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“Nonna Domenica”, una boutique del gusto dove riscoprire i sapori della tradizione

Le mode vanno e vengono e Milano ne è, da sempre, crocevia. Il rischio? È quello di non conoscere più le tradizioni della cucina italiana che pure, a molti neofiti di sushi e sashimi, potrebbe riservare grandi e golose sorprese. Proprio per questo,  nasce a Milano “Nonna Domenica” una piccola boutique del gusto dedicata alla cucina della nonna e ai sapori della tradizione, quelli appunto per cui non servono dizionari bilingue o costanti aggiornamenti online per capire le meraviglie presenti nel piatto. Sapori autentici, prodotti quando possibile bio e una ricerca costante della tradizione tricolore, nel materia e nella preparazione, sono questi i tratti essenziali di “Nonna Domenica”. L’indirizzo è di quelli da preservare con cura:  via Altaguardia 16, a cinque minuti a piedi dalla fermata della metropolitana di Porta Romana. Meglio prenotare però allo 02-58317200. Il locale si riempie presto apprezzato da chi, in questi pochi giorni dall’apertura, ne ha già provato la qualità, l’ambiente  e i prezzi non eccessivi (per un primo e un secondo si spendono 25-30 euro).  Sono solo 26 infatti  i coperti, così da creare un ambiente intimo seppure curato al minimo dettaglio, dove poter parlare e ascoltare senza essere assordati da vicini ingombranti o da una musica invadente. Il salotto di “Nonna Domenica” è solo leggermente più grande del salotto delle nonne, quello dove la famiglia si riuniva di domenica, ma ugualmente accogliente e dal gusto un po’ retro che invita  alla cordialità e alle chiacchiere. Sarà forse un caso ma persino la musica ascolta da “Nonna Domenica” si adattava perfettamente al locale: solo successi italiani dagli Anni ’70 in poi, quelli conosciuti e canticchiati da tutti nonostante le mode che, nella musica come nel cibo, ogni mese invadono Milano.

 Nonna Domenica 3
Il ristorante nasce dall’idea di Fabio Marenco che nella vita si sdoppia: consulente d’azienda di giorno in Long term Partner e di sera ristoratore per passione con un locale dedicato, per l’appunto, alla nonna: “Nonna Domenica”. Da sempre culto del buon cibo e del buon vivere, Marenco ha coinvolto in quest’avventura quattro soci per trovare,, secondo le sue stesse parole, “un ristorante dove potessi mangiare sano e bene prima di tutto io”. La chef Ilaria, nella prima vita architetto, ha poi tramutato l’idea iniziale in realtà e ricette adeguate addirittura ai tempi moderni da ricettari pluricentenari come le “uova in crostata croccante su crema di asparagi”, un piatto del 1884 portato nel futuro e offerto per 13 euro.  L’idea è basata su tre semplici principi: l’Italianità: nessuna regione precisa, ma tanti spunti e ricette speciali; la tradizione: nessun ingrediente lontano dalle cucine delle nostre nonne; le lunghe preparazioni: macerazioni, frollature, cotture rappresentate da piatti “lenti” per antonomasia.  Il menu poi varia spesso con proposte sempre nuove. 
 
Nonna domenica 4Nonna domenica
Il menù da “Nonna Domenica” non è fisso, ma varia con le stagioni e con le settimane. Ogni volta “Nonna domenica” propone qualcosa di nuovo, goloso e assolutamente da provare. Per questo, anche se è aperto da poco, il ristorante ha già una nutrita rigata di habitué. Da gustare, con il pane fatto in casa, l’arancino spaccato con ragù e accompagnato da culatta scelta, lo sformatino di carote con cuore fondente, il frico friulano con cialde di polenta o il polpo arrosto su crema di patate. Tra i primi meritano una menzione particolare gli Spatzle allo speck con noci e salvia, il risotto zucca e crescenza con semi di zucca o gli gnocchi al ragù bianco di agnello tagliato al coltello con scorzetta di limone e ginepro. Re indiscusso dei secondi piatti è lo stufato d’asina (ormai una rarità introvabile) o, in alternativa, la dadolata di filetto alla “Salsa Speciale della Nonna” con patate al forno e zucchine grigliate. Ottimo il Brandacujun alla ligure o il carciofo capitolino. Come dessert consigliato il castagnaccio all’antica con uvetta, pinoli e rosmarino. Il
Il menù non esteso, pochi piatti, preparati con cura .ma che ciclicamente cambiano secondo diverse categorie: i piatti della nonna, legati alla tradizione e una preparazione lunga che riesce a sprigionare al meglio profumi e sapore, i piatti tipici della cucina regionale e le proposte per una clientela vegana o vegetariana.  La cucina è saporita e leggera, anche la trazione in effetti può essere se non migliorata quanto meno aggiornata alle esigenze moderne. Il tutto accompagnato da una selezione di vini rossi e bianchi scelti  tra piccole cantine italiane con una produzione sotto le 100mila bottiglie all’anno.



“KISS ROCKS VEGAS” – EVENTO UNICO PER GLI AMANTI DEL ROCK

di Elisa Pedini – Da non perdere, data unica il 31 maggio per le sale italiane: i magici, ineguagliabili, mitici KISS conquistano anche il grande schermo, con “KISS ROCKS VEGAS”. Un film che promette e mantiene uno spettacolo psichedelico e coinvolgente. E allora, pronti a gridarlo forte, perché la data è unica e irripetibile. Potete trovare la sala più vicina a voi sul sito: www.nexodigital.it. Immaginate cosa può succedere se il gruppo icona mondiale del rock atterra nella città del peccato: come spesso accade, la realtà supera la fantasia, in un’iperbole di effetti speciali e grandi classici della band più premiata al mondo. Se gli amanti del rock pensano che ci sia poco da sapere sui KISS e sui loro concerti, debbono ricredersi perché, questo di Las Vegas, è davvero uno spettacolo unico al mondo e vado a spiegarvi il perché. Innanzi tutto, introduco brevemente i tratti salienti. I Kiss si formano nel 1973 a New York, per volontà di Gene Simmons, al basso e Paul Stanley, lead vocal e chitarra ritmica, che resteranno sempre i due pilastri della band. Per gli altri due membri, invece, ci saranno diverse sostituzioni nel tempo, dovute a motivi differenti. Il gruppo si caratterizza, fin da subito, con alcune peculiarità: prima fra tutte, il look. Ispirandosi al teatro Kabuki, ogni membro si pittura la faccia di bianco e quindi si dipinge con i tratti che più lo caratterizzano. Si creano dei veri e propri personaggi, con trucco, costume e “personalità” ben definite. Resterà per sempre così. In effetti, a tutt’oggi, i Kiss sono uno dei pochi gruppi dove ogni elemento è riconoscibile immediatamente e proprio per questo, ognuno di loro ha il suo “seguito” anche al di fuori della band. Altra particolarità è la scelta d’una musicalità ben precisa: un rock duro, incisivo e fortemente caratterizzato, seppur i testi parlano, per lo più, d’amore e di sesso. Ultima nota di spicco è costituita dagli effetti speciali, legati non solo ai personaggi come possono essere le lingue di fuoco e il sangue sintetico di Gene-“The Demon”, o le seducenti movenze di Paul-“The Starchild”; ma anche quanto accade tutto intorno a loro sul palco: scenografie colossali, fuochi d’artificio, chitarre che sparano razzi e fumo, giochi di luci, video, piattaforme mobili e molto altro ancora. Ad oggi, la band ha all’attivo più di 100 milioni di dischi venduti, 30 album d’oro e 14 di platino. Nel 2014 sono stati inseriti nella Rock and Roll Hall of Fame. Nel 2015 hanno ricevuto anche l’illustre ASCAP Award. Oltre 40 anni di tour mondiali e l’ultimo, avvenuto sempre nel 2015, con cinque spettacoli in Giappone e un singolo che ha rapidamente raggiunto la prima posizione: “Samurai Son”, composto insieme al gruppo pop Momoiro Clover Z. Ecco, riassunta, molto brevemente, l’identità del gruppo, ora, vi chiedo d’immaginare la spettacolarità classica dei Kiss, che, tengo a precisare, generalmente s’esibiscono in stadi ove fanno registrare il tutto esaurito, trasposta su un palcoscenico, al chiuso. Detta così, sembra proprio un’impresa impossibile. Ma, qui, è col perfezionismo e la determinazione dei Kiss che ci si confronta. “Kiss rocks Vegas” vi mostra proprio il “dietro le quinte” e poi, il concerto stesso che la band ha tenuto nel novembre 2014 all’Hard Rock Hotel & Casino di Las Vegas. Collezionando ben nove repliche. Interviste esclusive a Gene Simmons, Paul Stanley, Tommy Thayer, che è anche il produttore del film, v’illustreranno proprio le difficoltà, le sfide e le soluzioni che la band ha affrontato per allestire uno spettacolo che, non solo fosse rappresentativo dei Kiss in tutto e per tutto, ma che potesse, anche, competere con i concerti che, usualmente, la band fa e che i fans si aspettano. Lo spettacolo ha letteralmente spopolato. Inoltre, il fatto che le interviste precedano il concerto, rende il film ancor più realistico, perché, non solo mette lo spettatore in prima fila a un concerto dei Kiss, pur restando dentro l’ovattata comodità d’un cinema; ma, consente di guardare le scenografie e gli effetti speciali con una profonda consapevolezza delle scelte e delle prove che ci stanno dietro. Aspetto, questo, che fa gustare ancora di più la performance. La sensazione è quella d’aver preso attivamente parte alla creazione dello spettacolo. Sul palco dell’Hard Rock Hotel, insieme a Gene e Paul, ammiriamo e ascoltiamo anche Tommy Thayer-“The Spaceman”, alla chitarra solista ed Eric Singer-“The Catman” alle percussioni. Mi sento di non restringere il target del film ai soli appassionati di hard rock, perché potrebbe rivelarsi una bella esperienza anche per chi non sia esattamente un fan del genere. A mia opinione, “Kiss rocks Vegas” rappresenta, invece, un’opportunità unica, non solo per gli amanti del genere di gustarsi un vero concerto dei Kiss, ma anche per chi fosse soltanto curioso e volesse “sperimentare” l’hard-rock, in versione cinematografica.




“COLONIA” – LA FORZA DELL’AMORE, L’ATROCITÁ D’UN REGIME

di Elisa Pedini – Nelle sale italiane dal 26 maggio, il film “Colonia”, ad opera del regista tedesco Florian Gallenberger, che ne è anche sceneggiatore. Regista versatile che nella sua carriera ha dimostrato di sapersi confrontare con generi diversi e sempre con successo. Vincitore del Premio Oscar per il miglior cortometraggio nel 2001 con “Quiero ser”, è poi passato al lungometraggio. Già col suo precedente film, “John Rabe”, il regista s’è incanalato sul filone delle storie ispirate a eventi realmente accaduti. “Colonia” è un film drammatico, severo, crudele. La tematica trattata è molto pesante, ma vera e la pellicola ne mostra in modo lucido tutta l’atrocità. Forse, un po’ troppo romanzata la sceneggiatura in certi punti, ma rientra, senza forzature, nei canoni della trasposizione degli eventi in linguaggio cinematografico. La trama è complessa e profonda perché, seppur sostenuta da due binari molto chiari: l’amore da un lato, la dittatura dall’altro, di fatto sottende e mostra tutta una serie di riflessioni ad ampio spettro. Vi accennerò i punti salienti, ma è un film che va visto perché sono molti, troppi, i pensieri suscitati, le emozioni evocate, da poter essere trasposti; vanno provati in prima persona. La storia è ambientata a Santiago del Cile nel 1973. Siamo in piena guerra fredda e questa terra ne diviene uno specchio, un terreno di disputa. Il traffico d’armi passa per il territorio cileno e gli interessi, sia politici che economici, sono troppi. Salvador Allende è Presidente del Cile in quel momento. Il primo Capo di Stato marxista, eletto democraticamente dal popolo nell’America del Sud. Gli USA ne contrastano la presidenza, ma il popolo, invece, è in piazza per appoggiarlo. Il clima è teso e le manifestazioni si susseguono. Il mondo tiene gli occhi puntati sul Cile. Si teme una guerra civile. Daniel, giovane foto-reporter tedesco, s’è trasferito a Santiago da quattro mesi per motivi di lavoro. Vuole documentare quanto sta avvenendo in Cile. È attivo nel movimento a sostegno di Allende e quindi costantemente in piazza insieme al comitato socialista. La sua fidanzata, Lena, è una hostess e si fa assegnare sulla tratta per Santiago per fargli visita. In teoria, deve restare solo quattro giorni, fino al volo di rientro. Una mattina, invece, arriva una telefonata a Daniel. È la mattina dell’11 settembre 1973. C’è stato un golpe. Salvador Allende è stato assassinato. Augusto Pinochet ha preso il potere. I sostenitori e i simpatizzanti di Allende e del socialismo vengono arrestati. È iniziata la dittatura. I due ragazzi scappano immediatamente dalla casa, primo posto dove, eventualmente, verrebbero a cercare Daniel. Corrono in strada. Il ragazzo si porta dietro la macchina fotografica e s’attarda a scattare fotografie ai soldati che reprimono la folla. Lena lo chiama, lo sprona a correre. Tardi. I soldati s’accorgono, lo picchiano, gli sequestrano la macchina fotografica e li arrestano. Tutte le persone “rastrellate” vengono riunite allo Estadio Nacional de Chile”. È notte ormai. Arriva un elicottero della Fuerza Aérea de Chile, ne scendono dei militari e un uomo a volto coperto. Quest’ultimo, passa in rassegna la schiera di persone e indica, uno per uno, i sostenitori, i simpatizzanti, i sindacalisti. Daniel, ovviamente, viene segnalato come tedesco attivista. Il ragazzo viene caricato su un pulmino, che sembra un’autoambulanza e portato via. Lena, invece, viene liberata. La ragazza rientra a casa e trova tutto a soqquadro. Si reca alla sede del comitato socialista, ma non ne riceve l’aiuto sperato. Descrive il mezzo con cui è stato portato via Daniel e le spiegano che quello è il pulmino per “Colonia Dignitad”, un posto che si trova nel sud e dal quale nessuno ha mai fatto ritorno. Lena decide di non fare rientro in patria e di cercare Daniel, ad ogni costo. Si reca alla sede di Amnesty International, dove viene a scoprire che “Colonia Dignitad” è una setta, guidata da tale Schäfer e che gode della protezione del regime. Le viene, anche, confermato che nessuno ne è mai uscito. Ma, l’amore, si sa, è il più potente motore del mondo. È l’unica passione che può dare la forza di superare qualunque ostacolo, anche la morte. Lena decide che, se Daniel non può uscire, allora, sarà lei a entrare. Avvisa al lavoro che ci sono problemi grossi in Cile e che lei non può rientrare. Si veste da pudica educanda, prende una piccola borsa di effetti personali e parte. Destinazione: Colonia Dignitad. Quando arriva, è ben chiaro, da subito, che c’è qualcosa di strano: il posto sembra una zona militare con tanto di filo spinato e torrette di controllo. Lena entra. Subito le vengono sequestrati passaporto ed effetti personali, quindi, incontra Schäfer, o, come si fa chiamare lui, “Pius, il buon pastore”. La ragazza non ci mette molto a capire che, in realtà, è un luogo di prigionia dove regnano terrore e atroce violenza. Il luogo è triste, l’oppressione è tangibile, le camerate sono squallide, le persone totalmente spersonalizzate e costrette a lavori estenuanti. Contestualmente, Daniel viene torturato crudelmente e ridotto in fin di vita. Trasportato in infermeria, dove lo credono totalmente privo di coscienza, sente dire che con altissima probabilità non sopravvivrà e quand’anche vivesse, non si riprenderà. I danni cerebrali subiti potrebbero essere irreversibili. In tutto questo, lo spettatore sente il peso dell’oppressione: la vive coi protagonisti e soprattutto vive lo strazio di Lena, dovuto alle violenze ignominiose che vede, a quelle che vive, ma, soprattutto, al suo più grosso, intimo, personale problema: Daniel non sa che lei è lì, né lei è in grado di scoprire dove lui sia e questo perché, a “Colonia Dignitad”, uomini, donne e bambini vivono totalmente separati senza avere contatto alcuno tra loro. Non siamo molto distanti dalle tristi realtà dei lager. Lena è prostrata. Lo sdegno, il dolore e l’impotenza la devastano. Tutto quello che succede attorno a lei è allucinante. Una notte, scopre un modo per farsi vedere da Daniel, è pericoloso, potrebbe costarle la vita, ma lei deve rivederlo, deve sapere, almeno, se è vivo. Il folle piano della ragazza non da l’esito cercato. È, in verità, la parata organizzata per l’arrivo di Pinochet a “Colonia Dignitad” a offrire ai due ragazzi l’opportunità di vedersi. È in questa occasione che veniamo a scoprire che la colonia non serve solo da campo di tortura e prigionia per dissidenti, ma anche da centro di reperimento armi per il regime e di test per le armi chimiche sui prigionieri. Daniel, ritenuto inutile nella colonia per i suoi apparenti problemi neurologici, è la vittima designata per il test del gas asfissiante. Non resta che tentare una fuga disperata, ma, è noto a tutti che, da “Colonia Dignitad”, nessuno ha mai fatto ritorno. Inoltre, vi ricordo, che uomini e donne sono separati e senza possibilità alcuna d’incontrarsi. Da qui non vi dico altro perché se cominciassi a descrivervi tutto quello che succede, tutto quello che passano i due protagonisti, ma anche le stesse persone che vivono nella colonia, finirei per raccontarvi tutto il film. Quello che, invece, voglio sottolineare ancora, è che si tratta di una pellicola che va vissuta, fino in fondo. Il bagaglio emotivo, così forte da essere stordente, con cui sono uscita dalla sala s’è tradotto in un silenzio profondissimo, non trasponibile in parole. “Colonia” è un film che ha centrato in pieno l’obiettivo di Florian Gallenberger: mettere in luce quanto accadeva aColonia Dignitad realmente e le torture di cui era capace il regime di Pinochet per punire quelli che a lui erano contrari. Sublime l’interpretazione dei protagonisti. Un’intensa e superlativa Emma Watson, nel ruolo di Lena, trasmette la sensazione che la parte le sia stata cucita addosso come una seconda pelle. Sarà perché ella stessa è davvero un’attivista impegnata nella vita, ma, veramente, in questa parte, riesce a oltrepassare la soglia dell’“ottima interpretazione”, va decisamente oltre. Emma è Lena. Impeccabile anche Daniel Brühl, nel ruolo di Daniel, che si mostra fortemente intenso e versatile, rendendo con grande naturalezza e realismo ogni azione del protagonista.

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“PELÉ”: COME SI DIVENTA UN MITO

di Elisa Pedini – Arriva nelle sale italiane dal 26 maggio, l’attesissimo film “Pelé” per la regia dei giovani registi Jeffrey e Michael Zimbalist. Il loro successo nel campo documentaristico, dove hanno esplorato sia il Brasile che la cultura brasiliana, ha assicurato al film una prospettiva unica e un tono profondo di veridicità. Hanno curato anche la sceneggiatura, basandosi su mesi d’interviste a Pelé, ai suoi amici più stretti e ai suoi parenti. Una pellicola intensa, potente e carismatica come l’anima del grande campione di cui ci narra la storia: Edson Arantes do Nascimento, “O Rei” (trad: “Il Re”) come lo chiameranno i brasiliani, o Pelé, come lo chiamerà tutto il mondo. Un uomo che, dal nulla e dalla profonda povertà, s’è fatto “leggenda”, grazie a un talento innato, ereditato forse dal papà, ma soprattutto e ci tengo a sottolinearlo, grazie alla determinazione e a un lavoro durissimo. Questo immortale “campione del calcio”, è, prima di tutto, un “campione nella vita”: esempio di sportività pura, di “fair play” all’ennesima potenza, di passione, di determinazione e di sacrificio. Sono le sue doti umane, i suoi «tre cuori», come lui stesso ha più volte affermato, giocando sul nome del paese natìo: Três Corações, unite a quelle agonistiche, che hanno fatto di lui un idolo. Inoltre, prima d’introdurvi al film, mi piace sottolineare alcuni aspetti. Il Brasile è una terra bellissima e gravata da pesantissimi problemi sociali, laddove la maggioranza della popolazione vive in una miseria straziante. Ma, caratteristiche, indomabili e basilari, del popolo brasiliano sono: la voglia di vivere e il senso di profondissime identità e appartenenza, che, questo film, delinea magistralmente. Una pellicola, dunque, che non è solo un omaggio a un mito umano, a un campione che, a tutt’oggi, resta “Il Re” e che ha cambiato per sempre la storia del calcio, ma è anche e soprattutto un atto d’amore verso un popolo: quello brasiliano. Edson Arantes do Nascimento nasce a Três Corações il 23 ottobre del 1940, ma quando ha cinque anni la sua famiglia si trasferisce a Bauru. Suo padre è João Ramos do Nascimento, meglio noto come Dondinho, calciatore professionista di talento, che, però, termina prematuramente la propria carriera a causa di un infortunio al ginocchio e sua madre è Maria Celeste Arantes. Il film inizia che Edson, detto “Dico” da amici e parenti, ha nove anni. Gioca a pallone a piedi nudi per le vie del villaggio coi suoi compagni. La passione del calcio e il talento, per lui, sono ereditari. Il 1950 vede lo svolgersi della quarta edizione del Campionato Mondiale di Calcio, dopo una pausa di ben dodici anni, causata dalla guerra, e il paese ospitante è proprio il Brasile. C’è grande aspettativa. C’è voglia di vittoria. Il padre di Dico segue fremente le partite. Il Brasile, però, subisce una cocente sconfitta, che viene vissuta in modo molto pesante dal popolo. Il piccolo Dico fa, allora, una promessa al suo papà, che suona audace e improbabile come tutti i sogni dei bambini: lui porterà il Brasile alla vittoria del Campionato del Mondo. Il tempo passa fra scuola e piccoli lavori per aiutare l’economia domestica. La mamma di Dico fa le pulizie a casa d’una famiglia benestante e un giorno porta Dico con sé. Il figlio dei proprietari, José, rientra con dei suoi amici. Stanno parlando d’un torneo giovanile di calcio che faranno lì a Bauru. Il piccolo Dico interviene, con tutta l’ingenuità dei bambini e pronuncia male il nome del portiere Bilé, chiamandolo Pilé. Ovviamente, s’attira la derisione e lo scherno della comitiva, che gli affibbia il nomignolo di Pelé, da cui l’odio di Dico verso quel soprannome, che, però, lo accompagnerà, per sempre, verso la gloria. Decide d’iscriversi al match con i suoi compagni. Perdono per un soffio, ma un talent scout nota le sorprendenti capacità di Dico e soprattutto il suo modo di giocare: la Ginga, orgoglio e spirito del popolo brasiliano. Personalmente ignoravo la storia del gioco spettacolare di Pelé e quindi, lascio il gusto di scoprirla anche a voi. Pelé andrà a giocare al Santos FC, prima nelle giovanili, poi nelle riserve, fino ad approdare in prima squadra. Fra competizione, dissidi con l’allenatore e duri allenamenti, arriva la convocazione per il Campionato Mondiale di Calcio. Pelé ha solo sedici anni. La competizione per essere scelti ed entrare in squadra è molto alta, oltre alla spiacevole evenienza di reincontrarsi con un altro fenomeno del calcio, ma sicuramente non suo amico: José. Quando scende in campo con la maglia della nazionale brasiliana, Pelé, ha 17 anni, è il 1958 e il Mondiale si gioca in Svezia. Il Brasile è dato totalmente perdente da tutti. Invece, giocando con questo stile unico e straordinario, che farà affermare in tutto il mondo il calcio come “il gioco più bello del mondo”, il Brasile, guidato da Pelé, vince il suo primo mondiale, diventando la prima nazione ad aver mai vinto un Campionato Mondiale fuori dal proprio paese. Il suo goal, realizzato nella finale con la Svezia, è considerato il terzo più grande goal nella storia della Coppa del mondo FIFA e il primo, tra quelli realizzati in una finale di un mondiale.
“Pelé” è un film davvero avvincente e poetico ad un tempo, anche per l’esecuzione molto realistica. A tale proposito trovo interessante accennarvi come siano giunti a scegliere gli attori protagonisti. Per il ruolo di Pelé è stato necessario avere due attori: uno che impersonasse il giocatore all’età di 9 anni e l’atro all’età di 16-17. Questo significava che, non solo dovevano avere caratteristiche fisiche simili al campione, ma anche, un talento naturale nel calcio e nella recitazione, oltre, a dover conoscere l’inglese. Si può comprendere come la selezione sia stata decisamente difficile e sfidante, tanto che ha comportato l’organizzazione del più ampio casting della storia del cinema contemporaneo. Sono state visionate persone d’ogni estrazione sociale e professione, attori professionisti, neofiti, giocatori esperti, studenti. Il primo a essere stato inserito nel cast è stato un bambino brasiliano che avrebbe interpretato Pelé all’età di nove anni: Leonardo Lima Carvalho, scelto per la sua grande spontaneità davanti alla cinepresa e il suo carisma. La ricerca del “Pelé sedicenne” è stata ben più disperata. Non riuscivano a trovare nessuno che soddisfacesse tutti i parametri necessari. Hanno iniziato a cercare per strada e anche sulle spiagge di Rio. Fino a trovare, finalmente, un candidato: Kevin de Paula, il quale s’è mostrato strepitoso, nonostante non avesse alcuna esperienza nella recitazione. Al fine di mantenere intatte l’integrità e l’autenticità della storia, i registi hanno deciso che il film sarebbe stato girato interamente in Brasile.

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Human Traces. Tracce umane nel tempo

In occasione di Photofestival 2016, Made4Art di Milano presenta Human Traces, special art project di fotografia con opere degli artisti Guido Alimento, Adriana Collovati ed Enzo Trifolelli. Le tracce lasciate dall’uomo nello scorrere del tempo, i segni del suo passaggio nell’ambiente naturale, il gesto dell’artista che ritrae il contesto circostante dando vita a un’immagine dove il tempo e il movimento vengono fissati per sempre dall’obiettivo fotografico. L’essere umano con il suo vivere lascia tracce di sé che si sedimentano e si mischiano con quelle dei suoi simili, di chi lo ha preceduto e di chi ne prenderà il posto, stratificazioni di un vissuto individuale e collettivo allo stesso tempo: i tre artisti selezionati per il progetto Human Traces dai curatori di Made4Art Vittorio Schieroni ed Elena Amodeo affrontano il tema sulla base della propria sensibilità e delle loro specificità artistiche e tecniche.

Gli scatti di Adriana Collovati sembrano raccontare storie intime e personali, aperte a interpretazioni, che lo spettatore può solo intuire attraverso indizi e dettagli. Un passaggio recente, quello dell’uomo e della donna nell’ambiente naturale, che lascia dietro di sé abiti, oggetti d’uso comune, manufatti artistici che sembrano essere stati da poco abbandonati in enigmatiche composizioni.

Protagonista delle immagini di Guido Alimento è, invece, una natura ancestrale, senza tempo, sia che si tratti degli alberi dalle forme contorte e della vegetazione che avvolge vecchi muretti a secco sia delle decorazioni fitomorfe presenti negli elementi architettonici di antichi edifici religiosi. Marmi e pietre abilmente lavorati dalla mano dell’uomo, una natura stilizzata e densa di significati simbolici.

Le statue che Enzo Trifolelli ritrae attraverso la tecnica del FotoTempismo, concetto artistico di assoluta novità ideato dall’artista, prendono vita dallo scatto fotografico che rende eterna una situazione spaziotemporale, creando un movimento capace di superare la bidimensionalità e la staticità dell’immagine fotografica. Le statue, tracce di un intervento artistico compiuto in tempi lontanissimi, tornano ad animarsi per mano del fotografo, che dona loro una nuova eternità.

Human Traces, primo special art project di Made4Art dedicato alla fotografia, con data di inaugurazione venerdì 27 maggio 2016, rimarrà aperto al pubblico fino al 15 giugno; un evento M4E – MADE4EXPO.

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Human Traces
Guido Alimento, Adriana Collovati, Enzo Trifolelli
Made4Art special art project
27 maggio – 15 giugno 2016
Inaugurazione venerdì 27 maggio, ore 18.30
Lunedì ore 16 – 19, martedì – venerdì ore 10 – 13 / 16 – 19
Il giorno venerdì 3 giugno la mostra resterà chiusa.

M4A – MADE4ART
Spazio, comunicazione e servizi per l’arte e la cultura
di Elena Amodeo e Vittorio Schieroni
Via Voghera 14 – ingresso da Via Cerano, 20144 Milano
www.made4art.it, info@made4art.it, t. +39.02.39813872
Un evento Photofestival
Un progetto M4E – MADE4EXPO




“GRAMSCI. I QUADERNI DEL CARCERE ED ECHI IN GUTTUSO”

di Elisa Pedini – Apre oggi al pubblico la mostra “Gramsci. I quaderni del carcere ed echi in Guttuso” presso le Gallerie d’Italia in Piazza Scala a Milano. L’esposizione, presentata ieri alla stampa da Giovanni Bazoli, Presidente Emerito Intesa Sanpaolo, Silvio Pons, Direttore della Fondazione Istituto Gramsci, Ugo Sposetti, Presidente dell’Associazione Enrico Berlinguer e dal Presidente Emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, resterà fino al 17 luglio. La mostra di questi splendidi 33 quaderni, scritti di proprio pugno da Antonio Gramsci, nel periodo più duro della sua vita e da poco restaurati, è stata esposta al XXIX Salone del Libro di Torino e giunge ora a Milano. La sede delle Gallerie d’Italia non è casuale, anzi, è estremamente contestualizzata, poiché le vicende di questi scritti s’intrecciano con la storia della Banca Commerciale Italiana, che qui aveva la sua sede storica, attraverso la figura dell’allora presidente della Comit, Raffaele Mattioli, noto proprio come “Il banchiere umanista”, poiché operò molto attivamente per sostenere e proteggere gli intellettuali antifascisti, tra cui, appunto, Gramsci, per il quale contribuì in segreto alle spese di ricovero in clinica e poi, dopo la morte dell’intellettuale, si prodigò per salvare proprio questi quaderni. La mostra s’inserisce nel quadro delle attività di Intesa Sanpaolo all’interno di “Progetto Cultura”, che è l’iniziativa del Gruppo vòlta alla valorizzazione della storia e del patrimonio culturale nazionale, non solo attraverso il recupero e la divulgazione delle opere d’arte, ma anche tramite eventi dedicati a quelle personalità che, con la loro stessa vita e le loro idee, ne sono stati importanti protagonisti. Prima di parlarvi dell’installazione voglio introdurvi il contesto, storico da un lato e personale dall’altro, in cui questi quaderni vennero scritti. Antonio Gramsci è stato un uomo di grande spessore, profonda cultura e decisa caratura morale. È considerato uno dei più grandi pensatori del XX secolo. È stato giornalista, linguista, critico teatrale e letterario, filosofo, politico. Lo spazio non mi concede di raccontarvi la sua vita e il suo pensiero in modo dettagliato, posso solo tratteggiarne gli aspetti salienti e purtroppo anche sommariamente, ma v’invito ad approfondire da soli questa figura straordinaria del nostro patrimonio storico e culturale. Nasce ad Ales, in Sardegna, nel 1891. A due anni, si ammala del morbo di Pott, lo stesso del Leopardi. Tale forma di tubercolosi ossea, non solo gli impedirà una normale crescita, ma minerà per sempre la sua salute fisica. Antonio è molto povero, ma ha una mente lucida, brillante, critica e si dedica allo studio con passione e determinazione. Così dotato da conseguire la maturità classica col massimo dei voti e ottenere l’accesso a una delle borse di studio dell’Università di Torino. Quest’aspetto, apparentemente superfluo, non è cosa da poco se si pensa che il morbo di Pott comporta dolori ossei molto forti, nevrosi e tutta una serie di altre problematiche, che per nulla rendono facile la vita. V’invito a immaginare la grandezza dello spirito e della mente di questo intellettuale, che riprenderò in seguito. S’iscrive a Lettere e comincia a frequentare l’intelligentia torinese. Questi sono gli anni della sua iscrizione al partito socialista. Purtroppo, l’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, ferma la sua laurea; ma non la sua mente. Il suo impegno sia politico che giornalistico si fanno crescenti e pregnanti. Antonio vive sulla sua pelle la guerra, la fame, le ripercussioni, anche ideologiche, della Rivoluzione Russa. Nel 1921 viene fondato il Partito Comunista d’Italia. Designato a rappresentare il Partito italiano nell’esecutivo dell’Internazionale comunista, Antonio va a Mosca, dove, peraltro, conosce quella che diventerà sua moglie: Giulia, una bellissima violinista. Avranno due figli, ma, il secondogenito, Antonio lo vedrà solo nascere. Delle due sorelle di Giulia, Eugenia e Tatiana, la seconda sarà sempre in stretto contatto con Antonio e sarà fondamentale per il recupero proprio dei suoi quaderni. Nel 1922 si tiene il IV Congresso dell’Internazionale, che, di fronte all’avvento al potere di Mussolini, pone, ai delegati comunisti italiani, la necessità di fondersi con la corrente socialista e di costituire un nuovo Esecutivo. Nel 1923, in Italia, vengono arrestati i rappresentanti del nuovo Esecutivo. Gramsci resta, così, il massimo dirigente del Partito e deve trasferirsi a Vienna. Nell’aprile dello stesso anno, viene eletto deputato al parlamento. Protetto dall’immunità parlamentare, può rientrare in Italia, a Roma. A giugno, il delitto Matteotti, da parte di gruppi fascisti, solleva una forte indignazione nel paese, che fa sperare a Gramsci il crollo del fascismo. Non è così. Nel gennaio del 1926, a Lione, si svolge clandestinamente il III Congresso del Partito. Gramsci presenta le Tesi congressuali elaborate insieme con Togliatti. La “questione meridionale” è un problema che lui sente molto forte e che, difatti, ritorna nei suoi stessi quaderni. Egli analizza lucidamente lo sviluppo politico italiano a partire dal 1894. Il 31 ottobre 1926, Mussolini subisce, a Bologna, un attentato senza conseguenze personali, che, però, costituisce il pretesto per l’eliminazione degli ultimi residui di democrazia. Il 5 novembre il governo scioglie i partiti politici dopposizione e sopprime la libertà di stampa. È l’8 novembre del 1926, quando, in violazione dell’immunità parlamentare, Antonio Gramsci viene arrestato nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Dopo un periodo di confino a Ustica, viene tradotto nel carcere milanese di San Vittore. L’istruttoria va per le lunghe. Non ci sono prove per montare su di lui accuse credibili. Il 1° febbraio del 1927, Mussolini, istituisce il Tribunale Speciale Fascista. Tutti i componenti, dal presidente ai giurati, appartengono alla milizia fascista. Tutti in uniforme. Sintomatico come il pubblico ministero termini la sua requisitoria con una frase entrata nella storia: «Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». L’ho premesso: la mente e lo spirito di Gramsci sono inarrestabili. Viene condannato a vent’anni di reclusione e tradotto nel carcere di Turi, in Puglia. Ma, se il corpo d’un uomo può essere messo in catene, altrettanto non si può fare col suo pensiero. Una mente libera, resterà per sempre libera. I quaderni che oggi possiamo ammirare in questa mostra, custoditi gelosamente in teche di vetro, ne sono la più potente e incontestabile prova. A Gramsci non fu concessa subito la possibilità di scrivere. Ottenne il permesso soltanto nel gennaio del 1929. Proseguì la sua attività di scrittura anche quando, le peggiorate condizioni fisiche, ne obbligarono il trasferimento in clinica a Formia, nel 1933. Morì in una clinica di Roma il 27 aprile del 1937, assistito dalla cognata, Tatiana. Alla sua morte, fu proprio lei a prendere in consegna i suoi quaderni, catalogandoli e numerandoli con cifre romane, quindi, li inviò a Mosca. Rientrarono in Italia solo nel 1945. In questi 33 manoscritti ritroviamo tutto il suo pensiero di filosofo, di politico, d’idealista, di uomo. Le tematiche riguardano: la storia d’Italia, la funzione degli intellettuali, la letteratura popolare e altre «quistioni», come le chiama lui, filosofiche, storiografiche e politiche. Ne notiamo la scrittura: regolare, precisa, lineare e minutissima. Tipico d’un’intelligenza profonda e raffinata, d’una mente lucida, penetrante e acuta osservatrice. La commozione non può non assalire chi osserva. La mostra, inoltre, offre didascalie interessanti su ogni oggetto esposto e ne illustrano il contenuto. In più, i quaderni sono integralmente consultabili in formato digitale attraverso touch screen, occasione meravigliosa per poterli “sfogliare” e poter confrontare il quaderno originale con il suo doppio digitale. L’allestimento è arricchito dall’esposizione di due dipinti di Guttuso, che proprio grazie a questa mostra possiamo ammirare qui a Milano e che riprendono simbolicamente alcuni temi gramsciani, nonché la visione dell’arte come impegno civile. “La battaglia di Ponte dell’Ammiragliodel 1955, proveniente dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma, raffigura la vittoriosa battaglia combattuta da Garibaldi a Palermo il 27 maggio 1860 e ci consente un parallelismo con le note di Gramsci sull’impresa garibaldina, sui Mille, sullo scontro tra democratici e moderati e sulla “questione meridionale” prima e dopo l’Unità d’Italia. Il secondo dipinto esposto è “I funerali di Togliatti” del 1972, conservato al MAMbo, Museo d’Arte Moderna di Bologna, ove la presenza di Gramsci è richiamata in più modi: il suo volto accanto al feretro di Togliatti e i riferimenti alle sue tematiche: il moderno partito politico, gli intellettuali, le classi subalterne e la dimensione nazionale e internazionale.

Le Gallerie d’Italia sono aperte dal martedì alla domenica dalle 9.30 alle 19.30, ingressi fino a un’ora prima dalla chiusura. Il giovedì l’orario si prolunga fino alle 22.30, con l’ultimo ingresso alle 21.30. Il costo del biglietto è di € 5,00 e consente l’accesso anche alla mostra “La Bellezza ritrovata”. Il 2 giugno le Gallerie saranno aperte.

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Impressioni e memoria: i Sillabari di Anna Caruso in mostra a Milano

di Emanuele Domenico Vicini – Il pomeriggio milanese, nonostante il maggio avanzato, è ancora piuttosto fresco e si gira bene per le vie del centro città, dove, stretto tra gli imponenti palazzi di classica foggia, tra piazza della Scala e via Clerici, si trova l’edificio che ospita lo Studio d’Arte Cannaviello, al civico 4 di piazzetta Bossi.

Gli ambienti, illuminati da un bianco di geometrica pulizia, si articolano in un corridoio passante che si apre nella grande sala espositiva, mossa da sguanci e nicchie, perfetta per ospitare un’esposizione così elegante e provocante come quella di Anna Caruso.

La giovane pittrice milanese, formatasi all’Accademia di Belle Arti di Bergamo, rispecchia questa atmosfera e le dà, con la sua presenza ancora più fascino. Ci accoglie e ci guida tra le sue tele e si sottopone al fuoco di fila delle domande con molta determinazione e pacatezza, mostrando così quella sicurezza, tipica di un’artista che, seppur giovanissima, ha già deciso quale strada seguire nella sua arte.

Le chiediamo innanzi tutto da dove nasca l’interesse per Goffredo Parise, dai cui Sillabari la mostra prende le mosse. Il testo parisiano, composto di due parti, Sillabario n. 1 uscito nel 1972 per i tipi di Einaudi e Sillabario n. 2, nel 1982 per i tipi di Mondadori, si compone di racconti brevi sulla labilità dei sentimenti umani. Quasi piccoli poème en prose, distribuiti per lettere alfabetiche, mai completati, i racconti sono spesso coperti da una patina di malinconia e infondono un senso di caducità e di morte che si alterna a scene di gioia semplice, fatta delle cose elementari della storia e della vita.

Se il primo Sillabario (dalla A di Amore, Affetto, Allegria, alla F di Famiglia) si muove tra toni lievi e tinte mai eccessivamente forti, il secondo (che copre fino alla S di Sesso), al contrario, rappresenta una realtà molto feroce e controversa. Gli ambienti delle narrazioni si fanno disordinati e cupi, le azioni quasi sempre drammatiche e violente.

Anna Caruso, lontana da qualsiasi intento citazionistico o puramente referenziale, che avrebbe decisamente impoverito il senso della sua arte, ci spiega che i Sillabari, soprattutto il secondo, fanno parte delle sue letture e della sua formazione classica. Si coglie molto bene il percorso della pittrice nelle maglie di un testo apparentemente semplice, ma di fatto denso di temi: l’emozione della memoria, il dolore del ricordo e la sua stringente necessità, la complessità dell’animo umano, fatto di dolcezza e violenza fatalmente impastate, tornano con sapiente finezza nelle tele esposte allo Studio Cannaviello.

Anna Caruso racconta con dettaglio il suo processo compositivo. Fotografie di uomini e donne, spesso – ma non sempre – legate alla vita della pittrice, immagini durature di memorie altrimenti labili, sono lo spunto ridipinto sulla tela, come un fondo che via via emerge o scompare alla vista, ma che con la sua evidenza a tratti fantasmatica ci dice quanto l’oggi sia fatto di storia, individuale e singolare.

Il confronto con l’emozione e il sentimento non tarda però a palesarsi con le taglienti e nette geometrie cromatiche che incontrano le immagini umane, le separano dalla superficie, le sdoppiano, le moltiplicano le allontanano e le rendono sempre meno percepibili, ma non meno incombenti sulla scena.
Piccoli segni e grandi interventi grafico linearistici, sempre accomunati dai toni freddi del giallo, del verde o dei blu acidi, legano gli elementi, raccontandoci la metafora della storia che avvolge uomini e cose, ineluttabilmente.

L’inquietudine delle opere, stemperata e apparentemente alleggerita dall’attentissima cura nel comporre e pesare gli equilibri cromatici e spaziali, non fa che aumentare quando, a uno sguardo ravvicinato, ci accorgiamo della perfetta stesura delle forme, quasi prive del segno della pittrice, apparentemente, “fatte da sé”. Anna va fiera di questa capacità, conquistata sicuramente con lavoro e pazienza e ne parla come di un elemento che spesso stupisce il pubblico. In realtà, ci spiega, l’effetto di lucida omogeneità, d’ineccepibile ordine delle cose e delle forme, non fa che accentuare il senso della sua pittura: non si sfugge all’immagine della memoria e della storia. Fatalmente, il rapporto che ci lega alle emozioni e alle vicende del nostro passato, personale e familiare, non può essere mai negato, né evitato. Ci guarda, ci chiama al confronto, ci impone di riflettere, pacatamente, ma inesorabilmente.

I Sillabari in pittura di Anna Caruso nelle loro messe a fuoco e nella varietà di giochi prospettici diventano uno specchio da cui non è possibile sfuggire, un invito al confronto con la complessità della persona umana.

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Sillabari di Goffredo Parise. Mostra personale di Anna Caruso

5 maggio – 21 giugno 2016

Studio d’Arte Cannaviello

Piazzetta Bossi, 4 – Milano




In forma perfetta per l’estate con i consigli del coach alimentare

L’estate è ormai imminente e basta un solo sguardo per vedere come portiamo ancora addosso i segni dell’inverno: fisici appesantiti, volti grigi e stressati, espressioni tristi e rassegnate.

Come prepararci, allora, ad abbracciare l’estate tornando in perfetta forma? Lo chiediamo al nostro esperto, il dottor Michele Drago, osteopata e coach alimentare.

D. L’alimentazione è fondamentale per tornare ad essere belli dentro e fuori?

R. Assolutamente! Bisogna sempre partire dal concetto basilare che “siamo ciò che mangiamo”!

D. In generale, quali sono le accortezze che dovremmo osservare giornalmente nel nutrirci?

R. Per prima cosa, iniziamo limitando l’assunzione di alcuni alimenti che sono dei veri e propri “veleni” per il nostro corpo e che ci causano malessere e malattia in modo latente: zucchero, farine bianche lavorate, carni e derivati (soprattutto quelle rosse), latte, formaggi e latticini. Concentriamoci, invece, su ciò che fa davvero bene al corpo. Apprezziamo gli alimenti vivi e vitali, quali frutta, verdura e semi, e impariamo a dissetarci ed idrataci usando semplicemente acqua, un elemento fondamentale e insostituibile. E poi, non dimentichiamo di concederci dei momenti solo per noi: impariamo a respirare profondamente e fermiamoci, ogni giorno, per un po’ di meritato relax. Facciamoci stupire dal sorriso di uno sconosciuto e sorridiamo di più anche noi.

D. Entrando più nello specifico, quale sarebbe la dieta ideale?

R. Come coach alimentare, consiglio di iniziare la giornata con un bicchiere di acqua tiepida o calda ed una spruzzata di limone, questo funzionerà da sciacquone, aiutando ad espellere giorno dopo giorno le sostanze di rifiuto presenti nel nostro intestino. Facciamo poi colazione con un succo fresco, una centrifuga, un frullato o una spremuta e sostituiamo il caffè con una tisana. Per i nostri spuntini potremmo usare anche dei semi, facili da portare in giro, ricchi di omega 3 e omega 6  e buonissimi. Da preferire, senza ombra di dubbio, sono i semi di lino e di girasole, mandorle, nocciole e noci.

Ogni volta che si presenterà la scelta tra vari alimenti, impariamo a preferire sempre e comunque frutta e verdura ma attenzione: assolutamente di stagione e preferibilmente bio. Tra le verdure tipicamente estive suggerisco cetrioli, carote, asparagi, cavolfiori, fagiolini, insalata, sedano, finocchi, melanzane, fave, piselli, spinaci e zucchine. Tra la frutta di stagione opterei invece per lamponi, pompelmi, limoni, nespole, kiwi, fragole, ciliegie, albicocche, pesche, susine, meloni, angurie e fichi. Tutta frutta e verdura ricca di sostanze energetiche e stimolanti, tra cui il betacarotene che predispone la nostra pelle ad ottenere un’abbronzatura invidiabile. Consiglio, inoltre, di assaporare le verdure crude o al vapore o appena saltata in padella. Affettate sottilissime e lasciate macerare tutta la notte sono una delizia. Usate le spezie e non esagerate con il sale.

Sostituite la pasta consueta con quella integrale, più ricca di fibre, ma non disdegnate anche miglio, farro, quinoa e orzo. Con l’arrivo del caldo, saranno ottimi dei piatti con verdure miste a cubetti e quinoa, per esempio, ricca di proteine vegetali e, quindi, di salute.

Per condire usate solo olio extravergine di  oliva ottenuto dalla spremitura a freddo, e consumate un cucchiaio di olio di lino al giorno.

La frutta sarà un ottimo toccasana per colazioni o spuntini ma evitate di prenderla dopo i pasti. Inoltre, se ricca di zuccheri, come i fichi, sarà bene mangiarne con parsimonia. Tutti gli altri frutti di stagione potranno essere mangiati liberamente e daranno al vostro spuntino o alla vostra colazione un bel colore e tantissimo gusto.

E poi bevete, bevete e bevete! Acqua naturale, nient’altro. Ricordate che il nostro corpo è composto per la maggior parte da acqua e che  soltanto l’acqua regola moltissimi scambi cellulari ed è il veicolo di idratazione e pulizia di tutti i distretti corporei.

D. Una sana dieta basta, dunque, per ridare tono e rimettere in forma?

R. Sicuramente è il punto di partenza ma, in questo percorso di cambiamento e miglioramento personale, è fondamentale iniziare a muoversi. Come suggerito anche dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) basterà una passeggiata di almeno 30 minuti ogni giorno. Io consiglio di acquistare un podometro o di scaricare un’app contapassi e di percorrere almeno 10.000 passi al giorno.

D. Un’ultima domanda. Quanto tempo ci vuole per tornare in forma?

R. Bastano meno di due settimane per cambiare le vecchie abitudini e riconquistare forma fisica, benessere ed un sorriso invidiabile

Per maggiori info: www.ilmetododrago.com – info@ilmetododrago.com




“DA MONET A MATISSE. L’ARTE DI DIPINGERE IL GIARDINO MODERNO”: IL MONDO INCANTATO DELLA NATURA E DELL’ARTE

di Elisa PediniEsce nelle sale italiane solo per due date: il 24 e il 25 maggio, il film-documentarioDa Monet a Matisse. L’arte di dipingere il giardino moderno”, della Royal Academy of Arts, che, partendo dalla sua imponente e magnifica mostra, ci porta dentro un tour cinematografico per raccontare la passione che lega alcuni dei più grandi artisti moderni, come Monet, Matisse, Bonnard, Renoir, Kandinskij, Pissarro, Sorolla, Nolde, Libermann, ai loro giardini prediletti. Per trovare la sala più vicina a voi che avrà questo film in programmazione consultate il sito: www.nexodigital.it. Pellicola delicata, che fa sognare e rilassare, passeggiando nell’arte e in alcuni dei giardini più belli del mondo. Non è un documentario sulla storia dell’arte, per nulla, è il racconto d’una storia d’amore: quella tra gli artisti e la natura che li ha ispirati. Il film rientra nel progetto della “Grande Arte al Cinema” di Nexo Digital ed è un’occasione, unica e irripetibile, per visitare la coinvolgente mostra, allestita dall’Accademia londinese, per raccontare l’evoluzione del tema del giardino nell’arte moderna: dalle bellissime e colorate visioni degli Impressionisti fino alle sperimentazioni più audaci, oniriche e simboliche dei movimenti d’avanguardia. Il film si apre trasportando lo spettatore dentro una natura meravigliosa e colorata. Una musica rilassante accompagna questo spettacolo di luce e colore. Si entra in una dimensione parallela, soave e incantevole: quella della natura e dell’arte. Come l’uomo abbia sempre e costantemente tratto ispirazione dalla natura è assai noto e non è difficile comprenderne il perché. Impossibile sottrarsi alla bellezza d’un fiore, ai suoi colori, al suo profumo, a quella tecnica perfetta rappresentata dalla sua stessa conformazione. Distese di fiori di altezze diverse, colori diversi. L’incanto che una persona normale subisce dall’osservare certi capolavori della natura, viene portato all’ennesima potenza dallo sguardo e dalla sensibilità dell’artista. Monet, forse il più noto ed importante pittore di giardini nella storia dell’arte, è il punto di partenza della mostra e quindi del nostro film. Personalità affascinante, nonché appassionato ed esperto orticoltore. «Se sono diventato pittore lo devo ai fiori» diceva Claude Monet. Pensate che, per cogliere le diverse inclinazioni di luce e tutte le sfumature di colore, si svegliava all’alba e dipingeva. Dipingeva sotto il sole cocente e sotto la pioggia battente. Intorno alla sua casa rosa a Giverny aveva creato un giardino con uno stagno e un ponte giapponese, che ancor oggi accoglie migliaia di visitatori con le sue tinte e i suoi avvolgenti profumi. Dalle passeggiate sulle colline intorno alla proprietà, Monet tornava con semi di fiori selvatici per coltivarli nelle sue aiuole. È così che lo spettatore viene preso per mano e visita i più bei giardini del mondo, raffigurati, poi, all’interno di opere d’arte: oltre alle ninfee di Monet a Giverny, visita il giardino di Bonnard a Vernonnet, in Normandia, o quello di Kandinskij a Murnau, in Alta Baviera, luogo dincontro di musicisti e artisti provenienti da tutto il mondo. Ma non è tutto: questo film è anche ricco d’interventi di studiosi e artisti che spiegano, anche da un punto di vista storico e sociale, l’importanza dei giardini e per conseguenza il perché di questo tanto ricercato ritorno alla natura, che caratterizzò il periodo tra la l’Ottocento e il Novecento. Quello che la natura, attraverso i giardini, inizialmente va a dimostrare è la magnificenza dei nobili, poi diviene specchio d’intimità familiare ed ecco che, allora, vi si colgono scene più private, fino a divenire una vera e propria oasi di pace, una fuga personalissima e protetta dal rumore e dal caos. Una pellicola davvero unica per tantissime ragioni. Prima fra tutte, perché rappresenta un’occasione imperdibile di vedere una mostra che, altrimenti, bisognerebbe andare a Londra per poter visitare. Inoltre, perché consente di vedere giardini incantevoli, veri e propri gioielli d’architettura, in giro per tutto il mondo. In più, perché si parla di arte in modo molto intrigante e interessante: infatti, come ho detto all’inizio, si tratta di un “tour”, sia dentro la storia, l’arte e le opere, sia “dietro le quinte” dei magnifici paesaggi, di cui lo spettatore gode sullo schermo. Arricchito, dagli interventi e dalle intuizioni di esperti internazionali di giardinaggio e critici d’arte per svelare il rapporto tra l’arte e i giardini. Impreziosito, dalle interviste ad artisti moderni, come Lachlan Goudie e Tania Kovats, che rivelano come il rapporto tra l’artista e il mondo naturale sia tema di grande attualità. Infine e soprattutto, perché è uno degli aspetti che, davvero, mi ha colpito di più, per come mi sono sentita alla fine del film: incredibilmente bene. Rinnovata d’energia. Mi sento d’affermare che questo film andrebbe visto proprio per fare un regalo a se stessi: ovvero, donarsi la gioia di lasciare il mondo fuori e passare un’ora e mezza nella serenità e nella pace che soltanto la natura e l’arte sono in grado di dare.

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Manuel e Grazia Di Michele ci emozionano SILENZIOSAMENTE

Un grande messaggio non solo musicale ma di alto spessore umano quello del brano SILENZIOSAMENTE, composto da Grazia Di Michele, famosissima vocal coach di Amici, e interpretato dal cantante/attore Manuel.

Le cose migliori, si sa, nascono sempre per caso e così è stato per SILENZIOSAMENTE. Infatti, dopo un sodalizio lavorativo, legato alla didattica, tra Grazia Di Michele e Manuel inizia quello artistico, basato, soprattutto, sulla profonda stima che la famosa cantautrice ripone in questo poliedrico artista.

Manuel inizia il suo viaggio nel mondo dello spettacolo come ballerino e modello per poi continuare come attore e in ultimo cantante. Come tutti gli artisti vede il suo cammino segnato da moltissimi concorsi e audizioni ma non sempre tutto nasce da questi “momenti”! In questo caso il tutto inizia da un’autoradio. Durante un viaggio in auto con la famosissima e temutissima coach di Amici, Manuel, facendosi coraggio, decide di far ascoltare a Grazia alcune sue ultime cover.

In un attimo tutto cambia: Grazia rimane davvero rapita dallo stile e dal timbro vocale di grande spessore interpretativo di Manuel e gli propone dei brani da lei composti.

Ovviamente l’emozione in questo caso è altissima e da li si inizia a lavorare proseguendo anche nella collaborazione didattica dei due artisti nella veste di coach in diverse realtà italiane.

Ecco nascere SILENZIOSAMENTE che, sia per il testo che per tipologia armonica e timbrica musicale, disegna in modo limpido ed inequivocabile la personalità e il carisma artistico di Manuel.

Si decide di farlo uscire come singolo mentre si lavora già ai prossimi brani sempre con Grazia Di Michele ed anche con altri giovani autori.

Silenziosamente racconta il vuoto che spesso ci pervade e che colmiamo con i nostri mille perché senza trovare mai una vera risposta, i nostri momenti bui che molti trovano banali e che nel nostro silenzio riponiamo in un cassetto che, forse, la musica e il testo di Grazia Di Michele, nell’interpretazione di Manuel, riusciranno a farci riaprire.

Il videoclip, girato in un ex manicomio, ha una forte carica emotiva ed evocativa. Locali abbandonati e in rovina che mantengono la memoria ancora vivida di chi li visse, hanno un impatto visivo violento.
La figura di Manuel, che vaga, estraniandosi da ciò che lo circonda come se rifiutasse un contatto fisico con il luogo, traduce l’intenso testo di Grazia Di Michele in immagini intime che ci scrutano timidamente, silenziosamente, quasi in punta di piedi.

Ideazione e Regia video : Emanuele Drago