laboriosa, dai volti segnati dalla fatica e che si spezza la schiena nel duro lavoro, nei campi o alla cava.
“LA PELLE DELL’ORSO”, si apre con una specie di parata in maschera e il sostrato superstizioso ed evocativo, che la anima, è ben evidente. La vita che conducono gli abitanti del paese è altrettanto chiara allo spettatore. Vengono introdotti, anche, i due personaggi principali: Pietro Sieff e suo figlio, Domenico. Il muro che divide i due s’estrinseca nei loro silenzi, nella solitudine delle loro esistenze. Dividono lo stesso tetto, ma non la vita. Da un lato, un padre, che viene trattato da tutti come una “bestia”, ingiuriato, schernito e che trova nella bottiglia il suo rifugio. Dall’altro, un figlio, molto più maturo dei suoi quattordici anni, che da una mano agli zii con gli animali, si occupa della casa e del padre. Pietro, lavora alla cava e ha un rapporto difficile col capo, Crepaz. Un giorno, un orso bruno, che vive nei boschi, entra in una stalla e uccide una mucca. È già noto alla popolazione, la quale ha un approccio, ovviamente, di superstizioso terrore nei confronti dell’accaduto e qui, ci riallacciamo all’idea che ci ha trasmesso quella parata esorcizzante, in apertura del film. L’animale non è visto come una creatura affamata, ma è “el diàol”, il diavolo, astuto e cattivo, che ormai conosce bene tutti loro e i loro fucili. La sera, all’osteria, gli uomini ne parlano. Pietro, in un moto d’orgoglio e forse, anche, per riscattare la sua persona agli occhi degli altri, scommette con Crepaz che ucciderà l’orso. Un anno di paga, se vince. Se perde, lavorerà un anno gratis. Qui, inizia la “zona centrale” di “LA PELLE DELL’ORSO”, che si svolgerà tutta nel bosco, fra paesaggi stupendi. Pietro e Domenico si trovano da soli verso l’ignoto, alla ricerca del “diàol”, ma anche dei loro demoni interiori.
Il ritmo è lento, scandito dal silenzio che viene rotto solo da brevi, lapidari, scarni dialoghi, che, riverberano perfettamente le personalità dei due protagonisti, seppur s’avverte, in realtà, l’esigenza di una maggiore dinamicità, se non d’azione, quanto meno, dialogica. Certo, tutta la situazione è ben coerente e comprensibile, date le premesse molto chiare e approfondite del “set-up”. Siamo di fronte a due personalità chiuse, schive, che non hanno molto da dirsi, perché, di fatto, non si conoscono, dunque, non possiamo, naturalmente, aspettarci che si trasformino in due garruli ciarlieri, sarebbe incoerente e poco credibile.
Altresì, va sottolineato il gioco della regia con la telecamera, che passa dalla lucida messa a fuoco sul primo piano, che ci rivela, in modo inequivocabile, i pensieri e i moti dell’anima del personaggio in quel momento; all’apertura sul paesaggio circostante. Questo sistema d’interiorizzazione ed esteriorizzazione d’un pensiero, consente allo spettatore d’inferire, non solo quanto sta avvenendo dentro la testa dei protagonisti, ma anche come questo si riverbera sulle loro azioni.
La ricerca dell’orso, alla fine, diviene una ricerca di sé e dell’altro. In questi silenzi e in quelle battute, scambiate tra padre e figlio, troviamo la catarsi dell’uno e la presa di coscienza dell’altro. Un ritrovarsi, un supportarsi, che, però, va detto, non muta, in modo molto realistico, quella che è la natura dei due protagonisti. Raramente si trova questa verosimiglianza al processo mentale umano: i due personaggi evolvono e trovano il loro modo di comunicare e il loro modo di conoscersi, senza mutare il loro carattere.
La mancanza di spettacolarizzazione, rende ancora più realistica questa pellicola, che si nutre di umanità per un verso e di paesaggi per l’altro. La “conclusione” del film è molto rapida, come lo è stato il “set-up”, eppure, di nuovo, è l’indugio della telecamera sui volti che ci consente di capire molto più di quanto i personaggi esprimano a parole.
“LA PELLE DELL’ORSO” è, tecnicamente, un buon prodotto, solido e coerente nel suo svolgersi: il fulcro, ovvero, il rapporto padre-figlio, non viene mai perso di vista e resta sempre in primo piano. Buona, anche, l’interpretazione del cast: Marco Paolini e Leonardo Mason, rispettivamente nei ruoli di Pietro e Domenico Sieff, Paolo Pierobon, nella parte di Crepaz e Lucia Mascino, in quella di Sara.