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Intervista a Renzo Martinelli. “Ustica: vi racconto cosa ho scoperto”

di Elisa Pedini – L’idea dell’intervista diretta al regista nasce dalla volontà di dare al pubblico una visione completa d’un film, dunque, non solo con l’occhio della critica, che riporta certi aspetti tecnici e le impressioni emotive che ho ricevuto nel momento in cui ho assistito alla proiezione; ma anche dal punto di vista di chi lo ha pensato e realizzato. Renzo Martinelli è un regista italiano, profondamente impegnato nella realtà della nostra terra e dei misteri, che, purtroppo, costellano le nostre cronache. Renzo Martinelli è un uomo di grande sensibilità e cultura, che non si ferma alle apparenze e usa la telecamera come strumento per vivisezionare la verità e il cinema come mezzo di divulgazione. Il suo desiderio di verità, il suo occhio clinico e la sua mente indagatrice li avevamo già apprezzati in film del valore di “Vajont”, o “Piazza delle Cinque Lune”. Ma, ora, lascio a lui, Renzo Martinelli, la parola, per parlarci di “Ustica”:

D: “Interessante la tematica scelta, che, peraltro, è tornata fortemente in auge proprio ultimamente. Hai affrontato: una mole di materiale informativo immensa e frammentaria, le migliaia di pagine dell’istruttoria, problemi economici e di produzione e tutto per realizzare questo film. Cosa ha determinato la scelta del soggetto? Qual è stato il fattore scatenante?”

R: “È il film che sceglie il regista e non il contrario, secondo me. Per esempio, mi trovavo a Erto per dei sopralluoghi per fare un film sui partigiani, quando arrivò un uomo in canottiera e bandana, era Mauro Corona. Mi parlò del disastro del Vajont. Mi portò nella sua bottega e mi diede anche un libro “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont.” (scritto nel 1963, solo nel 1983 un editore fu disposto a pubblicarlo, n.d.r.) di Tina Merlin, una giornalista che pubblicò moltissimi articoli per avvisare che la diga era pericolosa e che avrebbe causato la frana del monte Toc. Restò inascoltata (fu addirittura denunciata e processata per falso allarmismo, n.d.r.). Il monte franò. Perirono circa duemila persone. Così nacque il film “Vajont”. Per “Ustica” è accaduta la stessa cosa: il film ha trovato me. Due miei amici, ingegneri aeronautici, che sono poi quelli che mi hanno supportato per tutta la produzione, mi dissero che avevano molto materiale su Ustica. Lessi anche tutti i quotidiani che, a ridosso della strage, parlarono di collisione in volo. Ma, quattro giorni dopo, i servizi segreti erano già intervenuti mettendo in moto la cosiddetta “macchina della disinformazione”: ovvero, vennero avanzate tali e tante altre ipotesi che le acque si confusero completamente. Approfondii leggendomi tutti gli atti. Il film si basa su tutte testimonianze reali e spero che lo spunto venga raccolto da qualche magistrato per riaprire il caso.

D: “Tra fiction e realtà. Tutte le vicende private dei personaggi sono fiction?

R: “Il personaggio di Caterina Murino, Roberta Bellodi, è tratto da una persona esistente. Nella realtà è un papà, che ha perso la sua bambina nella tragedia. La sua piccola nuotava molto bene e lui s’è recato ogni giorno alla spiaggia, sperando di vederla tornare. Per tutela della sua privacy, ovviamente, il personaggio è stato cambiato. Il ruolo che interpreta Lubna Azbal, Valja, è totalmente inventato, serviva un testimone che andasse sul posto e vedesse cos’era accaduto. Il personaggio di Marco Leonardi, l’onorevole Corrado di Acquaformosa, è ugualmente di fantasia: serviva un uomo delle istituzioni che facesse da tramite tra Roma e il testimone.

D: “Relativamente al MIG-23: la fiction mette il ritrovamento del relitto e la ricerca della verità nelle mani d’una donna albanese. Come mai questa scelta?”

R: “Come si dice in gergo cinematografico, Valja nasconde dentro di sé un “fantasma”: ovvero, è il personaggio che da la motivazione personale. Lei ha avuto un’esperienza forte nella sua vita che l’ha condizionata, da cui, la sua reazione davanti alla strage. Relativamente alla scelta della nazionalità non c’è un motivo particolare. Semplicemente, a quei tempi, c’erano molte colonie albanesi in Calabria di gente che veniva a lavorare, quindi, la presenza della popolazione era molto alta.

D: “Il messaggio che viene ritrovato nel film: da dove nasce?”

R: “Dagli atti dell’istruttoria. Il messaggio è vero. Rosario Priore mette agli atti che venne ritrovata una carta aeronautica, tutta bruciacchiata, sulla quale si trovava un messaggio in arabo. Sempre agli atti viene riportata la convocazione d’un siriano nell’ufficio del generale Zeno Tascio (all’epoca dei fatti a capo del SIOS, i servizi segreti dell’aeronautica militare italiana, articoli reperibili on line n.d.r.) proprio per tradurre questo messaggio. Le parole che riporto nel film sono quelle degli atti. Il generale Tascio ritrattò tutto e il messaggio andò perduto. Infatti, all’estero, il film uscirà come “The missing paper” proprio perché, per il pubblico non-italiano, dare per titolo “Ustica” non avrebbe senso.

D: “Nella fiction abbiamo da un lato una Ragion di Stato, o meglio, una “ragion d’interesse” e dei militari sprezzanti e anche violenti, basti pensare alla reazione del soldato all’arrivo di Valja a Timpa delle Magare; dall’altro lato un militare libico con una coscienza e un’albanese che mette in gioco la sua vita per cercare la verità. Gli italiani, o tacciono, o intimano al silenzio, o agiscono su sprone esterno; ma di fatto, mai su iniziativa personale. Che lettura sottende tutto questo?”

R: “Si, Ustica è stata tutta una questione di ragion di stato. Due erano le grandi vergogne da tacere: la prima che, nonostante l’embargo americano, l’Italia permetteva il passaggio degli aerei libici usando aerei di linea italiani come scudo, la seconda che era accidentalmente implicato un aereo americano nella caduta del DC-9.
Relativamente agli italiani la visione è realistica. Oggi, il nostro, è divenuto un popolo d’opportunisti. Non c’è più indignazione. Non c’è più il senso della memoria. Si vive un hic et nunc che blocca l’azione. S’è perduto il passato e per conseguenza anche il futuro. A tal proposito è molto significativo un proverbio arabo, che cito: «Gli uomini somigliano più al loro tempo, che ai loro padri».

D: “Passiamo alla regia pura: veramente intensa, realistica, pregnante. Le scene di volo, in particolare, mi hanno davvero affascinata e so che hanno richiesto tre anni di duro lavoro in stretta collaborazione con due ingegneri aeronautici. Puoi spiegare al pubblico questo lavoro?”

R: “Certamente! Tutto il materiale doveva essere convertito in linguaggio cinematografico e soprattutto, doveva restare dentro tempi tollerabili dal pubblico. In questo caso abbiamo contenuto tutto in 104 minuti. Inoltre, il budget, già scarno, doveva essere rispettato. Le immagini digitali costano tantissimo e sono minime nel film. Le riprese sono tutte reali: del mare, delle montagne, delle nuvole e dei paesaggi. Le riprese nei velivoli sono tutte fatte dentro aerei veri, incluso un vero MIG-23. Quello che ho ricreato è una visione in soggettiva che desse allo spettatore gli occhi del pilota. Il sonoro, poi, amo curarlo moltissimo e gioca la sua parte nel dare il senso della verosimiglianza. Il suono deve essere avvolgente e totalizzante. Inoltre, distribuisco i suoni in maniera tale che seguano esattamente quello che avviene nella scena che lo spettatore sta guardando. Infine, la sceneggiatura poggia su tre passi fondamentali: il “set-up”, dove vengono presentati il protagonista, l’antagonista e la posta in gioco; la “zona centrale”, dove si sviluppano le vicende e la “conclusione”. La forza di “Ustica” è che ha un set-up molto rapido: in pochi minuti lo spettatore è completamente dentro alla storia.




XXI TRIENNALE: PRONTI, PARTENZA, VIA!

di Gabriele Antoninetti – Dal prossimo 2 aprile, a Milano, prenderà il via, dopo quasi vent’anni di assenza, una nuova edizione della Esposizione Triennale. La ventunesima, a essere precisi. Una storia che parte da lontano, a cominciare da quando, nel 1923, tra i mesi di maggio e ottobre, la prima “Mostra internazionale delle arti decorative” ebbe luogo non a Milano, bensì a Monza, presso il parco della Villa Reale. E dal capoluogo brianzolo si riparte anche questa volta, quasi a celebrare oppure, se vogliamo, a ipotetico ricollegarsi a ciò che è stato. Di fatto, tra le venti locations che saranno interessate all’imminente e nuovissimo evento – che, ricordiamolo, coinvolgerà tutta la città fino alla fine di settembre – oltre alla Villa di Monza ci saranno anche il palazzo di Giovanni Muzio, progettato fra gli anni 1931-1933 e sede stessa della Triennale, così come l’Accademia di Brera, la Fabbrica del Vapore di via Procaccini, il MUDEC di via Tortona, il Palazzo della Permanente di via Turati, l’Hangar Bicocca, il Campus del Politecnico, quello dello IULM, lo Spazio Oberdan, il Museo Diocesano, quello della Scienza e della Tecnica,  il pontiano grattacielo Pirelli ma anche, fra altri ancora, un’area dell’Expo ad hoc adibita. Quaranta i paesi partcipanti, dall’ Asia all’Africa fino al Canada, per non citare quelli europei, tutti accomunati dal filo rosso che farà da motto per questa edizione: Design after Design.

Precisa il comitato scientifico della Triennale, presieduto da Claudio De Albertis, che saranno toccate “Questioni chiave come la nuova drammaturgia del progetto, che consiste soprattutto nella sua capacità di confrontarsi con i temi antropologici che la modernità classica ha escluso dalle sue competenze (la morte, il sacro, l’Eros, il destino, le tradizioni, la storia); la questione del genere nella progettazione; l’impatto della globalizzazione sul design; le trasformazioni conseguenti la crisi del 2008 e l’arrivo del XXI secolo; la relazione tra città e design; i rapporti tra design e accessibilità delle nuove tecnologie dell’informazione; i rapporti tra design e artigianato.”

Se per il momento non sapete ancora orientarvi su quale mostra scegliere di visitare tra le tante in programma, basti dire che davvero c’è, come si dice, l’imbarazzo della scelta. Cinque quelle in Triennale; si parte da “Women in Italian Design” con la curatela di Silvana Annichiarico, “Brilliant! I futuri del gioiello italiano” di Alba Cappellieri, “Neo Preistoria – 100 verbi” di Andrea Branzi e Kenya Hara, “Stanze. Altre filosofie dell’abitare” a cura di Beppe Finessi, per arrivare a “La Metropoli Multietnica” di Andrea Branzi. Altre mostre ancora – undici – sparse per tutto il tessuto urbano di Milano, senza contare poi le altre otto presenti nei luoghi extra urbani sopra citati.

Se ancora di numeri e nomi non siete stanchi, basto io a dare il colpo di grazia; non perdetevi nulla nemmeno della sezione “Eventi e partecipazioni”, suddivisi in vari giorni tra concerti, conferenze, proiezioni, festival, laboratori, convegni e spettacoli per un totale di…quarantuno! Se tuttora conservate memoria, magari non felicissima, di quella che venne definita “Milano da bere”, ora godetevi questa nuova Milano, tutta da vivere.




Le sperimentazioni su materia e materiali in esposizione a Milano

Materia e materiali: la linea del pensiero, ideale anteprima del progetto organizzato dallo spazio d’arte e design milanese per il Fuorisalone del Mobile – Milan Design Week di “zona Tortona” (aprile 2016), è il nuovo evento organizzato e proposto da Made4Art. Lo special art project vuole sottolineare l’importanza della ricerca tecnica e della sperimentazione sulla materia e sui materiali nel design e in arte, ambiti della creatività umana sempre più vicini e dai confini sempre meno definiti.

Il progetto espositivo, che vede come protagonisti gli artisti Emilio Belotti, Marina Berra, Fiorenza Bertelli e Martino Brivio, nasce dalla volontà di presentare al pubblico alcuni significativi risultati di questa ricerca: ciascun artista, sulla base delle proprie specificità artistiche e tecniche, ha interpretato il tema seguendo una propria personale idea di progettualità.

Gli ideatori del progetto, Vittorio Schieroni ed Elena Amodeo, hanno studiato per la presente esposizione un allestimento basato su richiami, analogie e contrasti, che trova la propria forza nell’eterogeneità dell’insieme. Dalle pitture e sculture polimateriche di Emilio Belotti, tecniche miste che ricorrono a inclusioni di materiali quali polistirolo, cartone, legno e ferro, alla serie di lavori su carta di Martino Brivio, supporto privilegiato per le sue delicate composizioni in bilico tra astrazione e figurazione, dalle opere pittoriche di Fiorenza Bertelli, dove le linee e i colori si fondono per creare inaspettate armonie e suggerire profili architettonici, ai “Materici” di Marina Berra, tele ricche di energia e vitalità con la forza della loro presenza cromatica. Quattro interpretazioni diverse dello stesso tema, tra arte e design, dove la presenza della linea, del tratto, del segno diventa simbolo dell’Idea, dei percorsi della creatività e delle evoluzioni del pensiero.

Materia e materiali, terza tappa del progetto di indagine su questo tema condotto da Made4Art, vuole essere un viaggio di scoperta all’interno del progetto e dell’idea che stanno alla base della realizzazione di un’opera d’arte, nei colori e nella materia pittorica, nei diversi materiali naturali e artificiali che ci circondano.

La mostra, con data di inaugurazione venerdì 25 marzo alle ore 18.30, rimarrà aperta al pubblico fino al 1 aprile 2016.

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Materia e materiali: la linea del pensiero


Emilio Belotti, Marina Berra, Fiorenza Bertelli, Martino Brivio


Art Project Made4Art
25 marzo – 1 aprile 2016

Inaugurazione venerdì 25 marzo, ore 18.30

Lunedì ore 16 – 19, martedì – venerdì ore 10 – 13 e 16 – 19, sabato su appuntamento

M4A – MADE4ART

di Elena Amodeo e Vittorio Schieroni

Spazio, comunicazione e servizi per l’arte e la cultura

Via Voghera 14 – ingresso da Via Cerano, 20144 Milano

www.made4art.it – info@made4art.it – t. +39.02.39813872

Un progetto M4E – MADE4EXPO

Media partner Espoarte




“Cernusco: 50 anni di persone, 50 anni di storie” in 98′ minuti

di Elisa Pedini – Ci troviamo a Cernusco sul Naviglio, dove, il novembre 2015, la biblioteca civica “Lino Penati” ha compiuto cinquant’anni. Le iniziative del comune si sono protratte fino a marzo 2016 per San Giuseppe, patrono del paese. Il clou, è stato venerdì 18 marzo con i servizi bibliotecari prolungati fino alle 23 e la trasmissione, nella sala conferenze interna, d’un documentario di 98′: “Una biblioteca a Cernusco: 50 anni di persone, 50 anni di storie”, a cura del regista locale Rino Cacciola.

L’aspetto che amo di più del mio lavoro è la possibilità di dare informazione, che sia il più chiara e vera possibile. Questo mi spinge a dare voce a qualsiasi iniziativa cinematografica che mi venga segnalata, senza badare se parte da una grande casa di produzione o da una piccola amministrazione locale. Succede però, che, non sempre, ci si trovi di fronte a un prodotto di valore. Purtroppo, è questo il caso. Ma, il mio lavoro, è anche questo. Cercherò, pertanto, di dare un taglio anche “di costume” alla mia recensione per darne una visione globale perché, comunque, c’è sempre un lavoro dietro che rispetto.

Le piccole realtà locali esaltano, giustamente, quel che hanno ed essendo una piccola iniziativa, volevo curiosità interessanti da passare al pubblico: in primis, come si faccia a fare 98′ di documentario su una biblioteca di paese. Prima della proiezione, approccio il regista per una piccola intervista, per comprenderne la nascita, le problematiche incontrate e lo sviluppo. Rino Cacciola è molto imbarazzato, ma, nel mentre, piomba una signora, asserendo di conoscermi. Devo ammettere che resto interdetta. Anch’io so chi sia, dato che, peraltro, è una dipendente statale, ma mai mi permetterei d’asserire di conoscerla. Prendo l’atto come una falsa ostentazione e taccio, ma è lei stessa a darmi la chiave di lettura del suo comportamento con la domanda successiva “che fai qui?”. Ecco, lì mi è chiaro che non è ostentazione, semplicemente ignora la differenza tra “il sapere come si chiama una persona” e il “conoscere una persona”. Abbozzo un sorriso e affermo anch’io di conoscerla, la signora trotta via felice e soprattutto, il regista s’ammorbidisce. Le realtà locali sono sempre folkloristiche!

Finalmente, riesco a fare il mio lavoro. Alla seconda domanda, Rino Cacciola è, ormai, a suo agio. S’illumina. I suoi occhi brillano pieni d’entusiasmo. Vibra di passione. È lì che decido che di lui, avrei scritto. Ecco, le sue parole:

D: “Senti Rino, ma come nasce l’idea, quanto meno particolare, di fare un documentario su una biblioteca civica moderna?”

R: “L’idea non è nata da me. L’amministrazione comunale mi ha contattato per produrre un corto sui cinquant’anni della biblioteca civica, fondata nel 1965.”

D: “Un corto?! No scusa, ma allora come ci siamo arrivati a 98′?”

R: “Eh si, in effetti! È partito con l’idea d’un corto, pensandolo come un documentario d’interviste. Raccogliendo le testimonianze dei bibliotecari attuali e dei vecchi impiegati in pensione, mi resi conto d’avere in mano un contenitore di storie, che mi consentivano di raccontare il territorio attraverso i personaggi: ovvero, di raccontare la città, mettendone in evidenza la cultura. Spunti questi, che potevano diventare un lungometraggio. Così, ho presentato all’amministrazione un lavoro di 38′ e con non poche difficoltà, li ho convinti ad allungarlo a 98′. Tutto il lavoro di raccolta materiale è durato tre mesi, ma poi il montaggio e la versione definitiva sono avvenuti in poco tempo, perché l’avallo ai 98′ minuti l’ho avuto a ridosso della scadenza. Tanto che il prodotto finito, è stato visto dall’amministrazione il giorno stesso della presentazione al pubblico.”

D: “Debbo ammettere d’ammirare la tua passione. Immagino che sia stata durissima: trovare le persone, intervistarle, raccogliere tutto il materiale, selezionarlo e montarlo in modo che avesse senso. Che problematiche hai esattamente affrontato in tutto questo percorso?”

R: “Si è stato un lavoro duro, ma in realtà, una volta decisa l’impostazione, non è stato difficile. La vera grossa difficoltà è stata proprio con l’amministrazione nel far accettare l’idea d’un lungometraggio e della possibilità di raccontare la realtà cernuschese, attraverso l’evento centrale. Ho incontrato una forte diffidenza nel linguaggio del cinema.”

Mentre penso, tra me e me, che non è molto logico commissionare un documentario e poi non avere fiducia nel linguaggio del cinema, entra Comincini, il sindaco del paese. Lo invitiamo a prendere parte all’intervista; ma, lui risponde: “Eh se devo proprio, sennò…”. No, a me, il signor sindaco, non deve proprio nulla, ma al dovere civico, magari si, dato che è un dipendente statale, siamo in un luogo pubblico, l’iniziativa è comunale; magari, forse, sarebbe carino spiegare all’opinione pubblica come ha gestito, anche economicamente, l’evento. Mi dispiace per il pubblico, ma, purtroppo, non sono in grado di dare queste informazioni. Soprattutto, alla luce del fatto che il documentario, dal punto di vista valoriale, mi ha lasciata parecchio perplessa. Per 98′ ho lottato contro la noia. Sentire gente sconosciuta, senza didascalia esplicativa alcuna, che mi racconta i fatti suoi, non mi ha affatto interessata, anzi. Per contro, una critica è composta anche d’un aspetto tecnico, dove, invece, la passione di Rino Cacciola fa calmierare il giudizio. Il montaggio è curato. La consequenzialità è logica e compatta. Il coraggio di sfidarsi nel proporre un argomento, piuttosto bizzarro, è sicuramente degno di nota.




“LAND OF MINE – SOTTO LA SABBIA”: NON GUARDERETE PIÙ UNA SPIAGGIA CON GLI STESSI OCCHI

di Elisa Pedini – In uscita nelle sale italiane dal 24 marzo, il film “Land of mine – Sotto la sabbia” del regista danese Martin Zandvliet, che ci riporta nel 1945, in uno spaccato storico di pochi mesi, da maggio a ottobre, ma che, emotivamente, sembrano anni. Pellicola dura, cruda, potente, detonante in ogni senso. Dopo questo film, non guarderete più una spiaggia con gli stessi occhi.

Gli eventi narrati in “Land of mine” sono decisamente poco noti e sono considerati tabù nella storia moderna danese. È il maggio del 1945, la Danimarca è appena diventata una terra libera, dopo 5 lunghissimi anni di dominazione nazista. Anni che hanno spezzato gli animi di tutti e spento milioni di vite. Il Reich, di fatto, vacilla da un pezzo, non ha praticamente più risorse umane e pur d’avere soldati, è arrivato a mandare in guerra tutti i maschi dai tredici ai novant’anni. Il regime sente il fiato delle Forze Alleate sul collo e temendo l’invasione da nord, dissemina le coste occidentali danesi con più di due milioni di mine anticarro e antiuomo. Dopo la caduta della Germania nazista, le autorità britanniche offrono al governo danese la possibilità di arruolare prigionieri di guerra tedeschi per bonificare la costa. L’amministrazione danese accoglie subito l’idea e la mette in pratica. La Brigata danese dirige e gestisce l’operazione. Peccato che, tutta la dinamica contravvenisse la Convenzione di Ginevra del 1929, secondo cui, è vietato obbligare i prigionieri di guerra a svolgere lavori forzati o pericolosi. Tuttavia, le regole vengono deliberatamente eluse, correggendo il testo da “prigionieri di guerra” a “persone volontariamente arrese al nemico”. Seppur ci sono discrepanze tra i dati danesi e quelli tedeschi, si stima che circa 2600 uomini, d’un’età compresa tra i 15 e i 18 anni, furono costretti a quel lavoro. Almeno la metà di loro rimase uccisa o gravemente lesa. “Land of mine” è tutto questo.

Ma, i dati storici sono vicende volute e provocate dall’uomo e allora non si può non tenere conto del “fattore umano” e di tutte le implicazioni interiori ed esteriori che ne conseguono. Qualsiasi tipo di regime totalitario è basato sulla violenza e sull’oppressione, concependo soltanto due posizioni: o a favore, o contro. I popoli invasi, macerati in uno stato di terrore costante e reale, vessati dalla violenza, prostrati dalla morte, covano in loro rabbia, desiderio di vendetta e sete di rivalsa. La furia di chi ha troppo a lungo vissuto e visto orrori indescrivibili, porta alla violenza più cieca nei confronti di qualsiasi persona o cosa divenga in quel momento il simbolo del nefando regime. “Land of mine” è, particolarmente, tutto questo.

È facile comprendere, dunque, come i tedeschi siano profondamente odiati. Poco importa che i soldati siano ragazzini, a loro volta mandati totalmente allo sbando e che poco abbiano capito delle disgrazie umane. Loro, con le loro divise e la loro lingua, sono solo l’emblema dell’oppressore, del nemico. Lasciati senza cibo e in alloggi, a dir poco, inadeguati. In quest’ottica va interpretato “Land of mine” ed è questo stato d’animo che, dalla prima scena del film, il Sergente Rasmussen comunica. Al grido di “questa è la mia terra”, sfoga tutta la sua cieca furia, in cui sono racchiusi tutto il dolore, la frustrazione e l’impotenza, patiti per anni. E allora mi domando se “Land of mine” non sia un pun, dove “mine” gioca il suo senso tra “mia” e “mina”, ma è un interrogativo che non so svelarvi poiché il regista non concede intervista. Di certo, c’è lo strazio dell’animo di Rasmussen che accoglie quel camion di disgraziati soldati-bambini con tutto l’odio di cui è capace. Che muoiano di fame o dilaniati da una mina non importa a lui, ancor meno alla Brigata danese e meno ancora alla popolazione. Ma, quei prigionieri, restano ragazzini e nei loro cuori portano ancora la capacità di sognare e d’immaginare un futuro quando saranno di nuovo a casa. È proprio quella parte d’innocenza, che si portano dentro, che finisce per spezzare lo “scudo” di Rasmussen, che passa dall’insultarli senza tregua, al chiamarli “ragazzi”, al parlare con loro, all’avvicinarsi, fino ad affezionarsi. Sono tutti nella stessa landa desolata, in mezzo al nulla, ognuno coi suoi mostri, le sue paure, il suo dolore. È un film che non lascia scampo. Ho sentito l’angoscia, ho patito la fame, ho avuto paura insieme ai protagonisti. Ho provato lo strazio dei ragazzi e la dicotomia interiore di Rasmussen tra l’odio per quei tedeschi e la pietà per quei giovani. “Land of mine” è un film sul dolore in tutte le sue sfumature. È un viaggio nell’anima umana. Pellicola talmente aspra che non ho retto e ho dovuto abbassare lo sguardo a ogni mina disinnescata, perché potevo sentire il terrore, tangibile, della morte. Sapientemente, una sublime fotografia supporta, per contrasto, i sentimenti evocati. Da un lato, una natura incontaminata, spiagge bianche, sabbia impalpabile, la luce del sole. Dall’altro, la cupezza della paura, del dolore, della solitudine, della morte. L’esecuzione è strabiliante: Roland Møller, che interpreta il Sergente Carl Leopold Rasmussen, si cimenta per la prima volta nel ruolo del protagonista e si mostra attore carismatico, espressivo e vibrante, in grado di comunicare chiaramente pensieri e sentimenti anche attraverso uno sguardo. Il cast dei ragazzi è davvero eccezionale, soprattutto se si considera che sono tutti dilettanti.

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afterNotations: quando le partiture musicali diventano arte

In occasione della dodicesima edizione del Festival 5 Giornate – Milano: Cinque Giornate per la Nuova Musica, il Festival interamente dedicato alla musica classica contemporanea e sperimentale, lo spazio Made4Art presenta la mostra afterNotations ideata e curata da Sergio Armaroli. Il progetto, che dà avvio alla manifestazione, si ispira alla mostra Notations (Something Else Press, West Glover, Vt., USA, 1969) a cura del compositore statunitense John Cage e dell’artista Alison Knowles grazie al sostegno della Foundation for Contemporary Performance Arts, contenente un’ampia collezione di segni grafici e autografi di compositori e artisti sonori. In esposizione presso Made4Art una serie di partiture musicali, brani e annotazioni di compositori italiani contemporanei accompagnata da un prezioso manoscritto del Maestro Sylvano Bussotti (Firenze, 1931). Pagine d’album come oggetti d’arte proposti in un percorso e in un allestimento dove è possibile coglierne l’intelligenza musicale e contemplarne la valenza segnica ed estetica.

L’intento – scrive Armaroli – vuole essere quello di riscoprire il piacere della scrittura simbolico-sonora, del segno e del gesto di invenzione, in un’epoca in cui la digitalizzazione ha imposto una uniformità delle forme e dei contenuti attraverso programmi di scrittura musicale che spesso sostituiscono ‘il pensiero’ attraverso l’illusione del formato; per valorizzare un nuovo pensiero divergente e riscoprire l’hardware manuale rispetto al software alfa-numerico. La musica, intesa come idea, può essere ri-scoperta e ri-sentita a partire dal costrutto segnico e dal pensiero scrittorio”.

A seguito della mostra verrà realizzato il catalogo per la Collana di Made4Art con le partiture dei compositori coinvolti nel progetto curato da Sergio Armaroli, omaggio e ideale seguito dell’opera del Maestro americano John Cage.

Il Festival 5 Giornate, promosso da Associazione Musicale TEMA e Centro Musica Contemporanea e giunto quest’anno alla dodicesima edizione, si presenta come uno degli appuntamenti più importanti e più attesi sia per gli appassionati, sia per gli studiosi, sia per gli stessi musicisti e compositori che trovano nel Festival una prestigiosa possibilità per esibirsi e proporre i propri lavori. Il Festival si svolge durante le Cinque storiche Giornate di Milano, dal 18 al 22 marzo, una serie di appuntamenti in grado di offrire una panoramica completa e aggiornata sullo stato della Nuova Musica. La manifestazione prenderà avvio il 18 marzo alle ore 15 con l’inaugurazione della mostra afterNotations presso lo spazio Made4Art, proseguendo con una serie di appuntamenti, concerti, installazioni e presentazioni presso le sedi coinvolte nel Festival, fra cui Museo del Novecento, la Chiesa di San Gottardo a Palazzo Reale, StudioSelva, Auditorium del Mudec, Palazzina Liberty, Salone degli Affreschi dell’Umanitaria, Teatro Verdi.

Il Festival è stato inserito dal Comune di Milano nel Palinsesto “Ritorni al Futuro” e vede la collaborazione di: Museo del Novecento, Mudec, Umanitaria, Milano Classica, Teatro del Buratto, RAI, Suvini Zerboni-Sugar Music, Sconfinarte, StudioSelva, Made4Art.

 

afterNotations
Sergio Armaroli, Marino Baldissera, Sylvano Bussotti, Alipio Carvalho Neto, Giuseppe Chiari, Matteo D’Amico, Irlando Danieli, Dan Di Maggio, Maurizio Gabrieli, Francesca Gemmo, Giuseppe Giuliano, Daniele Lombardi, Diego Minciacchi, Giorgio Nottoli, Francesco Maria Paradiso, Riccardo Piacentini, Steve Piccolo, Walter Prati, Giancarlo Schiaffini, Fabio Selvafiorita, Riccardo Sinigaglia, Rossella Spinosa, Gabrio Taglietti, Riccardo Vaglini, Massimiliano Viel
a cura di Sergio Armaroli

M4A – MADE4ART | Spazio, comunicazione e servizi per l’arte e la cultura
di Elena Amodeo e Vittorio Schieroni
Via Voghera 14 – ingresso da Via Cerano, 20144 Milano
18 – 22 marzo 2016 | Inaugurazione venerdì 18 marzo, ore 15
Venerdì – martedì, ore 15 – 19 | Ingresso libero
www.made4art.it, info@made4art.it, t. +39.02.39813872
Catalogo disponibile in sede e scaricabile gratuitamente dal sito di Made4Art

In collaborazione con Festival 5 Giornate – Milano: Cinque Giornate per la Nuova Musica
www.centromusicacontemporanea.it

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L’artista Daniele Bongiovanni Special Guest ad Affordable Art Fair Milano

Dal 17 al 20 Marzo 2016 il Maestro Daniele Bongiovanni, attualmente impegnato per la presentazione a New York della collezione Black and Poets, negli spazi  Pier 94 – Artexpo, sarà ospite alla fiera di Milano AAF Art Fair (Superstudio Più, via Tortona 27, 20144 Milano) in qualità di Special Guest nello stand A1 della rassegna. L’artista sarà in mostra con Natural particolare rivisitazione della collezione Aesthetica, progetto esposto recentemente presso il PoCo Museum – indiana, e la Courtyard Gallery – Inghilterra. La collezione Natural si distingue perché è un ritratto di pseudo paesaggi, un rappresentare il ‘’non visibile’’ idealizzato, dove il colore oro contaminato da campiture pastello, si fonde con cieli bianchi e soggetti naturali accennati nello spazio.

Daniele Bongiovanni è nato a Palermo nel 1986, dove oggi vive e lavora. Dopo un lungo periodo di formazione, progetti in giro per l’Italia e all’estero, pubblicazioni come L’incerto, libro edito dal Centro Studi Giulio Pastore, aver conseguito la laurea presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, dal 2008 inizia una lunga carriera espositiva. Dopo numerose mostre sul territorio nazionale, espone Museo d’arte contemporanea italiana in America e alla 53. Biennale di Venezia, nel 2014 mentre viene rappresentato con esclusiva dalla CD Arts, collabora e partecipa alle iniziative collaterali della Biennale di Liverpool e dell’Istanbul Contemporary Art Museum, esponendo nei progetti ideati da Genco Gulan, viene invitato al Museo d’arte contemporanea italiana in America presso l’ambasciata italiana a San José, in Australia in diverse mostre, in musei e luoghi alternativi, esponendo così, presso: il Moreland City Council, la Caroline Springs Gallery e il Crown Palladium Ballroom. Nel 2015, durante una collaborazione con i laboratori artistici della Dublin City University, della Brighton and Sussex Medical School – University of Sussex, e la realizzazione dei primi premi per la finale internazionale del torneo India Golf Cup – Indian Chamber of Commerce in Italy, viene invitato in un grande progetto a Venezia, Il GCDP, esponendo a Palazzo Bollani con seguito a Villa Pamphili – Roma, nello stesso anno espone, con un ciclo antologico al Museo Stadio di Domiziano – Piazza Navona, come ospite internazionale, poi presso il Porter County Museum – Indiana, e LCB Depot – Courtyard Gallery/WalkMuseum – Inghilterra (dove presenta in anteprima la collezione Aesthetica), al Beth Israel Deaconess Medical Center – Boston (in un progetto di ricerca, con acquisizione d’opera in permanenza) e al Centro Documentazione Amedeo Modigliani (mostra e acquisizione d’opera in permanenza), al Museo Cà la Ghironda – Bologna (acquisizione d’opera in permanenza) al Museo Logudoro Meilogu – Sardegna (acquisizione d’opera in permanenza), e nuovamente al Museo d’arte contemporanea italiana in America – Costa Rica ( mostra e acquisizione d’opera in permanenza). Daniele Bongiovanni, nella sua opera omnia ha anche riletto in chiave pittorica la musica, realizzando la collezione Neri: l’opera dedicata a Etta James, viene menzionata ed esposta al Macchia Blues Festival – Macchia D’Isernia, l’opera centrale della collezione, dedicata a Miles Davis, viene acquisita – esposta dentro il Roxy Bar di Red Ronnie.

Daniele Bongiovanni

NATURAL

dal 17 al 20 Marzo 2016

Milano AAF Art Fair

Superstudio Più

Via Tortona 27 – Milano

Info: danielebongiovanni.com

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Gli Homini dei Fratelli Boga in esposizione presso Amy-d Arte Spazio

Verrà inaugurata giovedì 10 marzo presso Amy-d Arte Spazio di Milano  la personale dei Fratelli Boga Homini. Forma e Dinamica”. In mostra undici Homini rappresentativi della visione artistica dei Fratelli Boga.

Dopo Giacometti, vicino al Surrealismo, ma anche all’Espressionismo, le sculture della serie degli “Homini” della collezione di …quando il pensiero supera il gesto … dei Fratelli Boga, rappresentano l’uomo per quello che è nella sua presenza , nella sua testimonianza di vita, nella sua esperienza, nei suoi ricordi.

La ricerca dell’essenziale, LA FORMA, LA DINAMICA, che trattiene tutto il suo contenuto di vitalità, energia, taumaturgia sempre presente nelle opere dei Fratelli Boga.

L’informale che diventa formale, uguale ma diverso, un passo in avanti sulla strada della conoscenza.

L’arte torna ad emozionare, tangibile e fruibile a tutti senza se e senza ma.

L’Homino dinamico nella sua staticità è vivo.

I Fratelli Boga  sono tre fratelli artisti di Tradate (Varese), nati a Cesano Maderno.

Imprenditori e artisti, dal 1979 seguono l’orma del padre, progettando e realizzando arredi di design che esportano in tutto il mondo. Sono anche grandi collezionisti di opere d’arte.

La loro collezione privata annovera sculture di Rodin, Giacometti, Fontana, Marino Marini, Manzù e molti altri.

Importante è anche la loro quadreria con dipinti che vanno dal ‘500 ai giorni nostri.

Con le loro realizzazioni artistiche hanno sviluppato un vero e proprio movimento denominato “…quando il pensiero supera il gesto …”. Il movimento nasce nel 1984 e ha come perno centrale la superiorità del pensiero rispetto al gesto tecnico.

HOMINI. FORMA E DINAMICA

Amy-d Arte Spazio

Via Lovanio, 6, 20121 Milano (MM2 Moscova)

dal 10 al 20 marzo 2016

Inaugurazione giovedì 10 marzo ore 18.30

Ingresso libero

Informazioni al pubblico: info@thebogafoundation.it

Tel. +39 02654872

Social network:

facebook.com/quandoilpensierosuperailgesto

#hominiformaedinamica

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Picasso e le sue passioni. Un percorso attraverso ciò che ha ispirato la sua arte. A Pavia fino al 20 marzo 2016

di Giorgia Schiera – Sita nel Palazzo Vistarino di Pavia, l’esposizione presenta più di 200 opere del pittore provenienti da numerose collezioni private.

La bellezza del palazzo settecentesco non fa altro che rendere ancora più piacevole la visita, e ci accompagna attraverso sette sale, ognuna delle quali è dedicata a temi e stili diversi.

Pablo Picasso è stato un pittore molto longevo, e perciò ha potuto creare molto e ha potuto attraversare in prima persona le più importanti correnti artistiche del Novecento.

Bambino prodigio, dopo l’infanzia a Malaga, vivrà quasi tutta la svita artistica a Parigi.

La pittura di Picasso si divide principalmente in 4 periodi. All’inizio si collocano il Periodo blu e il Periodo rosa, nei quali costruisce le figure restando però fedele ancora a quell’educazione accademica che aveva ricevuto e sviluppato negli anni dell’adolescenza: volumi ben torniti, spazio verisimile e punti di vista unico. In questa fase sono soggetto delle sue tele gli umili, i poveri, che rende utilizzando le tinte fredde del blu e del grigio. Nel periodo rosa il pittore si concentra su altre forme di emarginazione: i saltimbanchi e gli artisti di strada, stanchi e affaticati dalla vita, sono tratteggiati con toni caldi e fini tinte pastello.

Ma la rivoluzione arriva nel 1907: il Cubismo.

Picasso stravolge il concetto di pittura, realizzando le figure con più punti di vista diversi, frammentandole, per far in modo che sia lo spettatore a ricreare un’immagine ideale nella propria mente, aprendo quindi il dibattito su una domanda per il pittore fondamentale: “La pittura rappresenta davvero la realtà?”

Delle sette sale della mostra pavese, la prima è dedicata alla tauromachia, tema a lui molto caro, in quanto lo riporta alla sua infanzia. Per realizzarlo ha utilizzato la tecnica dell’acquatinta allo zucchero, una particolare tecnica di incisione. Sono esposte 26 incisioni, molto simili per stile e per rappresentazione. Non vi è colore, ma solo contrasti di chiaro scuro tra il bianco e il nero che danno dinamicità alla scena: il toro infatti sembra davvero si stia per lanciare alla carica contro il matador che intrattiene il pubblico in visibilio, mentre le linee semplici rendono le incisioni facilmente comprensibili e facilmente apprezzabili.

Passando alla seconda sala ci troviamo davanti al mondo dei saltimbanchi, tema certamente prediletto dal pittore nel suo periodo rosa. A Pavia sono però esposte solo stampe di incisioni in bianco e nero (acquaforte e punta secca). Il tema già praticato a Picasso, assume qui toni nuovi, che vanno dalla malinconia all’ironia.

Nelle sue rappresentazioni dimostra la solidità della sua tecnica e la razionalità con cui realizza i corpi e il loro volume attraverso tratti precisi, che poi andrà a svanire con il celebre quadro Le Demoiselles d’Avignon, punto di rottura tra Picasso post-impressionista e il nuovo Picasso cubista. Pur essendo piccole incisioni, sono capaci di trasmettere un certo senso di inquietudine, grazie allo stile che ricorda un artista come Munch, le cui incisioni producono le medesime sensazioni.

Nella terza sala è esposta una raccolta di studi di costumi per il Tricorno, un balletto di Sergej Aghilev (su musiche di De Falla), che affida al pittore la realizzazione della scenografia. Picasso ne studia i costumi e i decori disegnando vari bozzetti di personaggi che anima con colori brillanti, sia caldi che freddi. I personaggi hanno pose semplici, proprio per far comprendere la coreografia che le scene avrebbero  accompagnato.

Nella quarta sala sono esposti i poemi che Picasso ricopia dai Vingt Poems del poeta Louis de Gongora. Accanto al testo Picasso affianca incisioni di volti e corpi femminili, di cui alcuni semplici, mentre alcuni dal tratto elaborato, ma tutti  capaci di potenza espressiva e comunicativa, quasi come se le figure di Picasso fossero una vera personificazione di ciò che De Gongora ha scritto, e che Picasso ha riportato su incisione.

Entrando nella sala successiva ci si trova davanti al dipinto molto probabilmente ispirato alla compagna Dora Maal: Tetè de Femme. È la fase cubista del pittore, dove si esaspera la scomposizione per piani, per andare a ricreare una forma mentale dell’immagine.

Non ci troviamo davanti ad un’immagine vera e propria di donna, ma di forme geometriche che riescono a ricreare in noi l’immagine femminile.

L’uso dei colori non è armonico, le tonalità spente non trasmettono emozioni serene o di felicità, mentre la figura verso il basso si fa evanescente, come se stesse scomparendo per sempre, forse dalla vita del pittore.

Accanto alla Tète de Femme, ritratto della compagna, come potrebbe non trovarsi l’autoritratto del pittore stesso? Scelto come copertina della mostra, non ha è sottoposto a un forte processo di scomposizione, ma piuttosto una generale deformazione del viso. Picasso si è voluto rappresentare così, restando fedele al suo stile originale, e con un’idea di fondo geniale: la rappresentazione artistica come sintesi di mondo ideale e mondo infantile, in quanto da bambini non si è portati a disegnare razionalmente, ma solo seguendo il proprio istinto, la propria spontaneità, riportando l’arte alla sua forma più pura. Quella che vediamo quindi non è l’immagine del Picasso reale, ma è come Picasso vede la forma più pura di se stesso.

Consiglio vivamente a chiunque sia intenzionato a visitare la mostra di farlo nei prossimi giorni, non solo per l’originalità delle opere esposte, ma anche per ammirare un palazzo molto bello, aperto al pubblico solo poche volte all’anno.

È una visita rilassante e molto formativa che permette di trascorrere un bel pomeriggio ad ammirare le opere di un pittore che ha fatto la storia dell’arte e della cultura del Novecento.

PICASSO E LE SUE PASSIONI

Palazzo Vistarino – Pavia

Fino al 20 marzo 2016

www.picassoelesuepassionipavia.it

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Bernard Aubertin: tra le fiamme del paradiso

di Andrea Farano – Sul finire degli anni cinquanta, in un’Europa che ondeggia tra la rigorosa rappresentazione del reale e l’emancipazione del segno astratto e informale, sorge l’esigenza di una terza via espressiva che soddisfi l’impulso di una nuova partenza, annientando tutte le esperienze artistiche (ma soprattutto pittoriche) sviluppate fino a qual momento ed appagando una ritrovata esigenza fatta piuttosto di silenzio, essenzialità e purezza.

È appunto il 1957 quando a Düsseldorf, per mano di Otto Piene, Heinz Mack e Gunther Uecker, nasce il Gruppo Zero: “Zero è silenzio. Zero è inizio. Zero è rotondo. Il sole è Zero. Zero è bianco (…) Zero è l’occhio. La bocca. Il buco del culo (…) oro e argento, rumore e vapore. Circo nomade. Zero è Zero» scriverà qualche anno più tardi Piene, palesando il manifesto concettuale del Movimento, che in poco tempo diverrà fondamentale punto di riferimento delle avanguardie artistiche europee.

A questa visione ottimistica in cui regna la volontà di sperimentare il potere della creazione – coinvolgendo nel processo produttivo la luce, lo spazio, il movimento e i più disparati materiali (come resine, metalli, chiodi, legni…) – aderisce da subito il francese Bernard Aubertin (1934-2015), che troverà nella virtù demiurgica del fuoco e nella libertà infinita del colore monocromo (spintovi dal suo sodale Yves Klein) la combine ideale per il fiorire della propria dimensione artistica.

È a questo gigantesco artista (già riconosciuto dalla Storia, ma forse non ancora a sufficienza dal mercato) che la Galleria San Carlo, a due passi da Sant’Ambrogio, dedica una personale di estremo rigore antologico dove, grazie a una selezione che abbraccia la produzione dagli anni ’60 sino alla recente scomparsa, è possibile ammirare le espressioni più pure del suo genio creativo: Tableaux-clous (tavole di legno in cui pianta dei chiodi, trapassandole da parte a parte),  Dessins de feu (tele e pannelli metallici ove risaltano gli effetti della combustione indotta), ma anche Livres e Objets brulés (libri e oggetti comuni, in questo caso modellini di auto, letteralmente dati alle fiamme) rappresentano al meglio i temi fondamentali dell’estetica di Aubertin.

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Il Rosso, l’unico pigmento della sua tavolozza, al quale riconosceva una intrinseca forza primordiale e liberatoria, che travalicava lo spettro dei suoi valori simbolici e tradizionali (il sangue come l’amore), per divenire emblema supremo della Vita stessa.

Il Fuoco, la mano del Caso alla quale consegnava l’opera affinché la portasse a compimento, in una sorta di condivisione del momento creativo che assumeva i contorni di un vero e proprio rituale mistico ed epifanico.

E in mezzo loro, i fiammiferi, oggetti relitti del nostro tempo, disposti sulla superficie oggettuale con prevalente circolarità (come uno Zero forse?) a traghettare l’energia salvifica delle fiamme.

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Eppure, né il cromatismo ossessivo né l’effetto seriale delle rigorose composizioni saziano mai l’occhio di chi osserva, e si resta ad ammirare una scoperta che si ripete con cadenze continue e sempre nuove, nel tentativo di catturare l’attimo  presente e sfidare l’eternità.

Il fuoco sopraggiungendo giudicherà e condannerà tutte le cose” – Eraclito

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“Bernard Aubertin: Se fossi foco arderei lo mondo

Galleria San Carlo, via Sant’Agnese n. 16 – Milano

prorogata sino al 10 marzo

www.sancarlogallery.com

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