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CRIMINAL: UN FILM CHE VI RIMARRÀ NELLA MEMORIA

di Elisa PediniDal 13 aprile al cinema, “Criminal” il nuovo film del giovane regista israeliano Ariel Vromen. Dopo aver raccontato in “The Iceman”, del 2012, la storia vera d’un efferato serial-killer, che lo ha imposto agli onori della critica, Vromen torna, dietro alla cinepresa, con un action-thriller davvero notevole. Pellicola assolutamente da vedere: coinvolgente, originale, anticonformista e provocatoria. “Criminal” è un film che mi sento di definire: impressionante. La scienza e la ricerca scientifica sono, di fatto, il tema portante. Due le capacità umane esaltate: quella d’inventare e quella di ricordare. Sublime.

Siccome voglio accompagnarvi nella mia lettura del film e di ciò che ho molto apprezzato, mi è necessario, innanzi tutto, introdurvelo e dunque, raccontarvi la trama. La storia narrata è semplice e lineare: Heimbahl, un anarchico fanatico e folle, vuole appropriarsi di un wormhole in grado di forzare il sistema di difesa americano comandandone le armi a piacimento. Tale programma è stato ideato dal giovane e geniale hacker Jan Strook, detto “l’olandese”, il quale, però, non ha alcuna intenzione di farlo cadere nelle mani dello psicopatico Heimbahl, essendo ben cosciente delle conseguenze nefande che ciò comporterebbe. Fa, dunque, un accordo con la CIA. Il suo tramite è William Pope, l’unico perfettamente al corrente di tutti i dettagli della situazione e che nasconde “l’olandese” per proteggerlo. Heimbahl trova Pope. Lo tortura, nel tentativo d’avere informazioni, ma, l’agente, non parla, cosa che gli costerà la vita. È qui che entra in gioco la scienza, nella persona del dottor Franks, neurochirurgo che sta conducendo esperimenti sul passaggio di memoria da un essere vivente all’altro. La ricerca è in fase sperimentale e per ora è stata solo condotta su cavie. Mancano, ancora, almeno cinque anni di lavoro perché si possa passare alla sperimentazione sugli umani. Tuttavia, il capo di Pope, Quaker Wells, non vuol sentire ragioni. La posta in gioco è la salvezza del mondo. Si deve rischiare. Serve un altro essere umano che ospiti la memoria di Pope per trovare “l’olandese” prima di Heimbahl. La CIA non ha candidati, ma il dottor Franks, si. Ha individuato in Jerico Stewart, un detenuto nel braccio della morte, il candidato ideale. Un uomo violento, pericoloso, sociopatico, totalmente privo di empatia, di sentimenti, di sensi di colpa. L’unica emozione che Jerico è in grado di provare è la rabbia, che sfoga nella violenza più bestiale e brutale. Ciò nonostante, quest’uomo, così immondo, ha le caratteristiche cerebrali idonee. L’intervento chirurgico si fa. Inizialmente, sembra non aver funzionato; ma, lentamente, Jerico comincia ad avere dei flash di una vita non sua, sempre più nitidi. Con i ricordi, affiorano in lui anche le capacità di Pope. Tuttavia, avvisa il dottor Franks, non sarà per sempre. Molto presto, tutto svanirà nella sua mente. Ricordi frammentari, insufficienti, che, però, danno il via a un doppio percorso: da un lato, il cammino interiore di Jerico che scopre affetti, emozioni e situazioni a lui totalmente ignoti; dall’altro, il tentativo di fermare Heimbahl. “Criminal” mescola alle atmosfere e ai ritmi del thriller, i passi e i marosi dell’anima, dosandoli con sapienza. Come e dove portino questi due percorsi lo lascio scoprire a voi, gustandovi il film. Ciò che mi ha colpita e su cui mi piace riflettere è, invece, l’aspetto scientifico per un verso e quello umano per l’altro. Certo, la ricerca del dottor Franks è fiction, invenzione pura. L’idea da cui, però, Vromen parte, su cui si è documentato e su cui ha costruito “Criminal” non è così infondata. Infatti, non sono pochi gli studi che trattano di “memoria”. «Mi hanno incasinato il cervello», così apre il film Jerico. È noto che, a restare impressi, siano gli eventi più significativi, quelli che hanno coinvolto le emozioni più forti ed è proprio questo che, sapientemente, Vromen ci mostra. La memoria che Jerico eredita da Pope è, esattamente, quella a lungo termine, ovvero, quella che si fissa grazie alle emozioni e alle percezioni sensoriali a essa legate. I suoi ricordi sono frammentari e privi di consequenzialità, perché sono più rievocazioni di istanti. Inoltre, è risaputo che il cervello umano non sia in grado di distinguere tra emozione provata ed emozione allucinata. Per parte mia, trovo affascinante l’idea che un giorno la scienza sia in grado di trovare un modo per “trasportare memoria”. Recenti studi scientifici condotti dall’Università di Harvard, hanno dimostrato che gli atomi hanno memoria, ovvero possono “ricordare” con precisione quello che hanno fatto in precedenza e che, pertanto, sono in grado di trattenere e trasportare informazioni. Tale ricerca si sta, a tutt’oggi, sviluppando, seppur, ben evidentemente, in campo quantistico. Da questi dati, a vedere in Vromen un precursore avveniristico del futuro scientifico ne corre, ovvio. La sua, è fiction. Sognare, invece, è lecito. Vedendo “Criminal” non si può non essere affascinati da questo “sogno”. Il secondo aspetto che mi ha colpita, come ho anticipato sopra, è quello umano. La cinematografia ci ha abituato ad avere a che fare con scienziati o ricercatori pazzi, o privi di scrupoli, o avulsi dalla realtà. In “Criminal”, Vromen ci presenta, invece, due esseri umani, geniali; ma con una coscienza e un’anima. Un hacker e un neurochirurgo, che inventano, entrambi, qualcosa di straordinario, ma che restano due persone “normali”, totalmente calati nella loro realtà. Non sono folli, né spregiudicati, anzi, si pongono delle questioni morali ben precise. L’originalità di “Criminal” trova, poi, l’apice del compimento nell’esecuzione degli interpreti, che, più che recitare, sembrano realmente vivere gli eventi. Un ritrovato e straordinario Kevin Costner, che si scrolla di dosso il grigio di parti, ultimamente, poco riuscite, divenendo interprete intenso di Jerico Stewart, affiancato da un superbo Tommy Lee Jones nei panni del dottor Franks e da un potente Gary Oldman nel ruolo di Quaker Wells. Un realistico Jordi Mollà ci coinvolge nei vaneggiamenti dello psicopatico Heimbahl, mentre Michael Pitt rende, con notevole veridicità, l’angoscia dell’hacker Jan Strook. Non sono da meno le interpretazioni di Ryan Reynolds, nella parte dell’eroico William Pope e di Alice Eve nel ruolo della giovane e bella vedova.

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Simbolismo: inquietudine, fascino e sperimentazione nell’arte europea tra ottocento e Novecento

E’ un tempio la Natura ove viventi
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l’uomo
tra foreste di simboli dagli occhi
familiari. I profumi e i colori
e i suoni si rispondono come echi
lunghi che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte ed il chiarore.

di Emanuele Domenico Vicini – Con queste parole si apre Corrispondences, uno dei testi chiave dei Fiori del Male, raccolta poetica del 1854 di Charles Baudelaire, nonché uno dei punti di riferimento della cultura simbolista europea, nel passaggio tra XIX e XX secolo.

La natura, luogo di forme reali e di suggestioni spirituali, non è più solo spazio per l’esercizio delle facoltà razionali dell’uomo, non può più solo accogliere lo spirito indagatore, di scoperta, di invenzione, dell’intellettuale che nella scienza ripone ogni fiducia; essa diventa al contrario luogo dell’indistinto, tempio dove albergano forze spirituali profonde e arcane. Le sue parole sono confuse, i segni che ci invia non possono che affascinarci e confonderci allo stesso tempo, perché stimolano i nostri sensi.

La metafora del mondo è la sintesi di profumi e colori che si confondono in un’unità vasta e profonda come la notte e come la luce.
Sinestesie, contraddizioni logiche, suggestioni arazionali sono i tratti tipici dell’immaginario simbolista, nella poesia di Baudelaire espressi con il fascino di una sintesi verbale potente e immaginifica.

Questi, d’altra parte, sono i temi della cultura simbolista, raccontati anche dalla pittura con indubbia efficacia espressiva. E questi sono i percorsi della mostra milanese “Simbolismo”, a Palazzo Reale fino al 5 giugno 2016.

Non è facile raccogliere in un’esposizione compatta e unitaria le fila di un movimento così eterogeneo: a Milano sono esposti artisti molto lontani tra loro, con opere di grande interesse: dalla straordinaria donna ghepardo della Sfinge di Fernand Khnopff; alla Testa di Orfeo galleggiante sull’acqua di Jean Delville (provenienti dal Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique di Bruxelles); o ancora dall’opera di Ferdinand Hodler, intitolata l’Eletto (dall’Osthaus Museum di Hagen), al Silenzio della foresta di Arnold Böcklin (dalla Galleria Nazionale di Poznan).

Non dimentichiamo però gli italiani, come Aristide Sartorio presente con l’imponente ciclo pittorico Il poema della vita umana, realizzato per la Biennale del 1907, la stessa dove venne allestita la famosa Sala dell’Arte del Sogno che ha rappresentato la consacrazione ufficiale del Simbolismo in Italia.

È quindi decisamente interessante percorrere le sale della mostra, molto ben allestite, con luce soffusa e intrigante, accompagnati dalle parole di Baudelaire e dei suoi Fiori del male, dipinte alle pareti, per introdurre il visitatore nei diversi temi del percorso. Si coglie, nella messe di pittori, temi e tecniche presenti (da echi tardo romantici a suggestioni post impressioniste, da elegantissime citazioni di sfumature leonardesche ai tecnicismo del divisionismo all’italiana) prima di tutto la complessità dei movimento, e in particolare la sofisticata scelta tematica che spesso torna al mito classico.
È il caso di uno dei pezzi più famosi in mostra, giustamente scelto come immagine dell’evento, L’arte o La Sfinge o Le carezze, di Fernand Khnopff. Un Edipo efebico viene dolcemente accarezzato dal un ghepardo, mollemente adagiato al suo fianco, con il volto femminile della sfinge.
I due personaggi sono l’emblema dell’ambiguità (l’androginia di Edipo e la duplice natura umana e felina della Sfinge) come cifra fondamentale dell’esistenza stessa, ma nello specifico come carattere proprio di ogni forma di comunicazione.
Edipo comunica il mistero risolto, ma non provoca la sconfitta e il suicidio della sfinge, la quale, al contrario, lo coccola e lo blandisce, insinuando il dubbio che Edipo non si sia ancora liberato (né mai si libererà) dalle maglie invisibili della seduzione dell’enigma. Per questo Edipo accetta l’insidiosa carezza di lei, dimostrando che la condizione del dubbio e dell’incertezza suscitano sull’uomo un fascino ineguagliabile e inesplicabile.

Assolutamente meritevoli sono gli italiani in mostra, il già citato Sartorio, Gaetano Previati e Giovanni Segantini.
Di Previati dominano alcune opere meno note, come Il chiaro di Luna, dove le lumeggiature argentee, sui toni cupi della notte, sono capaci di creare un effetto sognante e quasi mistico. Non dimentichiamo però il Trittico dell’Eroe, molto famoso, che apre, con la sua relazione con la Sinfonia Eroica di Beethoven, il tema del Gesamkunstwerk, l’opera d’arte totale. L’eroe è celebrato con un ritmo solenne e sacro dal tocco divisionista del pittore, ricordando così l’andamento imponente della sinfonia. Nel mondo simbolista, l’ispirazione artistica è trasversale, passa dalla musica alla pittura, e viceversa, come espressione prima di tutto di un’idea di bellezza superiore, non tanto destinata alla percezione dei sensi, quanto dell’intelletto nella sua superiore capacità intuitiva.

Tra i temi che spiccano per la loro potenza evocativa va ancora citato quello della figura femminile, rivisitata nella sua immagine da molti artisti. Il più affascinante esempio è decisamente Il Peccato (qui esposto nella versione abitualmente a Palermo), di Franz Von Stuck, cofondatore del movimento della Secessione di Monaco, che apre la strada alla cultura simbolista in Germania.
La sua Eva, avvolta della spire del serpente, ci guarda con inquieto e spregiudicato erotismo; il rettile non simboleggia più solo l’abiezione del male, ma prima di tutto il suo fascino perverso e ammaliante. Quasi come la stola di una nobildonna, le squame lucide della bestia circondano il corpo nudo di Eva, sicura di sé, nella posa eretta e nello sguardo. Eva di Von Stuck, come Elena Muti di D’Annunzio, o le donne vampiro di Munch, è l’emblema di quel processo di rinnovamento della figura femminile che segna l’inizio della modernità del XX secolo.

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SIMBOLISMO

Palazzo Reale – Milano

fino al 5 giugno 2016




Nuova personale per l’artista e fotografo Paolo Bongianino

In occasione del Fuorisalone del Mobile – Milan Design Week, Made4Art di Milano, in collaborazione con Azimut Consulenza Sim, presenta una personale dell’artista e fotografo Paolo Bongianino, che si terrà dall’11 aprile al 6 maggio 2016 presso la sede milanese di Azimut Consulenza Sim, Corso Venezia 48, Palazzo Bocconi.

In mostra nella sala eventi e negli uffici di Azimut oltre 50 opere scelte di Bongianino, tra le quali una selezione di scatti appartenenti alle serie Arbor, arboris e 2in1, entrambe esposte a gennaio da Made4Art alla fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea Arte Fiera di Bologna; i lavori della serie 2in1, immagini stampate su entrambi i lati dello stesso foglio, svelano la propria duplice natura rivelando una seconda dimensione più intima e nascosta.

Per l’occasione verrà presentata in anteprima una serie di opere inedite selezionate e pubblicate dalla Redazione della rivista Vogue nella sezione “PhotoVogue” dedicata alla fotografia.

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Paolo Bongianino. Opere scelte

11 aprile – 6 maggio 2016 
Opening & Special Cocktail lunedì 11 aprile, ore 18.30 – 20.30

Azimut Consulenza Sim
 – Palazzo Bocconi, Corso Venezia 48, 20121 Milano

Dal 12 aprile al 4 maggio la mostra sarà aperta al pubblico su appuntamento 
Catalogo disponibile in sede

Art Project & Communication M4A – MADE4ART 
di Vittorio Schieroni ed Elena Amodeo 
Comunicazione e servizi per l’arte e la cultura 
www.made4art.it, info@made4art.it, t. +39.02.39813872
Un evento: Expo in Città




Il colore degli anni ’50: Martin Karplus, fotografo premio Nobel, a Milano

Il Grattacielo Pirelli ospita la prima mostra personale in Italia di Martin Karplus fotografo (Vienna, 1930), personalità di spicco nel panorama scientifico internazionale e vincitore del Premio Nobel per la Chimica nel 2013.

Il progetto, presentato presso la sede di Regione Lombardia da Vittorio Schieroni ed Elena AmodeoMade4Art, consiste nella mostra Martin Karplus fotografo: il colore degli anni ‘50, a cura di Sylvie Aubenas della Bibliothèque Nationale de France, insieme a un concorso fotografico dedicato a giovani studenti lombardi. Il progetto è realizzato in collaborazione con Regione Lombardia e Università degli Studi di Milano.

In esposizione oltre sessanta opere in prestito dalla Bibliothèque Nationale de France rappresentative della produzione artistica di Martin Karplus e delle tematiche da lui affrontate: immagini a colori dell’Europa, delle Americhe e dell’Asia degli anni ‘50 e ‘60 che mostrano le avventure della sua vita, le emozioni e i luoghi da lui visitati. Immagini della natura incontaminata del Brasile e del Perù, dove affiorano le rovine di antiche civiltà o imponenti architetture moderne, volti e persone di popolazioni balcaniche ritratte nella loro quotidianità, lo stretto legame con l’acqua che caratterizza la vita dei pescatori di Hong Kong, fino ai prorompenti e accesi colori della frutta e delle spezie che riempiono i mercati cinesi e indiani. Questi sono alcuni dei soggetti ritratti dall’obiettivo di Martin Karplus dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, in un viaggio che tocca culture, usi e costumi diversi, Paesi vicini e lontani nel tempo e nello spazio, in un fondersi di vita personale e universale, di quella delle persone e dei luoghi che ha incontrato sul proprio cammino.

Il corpus principale della produzione fotografica di Karplus è rappresentato dagli scatti realizzati tra gli anni ’50 e ’60 con oltre 4.000 diapositive che sono rimaste inedite per quarant’anni mentre lo scienziato continuava a dedicarsi alla sua attività di ricerca. Nel corso del 2000 una selezione di queste diapositive è stata scansionata, rivelando immagini che conservano intatti i colori originari. 
Il lavoro di Karplus, che vede il passaggio dall’analogico al digitale, dalla sua Leica IIIC alla nuova Canon EOS 20D, riesce a conciliare la bellezza estetica tipica dell’opera d’arte con la carica emozionale del reportage, con tutte le sue valenze storiche, sociali e culturali. La mostra diventa un importante documento di oltre cinquant’anni di vita che Martin Karplus, conosciuto principalmente in ambito scientifico, vuole trasmettere alle generazioni future: una visione di quel mondo in cui ha vissuto, oggi in gran parte non più esistente.

A completare il progetto una sezione dedicata al Concorso fotografico Luoghi e colori di Lombardia indetto dall’Università Statale di Milano, che presenta il tema del viaggio e del colore attraverso la fotografia di alcuni studenti dell’Ateneo. Il Comitato di selezione, presieduto da Martin Karplus e composto dai Curatori del progetto, da Silvia Gaffurini (artista fotografa), Roberto Mutti (critico fotografico) e Giorgio Zanchetti (Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali, Università degli Studi di Milano) ha selezionato le opere che meglio hanno saputo rappresentare il tema proposto, con l’obiettivo di attrarre i giovani al mondo dell’arte e della fotografia. L’invito proposto agli studenti era quello di cimentarsi con la vitalità e l’energia cromatica tipica delle fotografie di Karplus degli anni ’50 e ’60.

Martin Karplus nasce a Vienna nel 1930. Si trasferisce coi genitori e il fratello negli Stati Uniti nel 1938. Dopo gli studi ad Harvard, consegue il dottorato di ricerca in Chimica presso il California Institute of Technology nel 1953. Trascorre due anni ad Oxford per tornare negli Stati Uniti come professore all’Università dell’Illinois prima e alla Columbia University dopo. Nel 1966 diventa professore di Chimica all’Università di Harvard, dove conduce tuttora la sua attività di ricerca. Nel 1996 diventa professore anche alla Università Louis Pasteur di Strasburgo, continuando la sua attività sia negli Stati Uniti che in Francia. È membro della National Academy of Sciences, l’American Academy of Arts & Sciences e membro straniero dell’Accademia Olandese delle Arti e delle Scienze e della Royal Society di Londra. Nel 2013 gli è stato conferito il Premio Nobel per la Chimica.

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Martin Karplus fotografo: il colore degli anni ‘50 e Concorso fotografico Luoghi e colori di Lombardia

Progetto a cura di Elena Amodeo e Vittorio Schieroni

6 aprile – 26 maggio 2016 | Inaugurazione mercoledì 6 aprile, ore 17 | Conferenza stampa, ore 15.30 
Grattacielo Pirelli – Spazio Eventi, 1° piano Via Fabio Filzi, 22 – 20124 Milano

Orari di apertura: lunedì – venerdì ore 13-19 | Ingresso gratuito

Info: www.made4art.it | info@made4art.it | www.regione.lombardia.it

Per ricevere materiale e immagini relativi alla mostra: press@made4art.it

Art Project & Communication: M4A – MADE4ART | Comunicazione e servizi per l’arte e la cultura 
di Vittorio Schieroni ed Elena Amodeo | www.made4art.it | info@made4art.it

In collaborazione con: Bibliothèque Nationale de France, Regione Lombardia

Con il contributo di: LGH Linea Group Holding, Linea Energia, Forum austriaco di cultura, Fondazione Oronzio e Niccolò De Nora, Royal Society of Chemistry

Con il Patrocinio di: Dipartimento di Chimica dell’Università degli Studi di Milano, Arcidiocesi di Milano, 
Società Chimica Italiana – Divisione di Elettrochimica, Comune di Milano, Fondazione Cariplo

In partnership: M4E – MADE4EXPO | www.made4expo.com | Evento: Photofestival | Un evento: Expo in Città




“LA BELLEZZA RITROVATA”: XVII EDIZIONE DI “RESTITUZIONI” PER LA PRIMA VOLTA A MILANO

di Elisa Pedini – Da oggi, 1° aprile, fino al 17 luglio sarà aperta al pubblico la mostra “La bellezza ritrovata” presso le Gallerie d’Italia in Piazza Scala. L’esposizione fa parte del progetto “Restituzioni”, programma di restauri di opere appartenenti al patrimonio artistico pubblico, curato e promosso da Intesa Sanpaolo. “Restituzioni 2016” è la XVII edizione del progetto, che, per la prima volta, si tiene a Milano. Ben 145 le opere sottoposte a restauro e presentate al pubblico prima di ritornare ai rispettivi luoghi d’appartenenza. Un’occasione unica per gustare, in anteprima, dei capolavori appena restaurati e aspetto estremamente interessante, assolutamente eterogenei: pittorici, scultorei, lignei e preziosi manufatti artigianali come, per esempio, i costumi della Commedia dell’Arte e i paramenti religiosi. Alcuni capolavori portano la firma di nomi altisonanti come Caravaggio, Rubens, Perugino, Lotto, altri sono meno noti o anonimi, ma, con certezza, tutti fanno parte del maestoso patrimonio culturale italiano. Le opere arrivano da tutto il territorio e per la precisione da: Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia, Calabria. Inoltre, altra novità di quest’anno, il programma include gli stati europei che sono sede delle banche estere del Gruppo Intesa Sanpaolo: la prima a essere stata coinvolta è stata la Slovacchia, presente in mostra con tre rilievi lignei.

Per farvi comprendere la grandezza di questa iniziativa, v’illustrerò in cosa consiste esattamente il programma “Restituzioni”. Il nome stesso del programma è già molto eloquente: “Restituzioni”, ovvero l’idea del “ridare”, perché è questo che il restauro di fatto fa: restituisce a nuova vita, alla conoscenza, alla consapevolezza, all’umanità. Il programma nasce nel 1989 in Veneto, sotto l’egida dell’allora Banca Cattolica del Veneto, con appena dieci opere e limitato al territorio d’appartenenza.

Oggi, ventisette anni e diciassette edizioni dopo, le mostre biennali e itineranti di “Restituzioni” coprono l’intero territorio nazionale: più di duecento siti archeologici, chiese e musei hanno beneficiato del programma, oltre un centinaio di laboratori di restauro e professionisti del settore hanno partecipato e più di mille opere sono state salvate e restituite al patrimonio artistico e culturale italiano e per conseguenza, al pubblico. Un impegno che è frutto d’una stretta collaborazione con tutti gli enti ministeriali preposti alla tutela dei beni culturali, mostrando quello che è un grande fattore d’orgoglio di questo programma: ovvero, un’esemplare sinergia tra pubblico e privato. La mostra “La bellezza ritrovata” è, dunque, un viaggio immaginario in tutto il nostro territorio e nel tempo, perché, le 145 opere, nella loro meravigliosa molteplicità di genere, forma e materiali, coprono 30 secoli di storia dell’arte. Inoltre, consente di conoscere quello che è il difficile e ad un tempo magico, lavoro del restauro, una disciplina che riunisce attorno allo stesso tavolo figure professionali diverse e specializzate: il restauratore, lo scienziato e lo storico dell’arte. Il restauro costituisce in Italia un campo d’eccellenza, all’avanguardia a livello internazionale. Perla di questa edizione del programma, è la possibilità per il pubblico di assistere direttamente al lavoro dei restauratori, perché presso l’officina di “Restituzioni”, allestita all’interno delle Gallerie d’Italia, è attivo il cantiere di restauro degli affreschi dell’inizio del XII secolo della chiesa di San Pietro all’Olmo di Milano.

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La mostra è visitabile dal martedì alla domenica dalle 9:30 alle 19:30; il giovedì l’orario si prolunga fino alle 22:30. L’ultimo ingresso è fino a un’ora prima della chiusura. Il biglietto ha un costo simbolico di € 5,00 ed è valido per la visita alla mostra “La bellezza ritrovata” e per le collezioni permanenti. L’ingresso è gratuito per tutti ogni prima domenica del mese e sempre per i giovani fino a 18 anni.

Per ogni informazione e per prenotazioni si può visitare il sito: www.gallerieditalia.com.

Da segnalare, inoltre, le numerosissime attività collaterali, tra le quali ve ne segnalo, in particolare, due, che si tengono entrambe tutte le domeniche dal 1° aprile al 17 luglio: la prima riguarda le visite guidate alle ore 15: attività sottoposta al raggiungimento minimo dei 10 partecipanti e rigorosamente su prenotazione al numero 800 167619, al costo di € 5,00 a persona più biglietto d’ingresso; la seconda è relativa alle visite guidate con laboratorio, per piccoli restauratori in erba, alle 15:30, pensate per bambini dai 6 ai 12 anni: attività sottoposta al raggiungimento minimo dei 10 partecipanti e anche questa su prenotazione al suddetto numero verde; il costo è di € 10,00 a bambino con ingresso gratuito alle Gallerie. Numerosi, anche, i percorsi didattici rivolti alle scuole.

“La Bellezza ritrovata” è allestita per la prima volta a Milano ed è dunque bellezza e consapevolezza per l’intera città: il Comune di Milano, infatti, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, contestualmente all’apertura della mostra, ha coinvolto i musei cittadini chiedendo di valorizzare un’opera delle proprie collezioni che sia stata oggetto di restauro recente. Le opere sono state inserite in un itinerario che conduce i visitatori attraverso un viaggio tra le opere restituite a Milano e al pubblico. Questo progetto s’inserisce in un palinsesto tematico ben più ampio, denominato “Ritorni al futuro” ricchissimo di eventi: oltre 100 appuntamenti che spaziano dalla mostra, al concerto, al teatro, al cinema.

Per informazioni: www.ritornialfuturo.it.

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“Ustica”: un dramma che vuole giustizia

di Elisa Pedini – Dal 31 marzo al cinema: il film-denuncia “Ustica” del regista Renzo Martinelli. Un film da vedere senza alcun dubbio, con la cosciente consapevolezza che quello che si vedrà, potrà essere scomodo, tagliente e per nulla compiacente. Renzo Martinelli non cerca la simpatia, cerca la verità, che non veste mai con abiti sfarzosi e falsi sorrisi; bensì, con quelli semplici, scarni e spesso cupi, della realtà. La pellicola si basa su una tragedia reale e si attiene ai fatti. Nulla viene romanzato, quello che si distanzia dai dati di fatto è dovuto solo a due aspetti: protezione della privacy di qualcuno, funzionalità cinematografica. Entrambi questi punti li spiega al pubblico direttamente il regista, Renzo Martinelli, con grande generosità e in ogni dettaglio, nell’intervista che vi propongo e che v’invito a leggere perché è davvero intensa e molto significativa. In questa mia recensione critica, mi limito al mio lavoro e vi parlerò, invece, dei fatti storici, dell’impatto emotivo durante la visione e di quello che a livello tecnico mi ha colpito.

È il 27 giugno del 1980, un velivolo Douglas DC-9 della compagnia aerea ITAVIA, parte dall’aeroporto di Bologna con quasi due ore di ritardo. Destinazione: Palermo. Visibilità ottima, viaggio tranquillo e regolare, aereo stabilizzato a 7600 metri in quota lungo la rotta assegnata: aerovia “AMBRA 13”. Tutto sembra tranquillo. L’ultimo contatto radio è con Roma controllo e la situazione è ancora regolare. Sono le 20:56, il comandante annuncia che non ci sono ritardi su Palermo e che pertanto il successivo contatto sarà con Raisi. Poi, alle 20:59:45, all’improvviso, senza lanciare alcun segnale d’allarme, il volo IH870 scompare dai radar e non risponde più ai contatti. Invano la torre di controllo dell’aeroporto di Palermo, dov’era atteso per le 21:13, reitera le chiamate. Altrettanto fa Roma. Invano. L’aereo DC-9 della compagnia ITAVIA è precipitato tra le isole di Ponza e Ustica, il punto “CONDOR”, inabissandosi nella cosiddetta “Fossa del Tirreno”, ove il fondale giunge a una profondità di oltre 3500 metri. Vi muoiono 81 persone. L’aereo è esploso in volo spaccandosi in due tronconi. Sull’accaduto furono date diverse versioni: prima fra tutte, quella del cedimento strutturale dando la colpa alla compagnia. L’ITAVIA era si in condizione di forte indebitamento e chiuse i battenti il dicembre dello stesso anno, ma, questa versione risultò da subito flebile, proprio a causa degli occultamenti e della movimentazione immediata delle alte cariche militari, che, non avrebbero proprio avuto ragion d’essere, se la causa fosse stata la cattiva manutenzione del velivolo. La seconda, fu un attentato terroristico, ovvero, una bomba a bordo, probabilmente situata nella toilette in coda dell’aereo. È indubbio che nel 1980 siamo in piena guerra fredda e che l’ipotesi d’un attentato sia plausibile. Ma, pur trovando tracce d’esplosivo, i rilevamenti porterebbero altrove, in particolare, perché gli indizi non porterebbero affatto a supportare un’esplosione dall’interno. La terza ipotesi fu un missile aria-aria, che, per errore, colpì l’aereo civile. Ma, anche qui, non furono mai ritrovati relitti d’un’arma simile. Sicuramente, l’attività aerea militare quel giorno era piuttosto intensa. Il DC-9 non volava solo. Un’intensa presenza di traffico aereo militare che fra silenzi e smentite, viene, però, inconfutabilmente confermata dai tangibili ritrovamenti che vennero alla luce anni dopo il tragico evento: tra il ’92 e il ’94. Questo metteva in evidenza, sempre più certa, la possibilità della collisione aerea. Numerosi gli articoli del periodo, molto interessanti, che v’invito a ricercare negli archivi on line.

È proprio quest’ultima versione che, il regista Renzo Martinelli prende in considerazione. Tre anni di lungo e meticoloso lavoro, a stretto contatto con due ingegneri aeronautici, durante i quali ha recuperato perizie, raccolto testimonianze, studiato le 5000 pagine dell’istruttoria del magistrato Rosario Priore, considerata chiusa nel 1999, ove, peraltro, vengono totalmente escluse le cause per cedimento strutturale e per esplosione interna. Per tre anni, Renzo Martinelli, ha disperatamente cercato, in giro per l’Europa, qualcuno che fosse disposto a produrre il suo film.

Con passione, determinazione e desiderio di verità, Renzo Martinelli, ce l’ha fatta. Nonostante le difficoltà e il budget limitato ha dato vita a una pellicola che è insieme denuncia e umanità, verità e “pietas”. Nella crudezza degli avvenimenti, riportati con lucidità quasi cronachistica, ritroviamo il pulsare delle emozioni delle vite vissute. Ero troppo piccola nel 1980 per ricordare gli avvenimenti, ne porto memoria per quello che accadde e si disse nei decenni successivi, ma sono uscita veramente scossa dalla sala. Piena d’interrogativi e con una gran voglia di sapere. Mi sono messa on line e ho cercato quello che i colleghi scrivevano nel 1980 e quello che successivamente fu scritto. V’invito, ancora, a informarvi, perché l’informazione rende liberi. V’invito a leggere, di nuovo, l’intervista al regista. V’invito, soprattutto, a non perdervi questo film, che non è fiction, neppure nel “privato”. Vi coinvolgerà, all’interno d’una cornice da favola di una fotografia che ci regala i panorami d’una natura straordinaria che vi commuoverà. Tutte riprese reali e forse per questo così pregnanti. Vi trascinerà dentro una delle realtà più oscure della storia italiana. Le scene di volo mi hanno particolarmente presa. Ho quasi potuto sentire la pressione della gravità. Una regia che veramente cura tutto, nei minimi dettagli.

A tutt’oggi, comunque, la strage di Ustica, resta uno dei grandi misteri italiani. Furono occultate e distrutte prove, come, peraltro, confermato dalla sentenza del procedimento penale che ne seguì. Innumerevoli le testimonianze date, poi confuse e poi ritrattate completamente. Due suicidi, sono stati correlati alla strage e appaiono sospetti: quello del maresciallo Dettori, presumibilmente in servizio, la notte del disastro aereo, al radar di Poggio Ballone in provincia di Grosseto e quello del maresciallo Parisi, che sarebbe stato di turno, invece, il giorno del 18 luglio 1980, data del presunto “incidente” del MIG libico a Timpa delle Magare sulla Sila. Sono moltissime le morti che Rosario Priore indicò come sospette, ma mai furono trovate prove a supporto. A tutt’oggi, sono molti gli interrogativi che restano aperti. A tutt’oggi, le vittime aspettano giustizia.

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Intervista a Renzo Martinelli. “Ustica: vi racconto cosa ho scoperto”

di Elisa Pedini – L’idea dell’intervista diretta al regista nasce dalla volontà di dare al pubblico una visione completa d’un film, dunque, non solo con l’occhio della critica, che riporta certi aspetti tecnici e le impressioni emotive che ho ricevuto nel momento in cui ho assistito alla proiezione; ma anche dal punto di vista di chi lo ha pensato e realizzato. Renzo Martinelli è un regista italiano, profondamente impegnato nella realtà della nostra terra e dei misteri, che, purtroppo, costellano le nostre cronache. Renzo Martinelli è un uomo di grande sensibilità e cultura, che non si ferma alle apparenze e usa la telecamera come strumento per vivisezionare la verità e il cinema come mezzo di divulgazione. Il suo desiderio di verità, il suo occhio clinico e la sua mente indagatrice li avevamo già apprezzati in film del valore di “Vajont”, o “Piazza delle Cinque Lune”. Ma, ora, lascio a lui, Renzo Martinelli, la parola, per parlarci di “Ustica”:

D: “Interessante la tematica scelta, che, peraltro, è tornata fortemente in auge proprio ultimamente. Hai affrontato: una mole di materiale informativo immensa e frammentaria, le migliaia di pagine dell’istruttoria, problemi economici e di produzione e tutto per realizzare questo film. Cosa ha determinato la scelta del soggetto? Qual è stato il fattore scatenante?”

R: “È il film che sceglie il regista e non il contrario, secondo me. Per esempio, mi trovavo a Erto per dei sopralluoghi per fare un film sui partigiani, quando arrivò un uomo in canottiera e bandana, era Mauro Corona. Mi parlò del disastro del Vajont. Mi portò nella sua bottega e mi diede anche un libro “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont.” (scritto nel 1963, solo nel 1983 un editore fu disposto a pubblicarlo, n.d.r.) di Tina Merlin, una giornalista che pubblicò moltissimi articoli per avvisare che la diga era pericolosa e che avrebbe causato la frana del monte Toc. Restò inascoltata (fu addirittura denunciata e processata per falso allarmismo, n.d.r.). Il monte franò. Perirono circa duemila persone. Così nacque il film “Vajont”. Per “Ustica” è accaduta la stessa cosa: il film ha trovato me. Due miei amici, ingegneri aeronautici, che sono poi quelli che mi hanno supportato per tutta la produzione, mi dissero che avevano molto materiale su Ustica. Lessi anche tutti i quotidiani che, a ridosso della strage, parlarono di collisione in volo. Ma, quattro giorni dopo, i servizi segreti erano già intervenuti mettendo in moto la cosiddetta “macchina della disinformazione”: ovvero, vennero avanzate tali e tante altre ipotesi che le acque si confusero completamente. Approfondii leggendomi tutti gli atti. Il film si basa su tutte testimonianze reali e spero che lo spunto venga raccolto da qualche magistrato per riaprire il caso.

D: “Tra fiction e realtà. Tutte le vicende private dei personaggi sono fiction?

R: “Il personaggio di Caterina Murino, Roberta Bellodi, è tratto da una persona esistente. Nella realtà è un papà, che ha perso la sua bambina nella tragedia. La sua piccola nuotava molto bene e lui s’è recato ogni giorno alla spiaggia, sperando di vederla tornare. Per tutela della sua privacy, ovviamente, il personaggio è stato cambiato. Il ruolo che interpreta Lubna Azbal, Valja, è totalmente inventato, serviva un testimone che andasse sul posto e vedesse cos’era accaduto. Il personaggio di Marco Leonardi, l’onorevole Corrado di Acquaformosa, è ugualmente di fantasia: serviva un uomo delle istituzioni che facesse da tramite tra Roma e il testimone.

D: “Relativamente al MIG-23: la fiction mette il ritrovamento del relitto e la ricerca della verità nelle mani d’una donna albanese. Come mai questa scelta?”

R: “Come si dice in gergo cinematografico, Valja nasconde dentro di sé un “fantasma”: ovvero, è il personaggio che da la motivazione personale. Lei ha avuto un’esperienza forte nella sua vita che l’ha condizionata, da cui, la sua reazione davanti alla strage. Relativamente alla scelta della nazionalità non c’è un motivo particolare. Semplicemente, a quei tempi, c’erano molte colonie albanesi in Calabria di gente che veniva a lavorare, quindi, la presenza della popolazione era molto alta.

D: “Il messaggio che viene ritrovato nel film: da dove nasce?”

R: “Dagli atti dell’istruttoria. Il messaggio è vero. Rosario Priore mette agli atti che venne ritrovata una carta aeronautica, tutta bruciacchiata, sulla quale si trovava un messaggio in arabo. Sempre agli atti viene riportata la convocazione d’un siriano nell’ufficio del generale Zeno Tascio (all’epoca dei fatti a capo del SIOS, i servizi segreti dell’aeronautica militare italiana, articoli reperibili on line n.d.r.) proprio per tradurre questo messaggio. Le parole che riporto nel film sono quelle degli atti. Il generale Tascio ritrattò tutto e il messaggio andò perduto. Infatti, all’estero, il film uscirà come “The missing paper” proprio perché, per il pubblico non-italiano, dare per titolo “Ustica” non avrebbe senso.

D: “Nella fiction abbiamo da un lato una Ragion di Stato, o meglio, una “ragion d’interesse” e dei militari sprezzanti e anche violenti, basti pensare alla reazione del soldato all’arrivo di Valja a Timpa delle Magare; dall’altro lato un militare libico con una coscienza e un’albanese che mette in gioco la sua vita per cercare la verità. Gli italiani, o tacciono, o intimano al silenzio, o agiscono su sprone esterno; ma di fatto, mai su iniziativa personale. Che lettura sottende tutto questo?”

R: “Si, Ustica è stata tutta una questione di ragion di stato. Due erano le grandi vergogne da tacere: la prima che, nonostante l’embargo americano, l’Italia permetteva il passaggio degli aerei libici usando aerei di linea italiani come scudo, la seconda che era accidentalmente implicato un aereo americano nella caduta del DC-9.
Relativamente agli italiani la visione è realistica. Oggi, il nostro, è divenuto un popolo d’opportunisti. Non c’è più indignazione. Non c’è più il senso della memoria. Si vive un hic et nunc che blocca l’azione. S’è perduto il passato e per conseguenza anche il futuro. A tal proposito è molto significativo un proverbio arabo, che cito: «Gli uomini somigliano più al loro tempo, che ai loro padri».

D: “Passiamo alla regia pura: veramente intensa, realistica, pregnante. Le scene di volo, in particolare, mi hanno davvero affascinata e so che hanno richiesto tre anni di duro lavoro in stretta collaborazione con due ingegneri aeronautici. Puoi spiegare al pubblico questo lavoro?”

R: “Certamente! Tutto il materiale doveva essere convertito in linguaggio cinematografico e soprattutto, doveva restare dentro tempi tollerabili dal pubblico. In questo caso abbiamo contenuto tutto in 104 minuti. Inoltre, il budget, già scarno, doveva essere rispettato. Le immagini digitali costano tantissimo e sono minime nel film. Le riprese sono tutte reali: del mare, delle montagne, delle nuvole e dei paesaggi. Le riprese nei velivoli sono tutte fatte dentro aerei veri, incluso un vero MIG-23. Quello che ho ricreato è una visione in soggettiva che desse allo spettatore gli occhi del pilota. Il sonoro, poi, amo curarlo moltissimo e gioca la sua parte nel dare il senso della verosimiglianza. Il suono deve essere avvolgente e totalizzante. Inoltre, distribuisco i suoni in maniera tale che seguano esattamente quello che avviene nella scena che lo spettatore sta guardando. Infine, la sceneggiatura poggia su tre passi fondamentali: il “set-up”, dove vengono presentati il protagonista, l’antagonista e la posta in gioco; la “zona centrale”, dove si sviluppano le vicende e la “conclusione”. La forza di “Ustica” è che ha un set-up molto rapido: in pochi minuti lo spettatore è completamente dentro alla storia.




XXI TRIENNALE: PRONTI, PARTENZA, VIA!

di Gabriele Antoninetti – Dal prossimo 2 aprile, a Milano, prenderà il via, dopo quasi vent’anni di assenza, una nuova edizione della Esposizione Triennale. La ventunesima, a essere precisi. Una storia che parte da lontano, a cominciare da quando, nel 1923, tra i mesi di maggio e ottobre, la prima “Mostra internazionale delle arti decorative” ebbe luogo non a Milano, bensì a Monza, presso il parco della Villa Reale. E dal capoluogo brianzolo si riparte anche questa volta, quasi a celebrare oppure, se vogliamo, a ipotetico ricollegarsi a ciò che è stato. Di fatto, tra le venti locations che saranno interessate all’imminente e nuovissimo evento – che, ricordiamolo, coinvolgerà tutta la città fino alla fine di settembre – oltre alla Villa di Monza ci saranno anche il palazzo di Giovanni Muzio, progettato fra gli anni 1931-1933 e sede stessa della Triennale, così come l’Accademia di Brera, la Fabbrica del Vapore di via Procaccini, il MUDEC di via Tortona, il Palazzo della Permanente di via Turati, l’Hangar Bicocca, il Campus del Politecnico, quello dello IULM, lo Spazio Oberdan, il Museo Diocesano, quello della Scienza e della Tecnica,  il pontiano grattacielo Pirelli ma anche, fra altri ancora, un’area dell’Expo ad hoc adibita. Quaranta i paesi partcipanti, dall’ Asia all’Africa fino al Canada, per non citare quelli europei, tutti accomunati dal filo rosso che farà da motto per questa edizione: Design after Design.

Precisa il comitato scientifico della Triennale, presieduto da Claudio De Albertis, che saranno toccate “Questioni chiave come la nuova drammaturgia del progetto, che consiste soprattutto nella sua capacità di confrontarsi con i temi antropologici che la modernità classica ha escluso dalle sue competenze (la morte, il sacro, l’Eros, il destino, le tradizioni, la storia); la questione del genere nella progettazione; l’impatto della globalizzazione sul design; le trasformazioni conseguenti la crisi del 2008 e l’arrivo del XXI secolo; la relazione tra città e design; i rapporti tra design e accessibilità delle nuove tecnologie dell’informazione; i rapporti tra design e artigianato.”

Se per il momento non sapete ancora orientarvi su quale mostra scegliere di visitare tra le tante in programma, basti dire che davvero c’è, come si dice, l’imbarazzo della scelta. Cinque quelle in Triennale; si parte da “Women in Italian Design” con la curatela di Silvana Annichiarico, “Brilliant! I futuri del gioiello italiano” di Alba Cappellieri, “Neo Preistoria – 100 verbi” di Andrea Branzi e Kenya Hara, “Stanze. Altre filosofie dell’abitare” a cura di Beppe Finessi, per arrivare a “La Metropoli Multietnica” di Andrea Branzi. Altre mostre ancora – undici – sparse per tutto il tessuto urbano di Milano, senza contare poi le altre otto presenti nei luoghi extra urbani sopra citati.

Se ancora di numeri e nomi non siete stanchi, basto io a dare il colpo di grazia; non perdetevi nulla nemmeno della sezione “Eventi e partecipazioni”, suddivisi in vari giorni tra concerti, conferenze, proiezioni, festival, laboratori, convegni e spettacoli per un totale di…quarantuno! Se tuttora conservate memoria, magari non felicissima, di quella che venne definita “Milano da bere”, ora godetevi questa nuova Milano, tutta da vivere.




Le sperimentazioni su materia e materiali in esposizione a Milano

Materia e materiali: la linea del pensiero, ideale anteprima del progetto organizzato dallo spazio d’arte e design milanese per il Fuorisalone del Mobile – Milan Design Week di “zona Tortona” (aprile 2016), è il nuovo evento organizzato e proposto da Made4Art. Lo special art project vuole sottolineare l’importanza della ricerca tecnica e della sperimentazione sulla materia e sui materiali nel design e in arte, ambiti della creatività umana sempre più vicini e dai confini sempre meno definiti.

Il progetto espositivo, che vede come protagonisti gli artisti Emilio Belotti, Marina Berra, Fiorenza Bertelli e Martino Brivio, nasce dalla volontà di presentare al pubblico alcuni significativi risultati di questa ricerca: ciascun artista, sulla base delle proprie specificità artistiche e tecniche, ha interpretato il tema seguendo una propria personale idea di progettualità.

Gli ideatori del progetto, Vittorio Schieroni ed Elena Amodeo, hanno studiato per la presente esposizione un allestimento basato su richiami, analogie e contrasti, che trova la propria forza nell’eterogeneità dell’insieme. Dalle pitture e sculture polimateriche di Emilio Belotti, tecniche miste che ricorrono a inclusioni di materiali quali polistirolo, cartone, legno e ferro, alla serie di lavori su carta di Martino Brivio, supporto privilegiato per le sue delicate composizioni in bilico tra astrazione e figurazione, dalle opere pittoriche di Fiorenza Bertelli, dove le linee e i colori si fondono per creare inaspettate armonie e suggerire profili architettonici, ai “Materici” di Marina Berra, tele ricche di energia e vitalità con la forza della loro presenza cromatica. Quattro interpretazioni diverse dello stesso tema, tra arte e design, dove la presenza della linea, del tratto, del segno diventa simbolo dell’Idea, dei percorsi della creatività e delle evoluzioni del pensiero.

Materia e materiali, terza tappa del progetto di indagine su questo tema condotto da Made4Art, vuole essere un viaggio di scoperta all’interno del progetto e dell’idea che stanno alla base della realizzazione di un’opera d’arte, nei colori e nella materia pittorica, nei diversi materiali naturali e artificiali che ci circondano.

La mostra, con data di inaugurazione venerdì 25 marzo alle ore 18.30, rimarrà aperta al pubblico fino al 1 aprile 2016.

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Materia e materiali: la linea del pensiero


Emilio Belotti, Marina Berra, Fiorenza Bertelli, Martino Brivio


Art Project Made4Art
25 marzo – 1 aprile 2016

Inaugurazione venerdì 25 marzo, ore 18.30

Lunedì ore 16 – 19, martedì – venerdì ore 10 – 13 e 16 – 19, sabato su appuntamento

M4A – MADE4ART

di Elena Amodeo e Vittorio Schieroni

Spazio, comunicazione e servizi per l’arte e la cultura

Via Voghera 14 – ingresso da Via Cerano, 20144 Milano

www.made4art.it – info@made4art.it – t. +39.02.39813872

Un progetto M4E – MADE4EXPO

Media partner Espoarte




“Cernusco: 50 anni di persone, 50 anni di storie” in 98′ minuti

di Elisa Pedini – Ci troviamo a Cernusco sul Naviglio, dove, il novembre 2015, la biblioteca civica “Lino Penati” ha compiuto cinquant’anni. Le iniziative del comune si sono protratte fino a marzo 2016 per San Giuseppe, patrono del paese. Il clou, è stato venerdì 18 marzo con i servizi bibliotecari prolungati fino alle 23 e la trasmissione, nella sala conferenze interna, d’un documentario di 98′: “Una biblioteca a Cernusco: 50 anni di persone, 50 anni di storie”, a cura del regista locale Rino Cacciola.

L’aspetto che amo di più del mio lavoro è la possibilità di dare informazione, che sia il più chiara e vera possibile. Questo mi spinge a dare voce a qualsiasi iniziativa cinematografica che mi venga segnalata, senza badare se parte da una grande casa di produzione o da una piccola amministrazione locale. Succede però, che, non sempre, ci si trovi di fronte a un prodotto di valore. Purtroppo, è questo il caso. Ma, il mio lavoro, è anche questo. Cercherò, pertanto, di dare un taglio anche “di costume” alla mia recensione per darne una visione globale perché, comunque, c’è sempre un lavoro dietro che rispetto.

Le piccole realtà locali esaltano, giustamente, quel che hanno ed essendo una piccola iniziativa, volevo curiosità interessanti da passare al pubblico: in primis, come si faccia a fare 98′ di documentario su una biblioteca di paese. Prima della proiezione, approccio il regista per una piccola intervista, per comprenderne la nascita, le problematiche incontrate e lo sviluppo. Rino Cacciola è molto imbarazzato, ma, nel mentre, piomba una signora, asserendo di conoscermi. Devo ammettere che resto interdetta. Anch’io so chi sia, dato che, peraltro, è una dipendente statale, ma mai mi permetterei d’asserire di conoscerla. Prendo l’atto come una falsa ostentazione e taccio, ma è lei stessa a darmi la chiave di lettura del suo comportamento con la domanda successiva “che fai qui?”. Ecco, lì mi è chiaro che non è ostentazione, semplicemente ignora la differenza tra “il sapere come si chiama una persona” e il “conoscere una persona”. Abbozzo un sorriso e affermo anch’io di conoscerla, la signora trotta via felice e soprattutto, il regista s’ammorbidisce. Le realtà locali sono sempre folkloristiche!

Finalmente, riesco a fare il mio lavoro. Alla seconda domanda, Rino Cacciola è, ormai, a suo agio. S’illumina. I suoi occhi brillano pieni d’entusiasmo. Vibra di passione. È lì che decido che di lui, avrei scritto. Ecco, le sue parole:

D: “Senti Rino, ma come nasce l’idea, quanto meno particolare, di fare un documentario su una biblioteca civica moderna?”

R: “L’idea non è nata da me. L’amministrazione comunale mi ha contattato per produrre un corto sui cinquant’anni della biblioteca civica, fondata nel 1965.”

D: “Un corto?! No scusa, ma allora come ci siamo arrivati a 98′?”

R: “Eh si, in effetti! È partito con l’idea d’un corto, pensandolo come un documentario d’interviste. Raccogliendo le testimonianze dei bibliotecari attuali e dei vecchi impiegati in pensione, mi resi conto d’avere in mano un contenitore di storie, che mi consentivano di raccontare il territorio attraverso i personaggi: ovvero, di raccontare la città, mettendone in evidenza la cultura. Spunti questi, che potevano diventare un lungometraggio. Così, ho presentato all’amministrazione un lavoro di 38′ e con non poche difficoltà, li ho convinti ad allungarlo a 98′. Tutto il lavoro di raccolta materiale è durato tre mesi, ma poi il montaggio e la versione definitiva sono avvenuti in poco tempo, perché l’avallo ai 98′ minuti l’ho avuto a ridosso della scadenza. Tanto che il prodotto finito, è stato visto dall’amministrazione il giorno stesso della presentazione al pubblico.”

D: “Debbo ammettere d’ammirare la tua passione. Immagino che sia stata durissima: trovare le persone, intervistarle, raccogliere tutto il materiale, selezionarlo e montarlo in modo che avesse senso. Che problematiche hai esattamente affrontato in tutto questo percorso?”

R: “Si è stato un lavoro duro, ma in realtà, una volta decisa l’impostazione, non è stato difficile. La vera grossa difficoltà è stata proprio con l’amministrazione nel far accettare l’idea d’un lungometraggio e della possibilità di raccontare la realtà cernuschese, attraverso l’evento centrale. Ho incontrato una forte diffidenza nel linguaggio del cinema.”

Mentre penso, tra me e me, che non è molto logico commissionare un documentario e poi non avere fiducia nel linguaggio del cinema, entra Comincini, il sindaco del paese. Lo invitiamo a prendere parte all’intervista; ma, lui risponde: “Eh se devo proprio, sennò…”. No, a me, il signor sindaco, non deve proprio nulla, ma al dovere civico, magari si, dato che è un dipendente statale, siamo in un luogo pubblico, l’iniziativa è comunale; magari, forse, sarebbe carino spiegare all’opinione pubblica come ha gestito, anche economicamente, l’evento. Mi dispiace per il pubblico, ma, purtroppo, non sono in grado di dare queste informazioni. Soprattutto, alla luce del fatto che il documentario, dal punto di vista valoriale, mi ha lasciata parecchio perplessa. Per 98′ ho lottato contro la noia. Sentire gente sconosciuta, senza didascalia esplicativa alcuna, che mi racconta i fatti suoi, non mi ha affatto interessata, anzi. Per contro, una critica è composta anche d’un aspetto tecnico, dove, invece, la passione di Rino Cacciola fa calmierare il giudizio. Il montaggio è curato. La consequenzialità è logica e compatta. Il coraggio di sfidarsi nel proporre un argomento, piuttosto bizzarro, è sicuramente degno di nota.