di Emanuele Domenico Vicini – Cade proprio in questi giorni l’anniversario canonico e di tradizione per la nascita della Scapigliatura lombarda: il 6 febbraio. Il riferimento è al titolo del romanzo manifesto di Cletto Arrighi (al secolo Carlo Righetti) La Scapigliatura e il 6 febbraio, che racconta del giovane Emilio Digliani, focoso patriota nella Milano del 1853, destinato a un amore infelice, alla ribellione contro il perbenismo borghese e alla morte contro l’invasore austriaco.
È lui il prototipo dello scapigliato, «pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti», come recita l’Introduzione al romanzo. Sono i Bohémien all’italiana, giovani di classi sociali medio alte che, per posa o per profonda convinzione, scelgono una vita di opposizione al mondo di valori sociali da cui provengono e diventano artisti “contro”.
A celebrare l’originalità e l’attualità di questo movimento, il prossimo 26 febbraio si inaugura alle Scuderie del Castello Visconteo di Pavia una delle mostre più attese del 2016, Tranquillo Cremona e la Scapigliatura, aperta fino al 5 giugno. L’autorevolezza scientifica dei musei pavesi e la capacità imprenditoriale di ViDi, società provata che di fatto realizza la mostra, insieme, hanno dato vita a molti progetti interessanti (l’ultimo è stata la mostra dedicata ai Macchiaioli, sempre nel museo pavese, nel 2015).
Ora il nuovo tema è la Scapigliatura, il movimento tutto lombardo che nella seconda metà del XIX secolo ha inaugurato un cammino di rinnovamento della cultura italiana, sfociato non molti anni dopo nel fenomeno dell’avanguardia futurista.
A rendere sicuramente interessante l’evento è la scelta di proporre un percorso “guidato” dalle parole di Tranquillo Cremona, pavese, il pittore scapigliato per eccellenza, che ha lasciato, oltre a un catalogo di opere pittoriche di grandissimo fascino, anche molti scritti che raccontano le impressioni, le emozioni, la voglia di essere nuovi, diversi alternativi, di quel gruppo di giovani artisti, pittori, letterati e musicisti che scelsero, a metà tra goliardia e provocazione di chiamarsi scapigliati.
La condizione di ribellione che anima il gruppo scapigliato è prima di tutto artistica e letteraria e si radica molto in profondità. Essa trae alimento da radici politiche e sociali drammaticamente confitte nell’humus risorgimentale. Quella che era parsa un’epopea gloriosa si rivelava un fallimento, specie agli occhi di chi vi aveva visto l’inizio di una nuova era. L’arretratezza economica, l’analfabetismo, il brigantaggio: segni evidenti di un’Italia unita dalle cancellerie ma non nella sostanza civile.
Essere scapigliati quindi, nella Milano degli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento significa opporsi all’imborghesimento, al perbenismo, alle smancerie salottiere; significa scegliere atteggiamenti insolenti e guasconi, giocare sul sottile filo del maledettismo ispirato dal maestro Baudelaire e indulgere in comportamenti tra il goliardico e l’antisociale, fino alla scelta di uno stile di vita trasandato, fatto di abiti anticonformisti e barbe fluenti.
Certo, oggi la pittura scapigliata tutto ci può sembrare tranne che violentemente di opposizione: ritratti, paesaggi, scene d’amore sono i temi di questi artisti. Ma nel contesto della seconda metà dell’Ottocento, quando in altre città d’Italia trionfa la pittura che in gran pompa celebra l’unificazione nazionale, scegliere di abbandonare del tutto il tema storico politico e soprattutto di superare ogni forma di tecnica accademica che ancora era vincente negli ambienti della cultura ufficiale, significava davvero voler scuotere dalle fondamenta abitudini e tradizioni artistiche consolidate e irrigidite da una prassi rigorosa.
Tra i grandi scapigliati ricordiamo subito Daniele Ranzoni, che nell’arte del ritratto sociale raggiunge una leggerezza e una luminosità trepidante davvero uniche. Le sue opere raccontano il bel mondo della upper class lombarda del tempo. I Troubetzkoy, i Pisani Dossi, i De Lorenzi Sordelli sono i suoi committenti. Bambini e giovani fanciulle i suoi soggetti. Dalle sue tele traspaiono corpi vibranti, colti in una posa intensa ma sfuggente, elaborata ma sentitamente naturale. Gli sguardi, le angolazioni, le delicatissime ombre, che trascolorano da fondi scuri a primi piani di un candore lunare, raccontano di animi malinconici, pervasi dal dubbio, dall’inquietudine, come colti da un senso della decadenza che ci porta ormai alle soglie della modernità novecentesca. Le sue protagoniste anticipano la complessità delle figure femminili più moderne, colte nella loro contraddizione: più Carlotte di sapore gozzaniano che femmes fatales dannunziane.
Tranquillo Cremona, pavese di nascita, educato a Venezia e poi a Brera, è il pittore di punta del gruppo, non tanto in temi un po’ melodrammatici, tanto carichi da essere – forse involontariamente – comici, come L’edera o Attrazione, quanto nelle scelte di stile. La materia è leggera, il colore diffuso, tutto è sfocato in una luce iridescente che suggerisce nella vibrazione continua i risultati che alcuni anni dopo daranno vita alla parabola impressionista. Persone cose e ambiente si fondono nelle brillanti sfumature dell’atmosfera, anticipando in modo mirabile le ricerche divisioniste e futuriste (proprio milanesi).
Il suo capolavoro è sicuramente il Ritratto di Nicola Massa, fascinoso giovanotto del bel mondo, in realtà ormai riconosciuto dalla critica come Guido Pisani Dossi (e scambiato fin all’inizio con il cugino Nicola Massa, a lui molto somigliante) attivo scapigliato, insieme con i fratelli Alberto e Carlo.
Nettissima è l’originalità della tela. Il bel dandy guarda con sfrontatezza verso di noi, oltre noi, l’occhio semichiuso, forse annebbiato da una vita di mondanità, la sigaretta stanca nella mano sinistra, l’abito di luminoso velluto nero e il corpo adagiato mollemente su una seta cangiante.
La pennellata sfatta, composta nei passaggi di tono come piani di luce, conferisce un senso di provvisorietà, di precarietà, nel quale cogliamo tutta la consapevolezza della caducità di un mondo di piaceri e leggerezza. Non a caso questo ritratto è anche diventato copertina per un’edizione italiana del Ritratto di Dorian Gray. Nicola Massa non partecipa della stessa perversa fascinazione del personaggio di Wilde, ma ne condivide l’alterigia, il senso del bello e la malcelata tristezza.
Non possiamo dimenticare, e la mostra ci aiuta molto bene, che la Scapigiatura è stata anche scultura e musica, in nome di una unità delle arti, predicata dai protagonisti di questo movimento, concetto potentemente originale che troverà eco solo nelle sperimentazioni Jugendstil viennesi di primissimo novecento.
Se la pittura ha gioco facile nel disfare la materia in luce e colore, molto più complesso è il discorso scultoreo dove domina la solidità del metallo.
Giuseppe Grandi, capofila degli scultori scapigliati, sa imprimere ai suoi bronzi un modellato vibrante, pittorico, fatto di pieni e vuoti leggerissimi, di increspature sottili che generano un movimento luminoso di grande efficacia.
Il suo capolavoro è il Monumento alle Cinque Giornate di Milano, realizzato tra il 1881 e il 1894 per Porta Vittoria e posto nella piazza omonima, splendido esempio di scultura che vibra come pittura.
Nelle Note azzurre, diario funambolico che lo scapigliato Carlo Dossi tiene tra il 1870 e il 1907, si narra che Grandi si fosse procurato un’aquila e un leone in carne e ossa come modelli vivi e veri per il suo monumento: coup de théâtre in pieno stile scapigliato e geniale intuizione sul rapporto tra arte e realtà.
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Tranquillo Cremona e la Scapigliatura
dal 26 febbraio 2016 al 5 giugno 2016
Scuderie del Castello Visconteo di Pavia