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Aspettando Kinky Boots Italia: intervista a Simon-Anthony Rhoden, Lola nello show UK

È vero, siamo nel pieno delle vacanze estive ma come addolcire l’idea del rientro? Per gli amanti del musical la risposta è semplice: l’autunno infatti porta con sé il debutto di un titolo importante, Kinky Boots con la regia di Claudio Insegno al Teatro Nuovo di Milano.

Kinky Boots, basato sull’omonimo film del 2005, racconta la storia del giovane Charlie Price che eredita dal padre la fabbrica di scarpe di famiglia, ormai ridotta sul lastrico. Per non licenziare i fedeli dipendenti e risollevare le sorti dell’azienda, Charlie capisce che deve assolutamente diversificare la sua produzione ma serve un’idea straordinaria. E l’idea arriva per caso: una sera Charlie assiste allo spettacolo di Lola, una favolosa drag queen che, per esigenze sceniche, ha bisogno di nuovi stivali con tacchi forti e robusti.

La musica e i testi del musical sono scritti dalla cantante icona degli anni ottanta Cyndi Lauper mentre il libretto è firmato da Harvey Fierstein.

Il musical ha debuttato a Broadway nel 2013 aggiudicandosi sei premi alla 67ª edizione dei Tony Awards, tra cui miglior musical e miglior colonna sonora. Nel 2015 ha debuttato a Londra con grande successo di pubblico e di critica.

In attesa della versione italiana di questo straordinario spettacolo abbiamo intervistato il performer Simon-Anthony Rhoden che al teatro Adelphi di Londra interpreta il ruolo della meravigliosa Lola.

 

Come ti sei avvicinato al personaggio di Lola?

Quando ho letto per la prima volta il personaggio, Lola ha parlato a me come persona e come attore. Il viaggio che percorre, la sua stessa storia, sono profondamente collegati con me. Sono entrato in rapporto con il personaggio di Lola anche perché sono stato così fortunato da vederlo interpretato da Matt Henry, quando ho cominciato ad essere il suo sostituto in teatro. Da allora mi sono sempre chiesto come avrei interpretato il personaggio se mai ne avessi avuto l’opportunità.

Conoscevi il film prima di studiare il musical?

Non sapevo nulla dello show o del film finché non ho fatto l’audizione. Non ho mai avuto il tempo materiale di vedere il film. Non appena sono stato chiamato ho incominciato a fare tutte le ricerche che potevo. Credo che l’interpretazione di Chiwetel Ejiofor sia brillante. All’inizio di questo viaggio mi sono più volte riferito al film per confrontarmi su alcune scene. Lo schermo e il palcoscenico sono però due spazi completamente diversi e quello che si recita al cinema è diverso da quello che si vede sul palco. Comunque un’ispirazione è sempre utile.

Lola è un ruolo potente. Quanto è rilevante una voce importante come la tua nell’interpretazione di questa parte?

Non è fondamentale avere una voce grande come la mia. É invece fondamentale cantare le canzoni così come sono state scritte perché c’è una ragione. Chiunque reciti la parte di Lola darà la propria interpretazione ricordando sempre però di cercare in essa la verità. Il personaggio è scritto così bene che un attore non dovrebbe essere spaventato dalla sua complessità.

Che cosa significa di Kinky Boots oggi?

Il significato di Kinky Boots oggi trascende i valori della comunità LGBTQ e ognuno si può riconoscere in questo show. Il messaggio chiave è che puoi cambiare il mondo se cambi la tua mentalità. E questo possiamo metterlo in pratica tutti ogni giorno.

Hai qualche consiglio o suggerimento per il tuo collega italiano che sarà Lola il prossimo autunno?

Il mio consiglio è di non avere paura di dare una interpretazione. Il personaggio è scritto così bene che basta essere sinceri, raccontare la storia e divertirsi. Io mi sono ispirato anche ai miti della mia infanzia, le DIVAS. Consiglio a tutti di fare riferimento alle proprie esperienze di crescita.

Kinky Boots a Londra sta per chiudere. Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Ci sono alcuni progetti all’orizzonte ma non essendoci conferme preferisco non parlarne. Mi dispiace che Kinky Boots chiuda perché penso che uno show del genere superi l’esame del tempo, specialmente nel West End.

 

WAITING FOR KINKY BOOTS ITALY: INTERVIEW WITH SIMON-ANTHONY RHODEN, LOLA IN THE UK SHOW

It is true, we are in the height of the summer, but how can we come back happily from holidays? For Italian musical’s lovers, there is no doubt: Autumn brings one of the most exciting debuts: the Italian version of Kinky Boots, directed by Claudio Insegno.

Kinky Boots, based on the 2005 movie, tells the story of Charlie Price, who has inherited a nearly bankrupted shoe factory from his father. Charlie has to come up with a brilliant plan to keep his factory afloat. A chance meeting with drag queen Lola ends in an idea to keep the doors open: fabulous heels for women who just happen to be men. What Lola wants is “two-and-a-half feet of irresistible tubular sex” that won’t break under her body weight.

The 1980’s pop icon Cyndi Lauper-penned musical, with book by Harvey Fierstein, opened in Broadway in 2013. The production earned 6 Tony Awards, including Best Musical and Best Score.

In 2015 it opened in London, surpassing its rivals with audiences in weekly box office gross.

While the Italian version of this stunning musical is on its way, we have interviewed Simon-Anthony Rhoden, who is Lola the amazing drag-queen on the stage of the Adelphi Theatre in London. 

How did you become familiar with the character of Lola?

When I first read for the character Lola it spoke to me as a person as well as an actor. The journey she goes on and the story I get to tell really connected with me. I became familiar with it also because I was fortunate enough to watch the role be played by Matt Henry every night as I started as a swing/understudy on Kinky Boots UK. I always wondered how I’d play the part if ever I got the chance. 

Did you know the film before studying the musical?

I knew nothing about the show or the film until I had to audition for it. I remember always meaning to go watch the film but never making the time. But once I got the call, I did as much research as I possibly could. I think that Chiwetel Ejiofor’s interpretation of the character is brilliant. In the beginning of my journey playing the role I would often go back and refer to the movie if I was feeling unsure about a particular scene or action. The only difference is, the stage is a completely different beast to the screen and so something that is played/read for screen will not always be seen/read from the stage. But it is always good to have a little inspiration. 

Lola is a powerful role. How crucial is a powerful voice like yours when playing this part?

It is not crucial to have a big voice like mine at all. It is crucial to be able to sing the songs however, as they were written that way for a reason. But whoever plays the role of Lola should do their own interpretation of the role as well as remembering to always look for the truth in it. The character is written so well and so an actor shouldn’t be scared of the complexities within the role. 

What’s the meaning of Kinky Boots today?

The meaning of Kinky Boots today transcends the LGBTQ community in that everyone can learn from this show no matter what walk of life. The key message is “You change the world when you change your mind” and that is something we can all practice and remind ourselves everyday. 

Do you have any suggestions, any pieces of advice for your Italian colleague who will be playing the part next Autumn?

My advice is don’t be afraid of your own interpretation of this role. It is written so well that all you need to do is be truthful, tell the story and have fun. I also like to use some of my own childhood DIVAS as inspiration too, so whoever they were to you growing up, use them!

In London Kinky Boots is closing soon. What are your new projects?

There are a few projects in the pipe line but as nothing is confirmed and cannot speak about that. I do think it is sad that Kinky Boots UK is closing as I would like to think that a show like this would stand the test of time, especially in its home in the west end.




Il Maestro Simone Di Crescenzo racconta la musica di Gioacchino Rossini

La  quarantaquattresima edizione Festival della Valle d’Itria, la manifestazione che celebra il Belcanto, non poteva non festeggiare il centocinquantesimo anniversario della morte di Gioacchino Rossini, il Cigno di Pesaro.

Oltre a un originale allestimento del Barbiere di Siviglia, il Festival propone la Soirée Rossini, un concerto celebrativo del compositore, con un cast internazionale di grande caratura: il violinista Yury Revich, il pianista Simone Di Crescenzo, la soprano Maria Aleida, il clarinettista Nicolai Pfeffer e il basso Michele Pertusi.

La Soirée avrà luogo il 18 luglio 2018, alle ore 21, nella prestigiosa cornice del Chiostro di San Domenico a Martina Franca.

Abbiamo incontrato il Maestro Simone Di Crescenzo, pianista e interprete raffinato, apprezzato a livello internazionale, che ci ha raccontato il suo rapporto con la musica rossiniana, con il Belcanto, e ci ha spiegato la Soirée Rossini.

Che rapporto ha con Rossini e la sua musica?

Con Rossini ho un rapporto assolutamente speciale ed esiste un particolare feeling fra me e la sua musica. Quando leggo uno spartito rossiniano, tutto mi sembra così familiare e naturale, come se lo avessi già studiato in precedenza. Ho scoperto Rossini circa 10 anni fa, quando avevo già compiuto i miei studi. È stato un amore che è cresciuto nel tempo, quando ho approfondito questo geniale compositore non solo da un punto di vista esecutivo ma anche storico-musicologico. Come dico sempre, purtroppo la stragrande maggioranza del pubblico conosce Rossini solo attraverso il teatro comico. Credo invece che sia nella produzione cosiddetta ‘seria’ che possiamo trovare la completezza di un autore che ha rappresentato l’apice ultimo e assoluto della grande stagione del Belcanto italiano. Io, nello specifico, mi occupo della sua produzione da camera, che è arrivata in un momento di grande maturità nella vita del Maestro, quando ormai era lontano dalle commissioni dei teatri e dalle ambasce che preoccupano un giovane compositore. Si tratta quindi di un repertorio sublime, pieno di raffinatezze, di dettagli, di sfumature che permettono all’interprete di creare qualcosa di davvero speciale nell’esecuzione. 

Si aspettava di partecipare ad un concerto in occasione dei 150 anni dalla morte dell’artista?

Per le celebrazioni dell’anniversario dei 150 anni dalla morte di Rossini mi sono già esibito lo scorso marzo a Firenze accanto alla super star Sumi Jo. È stata per me una piacevole sorpresa ricevere l’invito del direttore artistico Alberto Triola di creare un programma particolare per il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca. Insieme abbiamo riunito per l’occasione un cast di artisti di fama internazionale, quali il giovane virtuoso del violino Yury Revich, già artista dell’anno nel 2015 e vincitore del prestigioso premio ECHO Klassik, il clarinettista Nicolai Pfeffer, raffinato interprete del repertorio romantico, il soprano Maria Aleida, straordinaria vocalista specializzata nel repertorio di coloratura e il noto basso Michele Pertusi, al quale verrà assegnato nel corso della serata il premio Belcanto “R. Celletti” 2018. Sono quindi onorato ed entusiasta di partecipare alle celebrazioni rossiniane proprio in quel Festival dove ben 44 anni fa iniziò la cosiddetta ‘Belcanto Renaissance’ grazie a personaggi come Paolo Grassi, Rodolfo Celletti e Alberto Zedda, a cui andranno sempre la mia stima ed ammirazione. 

Quali sono le peculiarità del programma che proporrete il prossimo 18 luglio?

Il programma musicale nasce dall’idea di ricreare uno di quei concerti salottieri di inizio ‘800 in cui grandi musicisti si esibivano accanto alle primedonne dell’epoca creando addirittura delle gare di virtuosismo a colpi di scale, arpeggi, gorgheggi e picchettati. Un repertorio altamente godibile per il pubblico, poiché nasceva proprio con lo scopo di intrattenere. Leggendarie rimasero infatti serate in cui Maria Malibran, Charles August de Bériot, Sigismund Thalberg, Nicolò Paganini, allietavano i loro illustri ospiti con brani originali di Rossini e trascrizioni ispirate alle composizioni di colui che veniva considerato il ‘Nume tutelare’ della musica. Per la parte strumentale, eseguirò con Yury Revich due trascrizioni da Aureliano in Palmira e Armida di De Bériot, le due grandi trascrizioni di bravura di Paganini da La Cenerentola e Tancredi e l’Elegia Un mot à Paganini di Rossini; mentre con Nicolai Pfeffer suonerò una trascrizione di alto virtuosismo dal Maometto II e una da Il Barbiere di Siviglia per clarinetto e pianoforte. Per quanto riguarda la parte vocale, invece, eseguirò con Maria Aleida alcune Arie da camera tratte dalle Soirées Musicales e dai Péchés de vieillesse di Rossini e la grande scena di Zenobia tratta dall’Aureliano in Palmira. Con Michele Pertusi faremo un cammeo dal Maometto II. 

Come si inserisce il concerto nel Festival Valle d’Itria che punta su un genere musicale non di repertorio?

Il concerto si inserisce perfettamente nella linea del Festival, ovvero nella riscoperta del repertorio meno frequentato, in particolar modo del Belcanto. Il Festival della Valle d’Itria rappresenta un fiore all’occhiello nella programmazione estiva italiana ed è uno dei pochi Festival al mondo ad avere come missione la divulgazione e la promozione di capolavori poco conosciuti dal grande pubblico. Direi che con queste premesse la realtà artistica di Martina Franca diventa non solo ‘fare spettacolo’, ma ‘fare cultura’ in senso lato, come valorizzazione del nostro immenso patrimonio artistico, degno di essere apprezzato e divulgato. 

Aveva già collaborato con gli artisti con cui farà il concerto?

Conosco Maria Aleida da molti anni, da quando fece il suo debutto italiano proprio a Martina Franca e ho seguito la sua carriera in questo periodo. Con Yury Revich collaboro in maniera stabile e abbiamo insieme diversi progetti per il futuro; mentre con Nicolai Pfeffer non ho mai suonato, questo sarà il nostro debutto italiano, ma anche con lui ho diversi progetti in programmazione. Sarà la prima volta che accompagnerò Michele Pertusi, e sarà per me un grande onore. 

Che rapporto c’è tra queste perle rare che porta nel concerto e le opere invece più famose e conosciute di Rossini?

Come ho già detto, la maggiore produzione cameristica rossiniana risale ad un periodo successivo alla composizione di opere liriche, quindi di fatto, tranne in alcuni casi, non c’è un rapporto diretto fra le Arie da camera e le opere più popolari. Un caso a parte rappresentano invece le trascrizioni che altri compositori hanno realizzato partendo proprio da celebri melodie presenti nelle opere del ‘Cigno di Pesaro’. Intorno agli anni Trenta dell’800 Rossini era l’autore più popolare: tutti conoscevano “Dal tuo stellato soglio” oppure “Di tanti palpiti”: possiamo pensare a ciò che oggi accade con “Va pensiero” di Verdi o “Nessun Dorma” di Puccini. Mi sembra quindi molto naturale che si utilizzassero proprio fonti rossiniane per realizzare variazioni di bravura e di grande virtuosismo. 

Questi pezzi così rari verranno da voi incisi?

Ci sono dei progetti discografici con questo repertorio, soprattutto con l’etichetta Concerto Classics, con la quale mi dedicherò proprio alla produzione italiana da camera e per tastiera. Ma su questo non posso anticipare ancora nulla, invito i lettori a seguire i miei canali social, dove costantemente vengono annunciati i progetti in uscita, sia concertistici che discografici. 

Quali progetti l’aspettano dopo questo evento?

Dopo questo evento mi aspetta un breve periodo di vacanza e, spero, di riposo. Ma già dalla metà di agosto inizierò a preparare un progetto discografico di musica vocale da camera, che inciderò questo autunno con due note cantanti italiane, di cui non posso ancora rivelare i dettagli. A seguire alcuni concerti con Yury Revich in Italia e all’estero. 

Per la foto si ringraziano:

Photo Credit: Mirco Panaccio

Location: Conservatorio “L. D’Annunzio” – Pescara 

Outfit: Capuzzi Moda 

Hair stylist: Graziano Marcovecchio




Festival della Valle d’Itria: intervista al direttore artistico Alberto Triola

Dal 13 luglio al 4 agosto 2018 torna uno degli eventi estivi più attesi per gli amanti dell’opera e della musica classica: il Festival della Valle d’Itria. Nella suggestiva e affascinante cornice di Martina Franca vanno in scena quattro secoli di teatro musicale, con grande attenzione al barocco, e la partecipazione di artisti di fama internazionale.

Abbiamo incontrato il direttore artistico del Festival, Alberto Triola, per scoprire tutte le peculiarità di questo grande evento e le novità che ha in serbo questa edizione.

Presentiamo questo Festival, giunto alla sua 44^ edizione.

Il Festival Valle d’Itria è un unicum nel suo genere in Italia. L’ambito di repertorio e il baricentro delle proposte culturali su cui il Festival si concentra è quello del belcanto italiano, riallacciandosi alle ricerche, alle proposte, agli studi fatti da Rodolfo Celletti a partire dagli anni ‘70 e proseguiti poi anche negli anni ‘80. Oggi quando si parla di “belcanto renaissance” si parla di Martina Franca come laboratorio di incubazione di quel tipo di ricerca e di riproposta, con opere e produzioni e messe in scena che oggi sembrano normali ma che negli anni Settanta erano poco praticate. Alberto Zedda, che fu legato al Festival di Martina Franca, ricoprendo anche la carica di direttore musicale nei primi anni del Festival, ricordava sempre che non sarebbe nato il Rossini Opera Festival, monografico su Rossini, senza l’esperienza di Martina Franca. Nel corso dei decenni questo Festival ha ampliato i propri ambiti. Pur mantenendo come baricentro il belcanto italiano, ha aperto dei filoni di approfondimento sul teatro musicale del ‘600 e sul ‘900. Questo soprattutto negli ultimi dieci anni, partendo dalla convinzione che un festival di ricerca non può considerarsi completo se non accende un interesse particolare nei confronti della creatività contemporanea. Entriamo subito in medias res, col Festival di quest’anno, con questa proposta, assolutamente inedita, trasversale e multistrato, del Barbiere di Siviglia rivisitato. Nell’anno di Rossini, il Festival ha scelto, piuttosto che mettere in scena un’opera di Rossini così come scritta, di mantenersi fedele alla propria identità di luogo di ricerca, di proposta e di laboratorio. Il Festival ha deciso di intraprendere la strada di una riscrittura drammaturgico-musicale del grande capolavoro rossiniano, cogliendo una serie di occasioni. Prima fra tutte la collaborazione con la Festa della Taranta, che è l’altro grande festival del Mezzogiorno italiano, salentino, naturalmente con potenzialità di pubblico molto più elevate e molto più ampie. In Rossini c’è questo elemento dionisiaco molto risonante rispetto a certi moduli che il tarantismo propone. Ci siamo imposti di scavare in questo punto di incontro. Abbiamo pertanto affidato alla Festa della Taranta la realizzazione della parte musicale. In buca invece di un’orchestra tradizionale ci sarà l’ensemble di musica popolare della taranta, insieme a strumenti tradizionali, più classici, con una riscrittura della musica di Rossini in questa chiave. La seconda occasione presa è quella di potersi avvalere sul palco di un talento teatrale e musicale in grado di intercettare anche il cosiddetto “grande pubblico”, quello di Elio (di Elio e le storie tese), che da una vita ha messo Rossini al centro di suoi lavori, di sue ricerche, della sua passione personale ma che non aveva ancora mai affrontato un’opera nel suo complesso. Avremo uno spettacolo sorprendente, inedito, in grado di chiamare un pubblico molto vasto ma non soltanto per un’occasione di facile fruizione. Il festival infatti darà un piccolo contributo di approfondimento, per una chiave di lettura della musica rossiniana diversa e inesplorata.

Una domanda nasce spontanea sul rapporto tra il Festival e Martina Franca. Perché è stata scelta Martina Franca e come si è radicato il Festival in questa città?

I nomi associati alla nascita del Festival sono tanti, parliamo soprattutto di personalità del mondo politico, culturale, sociale e imprenditoriale di quel territorio negli anni ’70, ma c’è un nome a cui credo si debba far risalire l’origine del Festival: Paolo Grassi. Grassi, che è stato sovrintendente della Scala, presidente della Rai, fondatore nonché direttore del Piccolo Teatro di Milano, era originario di Martina Franca. Immaginiamoci cosa poteva essere il Mezzogiorno, l’interno della Puglia, nei primi anni 70. Paolo Grassi partì dalla constatazione di una realtà ambientale e architettonica che sapeva unire il contesto della Valle d’Itria, di valore unico, senza paragone nel nostro Paese, con quello di un centro urbano, storicamente molto vitale, strategico. Il nome stesso Martina Franca racconta di un centro urbano che godeva in passato di privilegi unici, un crocevia straordinario per la via che collegava Adriatico e Ionio, nord e sud della penisola pugliese, e un contesto architettonico urbano di centro storico che era ed è oggi più che mai un esempio sorprendente di barocchetto napoletano, pugliese. Paolo Grassi ebbe l’intuizione di un cosiddetto “teatro diffuso”, cioè che la città stessa potesse diventare palcoscenico e potesse offrire diversi palcoscenici a delle proposte che fossero di teatro di ricerca. L’ulteriore intuizione di Paolo Grassi, che condivise subito con Rodolfo Celletti e con il sindaco di allora Franco Punzi, che è tuttora il presidente del Festival, fu quella di trovare una specificità. E fu trovata quella del belcanto italiano, riallacciandosi anche naturalmente alla grande scuola pugliese e napoletana che per tutto il ‘700 aveva dato al mondo intero i più grandi musicisti di quell’epoca.

È un festival molto sentito dalla popolazione, della città di Martina Franca? Come è accolto? Possiamo dire che si è consolidata una tradizione per la popolazione locale?

La tradizione è fortissima e va detto che negli ultimi anni specialmente nelle settimane del Festival Martina Franca e l’area limitrofa registrano il tutto esaurito, a livello ricettivo, alberghiero e di tutte le possibilità che oggi si sono sviluppate, dal b&b alla masseria ristrutturata e diventata hotel o residenza di lusso. Questo è il segno che il Festival ha saputo trasformare quel territorio, già di per sé straordinariamente ricco di potenzialità ambientali, paesaggistiche, enogastronomiche, anche in un polo d’attrazione per il turismo culturale, che in effetti porta a Martina Franca tutti gli anni migliaia di appassionati da tutta Europa. È stato fatto e viene fatto continuamente un lavoro molto paziente di convincimento sulla popolazione locale che il Festival non è un’occasione per pochi privilegiati o per persone che possono permettersi di assistere a degli spettacoli o che hanno gli strumenti per potersene interessare. Certo non aiuta il fatto che sia un festival non di repertorio; probabilmente se facessimo Aida, Turandot e La traviata sarebbe più facile eliminare questo preconcetto. Facendo opere barocche, opere settecentesche e ottocentesche, in prima esecuzione, titoli desueti, dimenticati, mai fatti o non sempre di facilissima fruizione per il grande pubblico, la frantumazione di questo pregiudizio è un po’ più lenta e un po’ più difficile. Molto è stato fatto in questi ultimi anni in questa direzione, tra cui aprire le prove generali ai giovani under 30 di Martina Franca, a cui viene fatto un piccolo discorso introduttivo di guida all’ascolto. Così i giovani locali cominciano finalmente a sentire quel Festival come loro patrimonio, un’occasione per aprire le porte della città al mondo. Il Festival sta diventando, negli anni, un fantastico laboratorio, in cui i giovani locali, frequentando il Festival, possono riconoscere in se stessi delle predisposizioni, dei talenti anche artistici, come sempre più spesso si verifica. Moltissimi giovani di Martina Franca hanno deciso di studiare teatro, di studiare danza, di studiare musica; e questo anche grazie alle attività della Fondazione Paolo Grassi, che per tutto l’anno svolge la sua attività di ricerca, di laboratori, di formazione, di divulgazione, di concerti, di teatro, di letteratura, di poesia, di fotografia.

Che tipo di pubblico richiama il Festival?

Il pubblico più rappresentativo è quello tipico del turismo culturale, soprattutto un pubblico internazionale. C’è anche una buonissima fetta di pubblico italiano, che frequenta i festival estivi di musica e di teatro. E poi devo dire che c’è una percentuale non trascurabile di pubblico locale. 

Oltre all’originalità del nuovo allestimento di Barbiere, le altre opere in cartellone presentano delle peculiarità?

Certamente! A partire dal Rinaldo di Händel che, in piena adesione alla identità del Festival, viene riproposto in una edizione totalmente inedita, che addirittura sarebbe stata perduta, e che invece, grazie al lavoro di un musicologo molto attento e molto tenace, è stata ricostruita. Verrà allestita la versione del capolavoro di Händel come andò in scena a Napoli nel 1718, cioè sette anni dopo la prima di Londra, diventando più che il trasferimento di una grande opera di Händel a Napoli, l’occasione di un pastiche, un genere estremamente in voga e popolare all’epoca. Il famosissimo castrato Grimaldi, detto Nicolini, porta la partitura a Napoli, depositandola nelle sapienti mani di un grande musicista di riferimento in quegli anni a Napoli: Leonardo Leo. Leo, sfogliando la musica si rende immediatamente conto del capolavoro e delle potenzialità dell’opera e pensa subito come adattarla al gusto del pubblico di Napoli. In primo luogo, aggiunge due personaggi buffi. Il pubblico infatti cominciava ad essere un po’ stanco dai drammi, dalle opere serie, schematiche, dove i protagonisti erano sempre personaggi altolocati, mitici, leggendari, inavvicinabili, inarrivabili. Proprio in quegli anni si cominciava invece a presentare sulle scene il modello di un teatro comico, non in lingua dialettale, non napoletana, con personaggi popolani che si prendevano gioco dei nobili o degli aristocratici. Nasceva così la commedia per musica. E l’usanza fu quella sempre più di contaminare l’opera seria con intermezzi buffi. Questi intermezzi si rivelarono subito come una fonte di successo incredibile. Sempre nel 1718 va in scena, ancora una volta a Napoli, Il trionfo dell’onore, l’opera che noi quest’anno facciamo in Masseria, che è proprio l’esempio più rappresentativo di commedia in musica; anzi molti la considerano come la prima vera commedia in musica della storia dell’Opera. Ci è sembrato utile e interessante mettere in scena nello stesso cartellone il dramma serio handeliano contaminato dalla scuola napoletana con la prima commedia per musica napoletana, scritta da Scarlatti, in lingua italiana e non napoletana, che ha all’interno quella che poi Goldoni nel teatro settecentesco, nel teatro di prosa, trasformerà nella commedia umana.

Anche l’opera in masseria è una peculiarità del Festival?

È una specialità del nostro festival, una nostra invenzione che ogni anno trova un pubblico sempre più convinto e sempre più entusiasta; è un’occasione fantastica per sentire musica e per vivere un’esperienza teatrale in un contesto architettonico incredibile, in piena campagna, in queste ville/fattorie del seicento e settecento, ristrutturate, sotto le stelle. Un’altra novità di quest’anno è che l’opera di Scarlatti verrà suonata con strumenti d’epoca.

Come possiamo definire il belcantismo?

La definizione più significativa e a cui io faccio sempre riferimento è quella di Rodolfo Celletti. Il belcanto è quella particolare forma di teatro musicale che si può leggere come un rigorosissimo sistema di filosofia estetica, in cui il modo di esprimere il contenuto è più importante del contenuto stesso. In altre parole, il belcanto presuppone un bagaglio tecnico e una consapevolezza stilistico-estetica per l’interprete che gli consente di divenire lui stesso coautore e di tradurre quello che l’autore aveva lasciato come codice scritto in forma sintetica, dando per scontato una serie di possibilità esecutive che all’epoca erano date per assodate, per note, per patrimonio, e che oggi invece richiedono un approfondimento, uno studio per essere riproposte tali quali. L’altra caratteristica fondamentale che definisce il belcantismo o il belcanto è quella della sua visione estremamente astratta e distaccata da quella che è la realtà del sentire e del sentimento. Al compositore, all’autore e quindi all’interprete belcantistico non interessa minimamente imitare la concretezza del sentimento, interessa sublimarla, trasformarla in un simbolo completamente astratto, codificato, riconoscibile in base a un abbecedario, a un sistema di riferimento all’epoca condiviso, che affondava le sue radici nella poetica degli affetti monteverdiana. È un codice di assoluta astrazione, che gioca anche molto sull’ambiguità ad esempio dei ruoli sessuali. Il castrato poteva rappresentare, con la sua voce assolutamente asessuata e androgina, completamente svincolata dalla natura quotidiana della voce umana, personaggi i più disparati tra loro. Anche certi eccessi di registri o certi passaggi di abilità virtuosistica acrobatica non erano mai però fini a se stessi: erano sempre rigorosamente riconducibili a un codice, a un patrimonio condiviso. Oggi la scuola del belcanto è una scuola di cui si sono smarrite le tracce. A causa di ragioni storiche: man mano che l’urgenza della realtà del sentire e dell’imitazione del reale hanno preso il sopravvento nella storia dell’Opera, la voce umana, appunto per essere più aderente possibile alla tangibilità del sentimento, si è dovuta spingere su emissioni sempre più vicine a quelle della quotidianità, e quindi fino ad arrivare al declamato, all’urlo, al grido, come se non ci fosse alcuna differenza fra la finzione del teatro e la realtà. Inoltre, questo cambiamento, questa evoluzione di gusto ha fatto perdere completamente memoria della tecnica belcantistica, perché spingendo la voce umana su quel declamato, gonfiandosi le orchestre, gli organici e aumentando le sonorità, la tecnica ha dovuto adattarsi a finalità espressive completamente diverse, completamente all’opposto dell’astrazione cristallina del belcanto. Siamo dovuti arrivare agli anni ’70, con Celletti e Martina Franca, poi Pesaro e Rossini, la renaissance barocca del Nord Europa per porci la domanda: ma come si cantava nel ‘600 e nel ‘700? Qual era la tecnica? Il dibattito è ancora aperto, però è un fatto culturale, estetico, filosofico estremamente significativo e complesso.

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Informazioni e programma completo del Festival all’indirizzo www.festivaldellavalleditria.it




Laura Pusceddu Abis racconta le grandi rockstar

Laura Pusceddu Abis è l’autrice del libro “Che musica! 20 rockstar leggendarie” (EL edizioni), uscito lo scorso 20 marzo. Un volume molto originale e interessante, che vuole far scoprire alle nuove generazioni i grandi cantanti, del passato e non, partendo da Ray Charles fino a Lady Gaga, passando da Elvis, Bob Dylan, Bowie, Queen, Madonna e tanti altri.

L’opera è rivolta ai bambini dai 9 anni in su ma può essere apprezzata e goduta da chiunque. 

Abbiamo intervistato Laura che ci ha raccontato come è nato questo progetto e quale è il suo rapporto con la musica.

Che importanza ha la musica nella tua vita?

Tantissima, è un qualcosa che fin da piccola mi ha sempre accompagnato. Se la ami la porti sempre con te e diventa un rifugio, oltre che una continua fonte di ispirazione e forza.

Come hai scelto le 20 rockstar del tuo libro?

La lista dei 20 artisti raccontati nel libro l’ho stilata insieme alla casa editrice. Davanti alla mia proposta iniziale, l’editore ha suggerito nuovi nomi da aggiungere e alcune sostituzioni, finchè siamo arrivati ad avere la rosa dei 20. La scelta è ricaduta su quegli artisti che, oltre ad aver lasciato un segno importante nella storia della musica, raggiungendo, inoltre, altissimi livelli anche in termini di successo commerciale, avevano alle spalle anche una storia personale particolarmente significativa, in cui i piccoli lettori potessero in qualche modo riconoscersi.

Come nasce l’idea di un libro adatto a tutte le età?

L’idea è nata dalla voglia di raccontare principalmente le grandi star del rock e del pop ai bambini e ragazzi, per creare in loro una mappa di riferimento musicale che diventa automaticamente anche mappa di conoscenza storica. Avevo notato una lacuna nell’editoria per ragazzi a tema musicale, che nella maggior parte dei casi, qui in Italia, si concentra sui grandi compositori di musica classica e qualche jazzista, ma dedica poco spazio a generi come il pop e il rock. Inoltre, le storie di questi artisti per me hanno un grandissimo “messaggio” intrinseco da veicolare e volevo che arrivasse ai più giovani. Il target principale erano dunque i bambini e ragazzi dai 9-10 anni in su, ma nel suo esito finale il libro si è rivelato assolutamente adatto a lettori di tutte le età, sia per il racconto snello, che per la presenza delle curiosità e della top five, oltre che per le bellissime illustrazioni fatte dalla brava Lilla Bolecz che colpiscono a prescindere dall’età di chi guarda.

C’è una rockstar che ha segnato la tua vita? E una canzone?

Le star e i brani che hanno segnato la mia vita sono tantissimi e per me è davvero difficile rispondere a questa domanda. Da piccola ho ascoltato molto soul e cantautorato italiano, da adolescente molto rock e punk, adesso ho esplorato a fondo il pop e l’elettronica…. Se parliamo delle star del libro, sicuramente Aretha Franklin e Michael Jackson sono artisti a cui sono molto legata, ma anche i Ramones, i Nirvana, i Pink Floyd fanno parte della colonna sonora della mia vita.

Quali progetti hai per il futuro?

Per il futuro, sicuramente continuare a scrivere e a studiare musica. Mi piacerebbe poter avere di nuovo la possibilità di unire queste due passioni. Ad esempio, una cosa che spero di poter fare in futuro è quella di scrivere i testi dei brani di qualche bravo artista!




Mattia Marzi racconta come è nato “Tu lo conosci Coez”

Mattia Marzi, 24 anni, affermato e preparato giornalista musicale, redattore per Rockol, ha da poco pubblicato il suo primo libro, “Tu lo conosci Coez?”, sulla crescita umana e artistica del cantautore e rapper italiano Silvano Albanese, in arte Coez. Il libro, uscito lo scorso febbraio, è già un successo.

Un esordio letterario interessante. Perché un libro su Coez? Lo conoscevi? Come ti sei avvicinato al personaggio?

Innanzitutto permettimi di salutare tutti i lettori di “Cosmopeople” e di ringraziarvi per lo spazio che mi state dedicando. Dunque… Perché un libro su Coez? È stata la casa editrice a contattarmi per propormi di scrivere un libro su Coez, lo scorso settembre. Arcana stava per inaugurare una collana interamente dedicata ai cantautori del 2000 e tra i libri in programma c’era anche un volume dedicato a Coez. Lo conoscevo e avevo anche avuto modo di scrivere degli articoli su di lui per Rockol, il sito con il quale collaboro da ormai qualche anno e del quale sono uno dei redattori. In particolare, avevo recensito il suo ultimo album, “Faccio un casino”, e avevo parlato di Coez in un articolo sulla terza generazione di cantautori romani. È stato proprio dopo aver letto questi articoli che Arcana mi ha invitato a scrivere il libro e io ho accettato. Non vi nego che era da un po’ che sognavo di scrivere un libro, ma non mi ero mai sentito del tutto pronto a farlo. Forse non mi sentivo all’altezza o forse, più semplicemente, “non sapevo da dove iniziare” (quasi citando Coez!). Quando è arrivata la proposta di Arcana non ci ho pensato due volte: ho accettato e mi sono messo alla prova.

Mi sono avvicinato al personaggio semplicemente cercando di raccontare in modo onesto, sincero e schietto la storia di Coez (e spero di esserci riuscito): dalle prime rime scritte in cameretta fino al successo che ha ottenuto a livello “mainstream” con l’ultimo album, passando per l’esperienza con il suo primo gruppo, i Circolo Vizioso, il collettivo dei Brokenspeakers, il debutto come solista e la svolta di “Ali sporche”. Ho provato a raccontare non solo l’artista, ma anche la persona e la storia dietro le sue canzoni: il rapporto burrascoso con il padre, l’attaccamento alla mamma (alla quale ha recentemente dedicato anche “E yo mamma”), le tante porte che gli sono state sbattute in faccia, la fatica che ha fatto per arrivare al successo (per molto tempo i media “tradizionali”, “mainstream”, di Coez proprio non volevano saperne, perché secondo loro non era abbastanza “pop” per il pubblico generico e non era abbastanza rap per entrare in certi circuiti). Non è stato facile, prima di cominciare a scrivere il libro ho raccolto parecchio materiale, perché volevo che i contenuti fossero quanto più veritieri possibile. Anche se ho deciso di avvicinarmi molto, a livello di tono e di stile, alla forma del romanzo: proprio perché volevo raccontare una storia, ma con un taglio “giornalistico” nella ricerca dei contenuti.

Come hai raccolto il materiale per scrivere il libro?

Per raccontare gli ultimi tre album, “Non erano fiori” del 2013, “Niente che non va” del 2015 e “Faccio un casino” del 2017, quelli della svolta “cantautorale” per intenderci, ho avuto a disposizione parecchio materiale, tra interviste, videointerviste, recensioni e altro. Invece è stato più difficile andare a recuperare materiale relativo alla prima fase della sua carriera, quella precedente la svolta di “Ali sporche”, cioè il Coez-rapper. Sono andato a recuperare vecchie interviste ai Circolo Vizioso e ai Brokenspeakers e vecchi articoli su questi gruppi, con i quali Coez si è fatto conoscere all’inizio della sua carriera. Poi ho trovato spunti interessanti anche nei testi dei brani contenuti all’interno degli album del primo periodo, in particolar modo quelli dell’album solista “Figlio di nessuno”: lì Coez ha raccontato molto di sé e della sua storia personale. Ci tenevo ad essere preciso nel racconto dei fatti e delle vicende, così ho pensato di confrontarmi anche con chi è stato vicino a Coez nel momento cruciale della sua carriera, il passaggio da “rap” a “cantautorato”-“pop”: Riccardo Sinigallia (che ha prodotto l’album “Non erano fiori”) e Dario Giovannini di Carosello Records (che ha accolto Coez nel suo roster e ha pubblicato i suoi dischi tra il 2013 e il 2016). Entrambi hanno accettato di partecipare al progetto, di contribuire con una testimonianza: sono stati gentilissimi e il loro contributo è stato per me molto prezioso.

Secondo te, da esperto del settore musica, il rap è la musica del futuro? Anche in Italia? Ha ancora tanto da dire?

Parlare di “musica del futuro” secondo me è rischioso. Perché i tempi che stiamo vivendo sono decisamente frenetici. Le mode si rincorrono velocissime: una moda, o nel nostro caso un genere musicale, non fa in tempo ad affermarsi che subito arriva una nuova moda. Ora, ad esempio, va fortissima la trap, che nasce in ambito hip hop ma che sembra pian piano emanciparsi e diventare un genere a sé stante.

Il rap è nato negli Stati Uniti tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80, ma negli States ha raggiunto il successo “commerciale” solo qualche anno dopo. Il rap italiano è un caso particolare. I primi rapper hanno cominciato a farsi strada tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90 “scimmiottando” quelli americani. Per lungo tempo il rap, in Italia, è rimasto confinato all’interno del cosiddetto “underground” (se escludiamo casi come quelli di Jovanotti o degli Articolo 31, che però venivano accusati dai rapper duri e crudi e dai puristi di essere sostanzialmente dei “poppettari”). Anche perché erano gli stessi rapper che si auto-escludevano: per loro partecipare a manifestazioni come il Festivalbar oppure pubblicare pezzi più “radiofonici” era come svendersi al sistema. La vera testa d’ariete del rap italiano è stato Fabri Fibra, che con un album come “Tradimento” ha fatto il dito medio ai diktat della scena e ha dimostrato che era possibile fare un rap dai toni più “pop” ma dai contenuti importanti e coerenti con le radici del genere, restando comunque credibile. Un anno importante, per la storia del rap italiano, è stato il 2013: quell’anno i dischi dei rapper italiani hanno cominciato a scalare le classifiche. Però poi è come scattata una caccia ai primi posti: molti rapper hanno preferito avvicinarsi al “pop”, altri invece – come per reazione – sono tornati allo spirito degli esordi. Non so se il rap è davvero la musica del futuro e se ha ancora tanto da dire. Sicuramente come genere ha cambiato le carte in tavola e “rivoluzionato” – tra molte virgolette – la canzone italiana, non solo a livello di suoni e contenuti, ma anche a livello di spirito e di atteggiamento.

Stai lavorando ad altri progetti?

Per ora preferisco tenere la bocca cucita e non sbottonarmi. Scrivere il libro su Coez è stata una bella esperienza: mi ha insegnato molto e mi ha entusiasmato. E poi è stata la mia prima volta… e come tutte le prime volte è stata fantastica. Mettiamola così: non mi dispiacerebbe ripetere questa esperienza in un futuro prossimo. Chissà!




La Valtellina eroica: Casa Vinicola Nera

Simone, Stefano, Angela e il padre Pietro. Sono loro i protagonisti di una storia di una viticoltura “eroica” (il lavoro è totalmente manuale a causa della conformazione del territorio)  che affonda le proprie radici in Valtellina, alla fine dell’800 e per poi trovare il suo attuale assetto negli Anni 40: la “Casa Vinicola Nera”. Oggi, giunti alla quarta generazione di Nera che si sono succeduti in cantina e in vigna,, la “Casa Vinicola Nera” è ormai tra le realtà più conosciute sul territorio grazie a una produzione di qualità proveniente da 35 ettari di vigneto nelle zone della Sassella, Inferno, Grumello e Valgella. E Valtellina vuol dire Nebbiolo, fratello stretto del nebbiolo piemontese, che in Valtellina trova le sue condizioni ideali. “Negli ultimi anni abbiamo impiantato circa 10 ettari di nuovi vigneti, utilizzando tre cloni di Nebbiolo – Chiavennasca selezionati dalla Fondazione Dott. Piero Fojanini di Studi Superiori” racconta Simone Nera. Ma non solo.  In questa tanto piccola quanto meravigliosa valle, che si trova all’estremo nord della Lombardia, c’è spazio anche per la produzione di vini bianchi ottenuti dalla vinificazione in bianco delle uve di Nebbiolo, notoriamente a bacca rossa.

Saranno quindi vini bianchi, sebbene vinificati in bianco dalle uve del nebbiolo, le novità che presenterete al prossimo Vinitaly?
Alla manifestazione veronese presenteremo: l’IGT Alpi Retiche “La Novella” e l’IGT Alpi Retiche “Rezio” che, peraltro, sono prodotti dall’azienda da circa 30 anni. Questo ci fa capire che la voglia  di “sperimentare” qualcosa di diverso, utilizzando un vitigno conosciuto quasi esclusivamente per la produzione di vini rossi, ha radici consolidate. In particolare l’IGT Alpi Retiche “La Novella”, la cui annata 2017 sarà in commercio entro la fine di marzo, è ottenuto dalla vinificazione delle uve rosse dei vigneti valtellinesi, 50% Nebbiolo “Chiavennasca” e 50% Rossola, altro vitigno autoctono della Valtellina, a bacca rossa. Il vitigno Nebbiolo “Chiavennasca” conferisce a questo vino una notevole sapidità e una buona struttura al gusto, con profumi di frutti bianchi come ananas e banana, nonché una buona
longevità. La Rossola apporta invece un’acidità fresca accompagnata da sentori agrumati sia all’olfatto che al gusto.

Quali sono i vostri prodotti d’eccellenza?
L’azienda produce tutti i vini a denominazione di Valtellina: lo Sforzato di Valtellina D.O.C.G., i Valtellina Superiore D.O.C.G. con le varie sottozone Sassella, Inferno, Grumello, Valgella e le relative Riserve, il Rosso di Valtellina D.O.C. ed gli I.G.T. Terrazze Retiche di Sondrio Rosso, Bianco e Passito Rosso.  Le Riserve vengono prodotte con uve provenienti da vigneti storici monitorati da Stefano solamente nelle annate migliori.  Tra queste segnaliamo i due CRU: Valtellina Superiore D.O.C.G. Signorie Riserva che nasce da un vigneto nella sottozona Valgella sito nel comune di Chiuro ed il Valtellina Superiore D.O.C.G. Paradiso Riserva, che nasce invece da un vigneto nella sottozona Inferno sito a cavallo tra i comuni di Poggiridenti e Tresivio. Oltre ai vini segnaliamo le esclusive grappe ottenute dalle vinacce di uva Sassella, Inferno e Sforzato, e lo spumante Cuvee Caven metodo classico.

E l’ultima vendemmia?
Ottima. Abbiamo solo registrato un calo del 30% nella vinificazione, ma la qualità del 2017 è eccelsa.

Dove è possibile venirvi a trovare per provare le eccellenze della Valtellina?
Dal 2009 abbiamo aperto, presso le nostra cantine, direttamente sulla strada statale dello Stelvio, un Wine Bar ed un nuovo punto vendita aziendale, anche Corner Valtellina, dove è possibile degustare e conoscere i grandi vini Nera accompagnati dai prodotti tipici della Valtellina, quali i formaggi D.O.P. Bitto e Casera, la Bresaola di Valtellina I.G.P., i pizzoccheri e tutti gli altri sapori di questa ricca terra.




Stefano Colli racconta Il Magico Zecchino d’Oro

Sta per arrivare al Teatro Manzoni di Milano, il 24 e 25 marzo, Il Magico Zecchino d’Oro, un musical davvero speciale scritto proprio per celebrare i 60 anni della manifestazione canora più famosa d’Italia

Stefano Colli, che nel musical interpreta vari personaggi (Abdullà, il carciofo, Ignacio), ci racconta lo spettacolo.

Il Magico Zecchino d’Oro nasce da un’idea di Fondazione Aida di Verona, in collaborazione con l’Antoniano di Bologna e il Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento. L’dea è nata proprio per celebrare i 60 anni di questa importante manifestazione che è lo Zecchino d’Oro.

La regia è firmata da Raffaele Latagliata che, insieme a Pino Costalunga, firma anche il libretto. Un testo che è stato approvato dall’Antoniano stesso che, per la prima volta, ha autorizzato un progetto costruito sulle canzoni dello Zecchino.

Lo spettacolo, dallo scorso novembre, ha girato per tutta l’Italia e ora siamo giunti quasi alla fine di questa prima tournée. Dopo le due date milanesi, saremo a Viterbo e chiuderemo poi a Roma al Teatro Italia il prossimo 8 aprile.

La storia parte dalla figura dell’Omino della Luna che vive sulla faccia luminosa della luna. L’Omino distribuisce, attraverso il suono di uno zecchino d’oro, i sogni a tutti i bambini della terra. La sua antagonista è la Strega Obscura che è molto infastidita dal suono dello zecchino e dai gridolini di felicità dei bambini che fanno bei sogni. La Strega vorrebbe soltanto abitare la parte buia della luna, prendere l’ombra tutto il giorno sulla sua sedia a sdraio e non essere disturbata da nessuno.

Un giorno, sfinita dal continuo tintinnio dello zecchino, la Strega Obscura decide di impadronirsene e affronta l’Omino della Luna. Durante il litigio, lo zecchino cade dalla luna sulla terra e finisce nella cameretta di una bambina di nome Alice.

Lo zecchino diventa così un portale di acceso ai sogni di Alice. Qui comincia l’avventura per Alice che, accompagnata dall’Omino della Luna, sempre inseguita dalla Strega Obscura, attraversa i suoi sogni, rappresentati da alcune canzoni dello Zecchino d’Oro. E così Alice incontrerà la Peppina con il suo caffè, Abdullà e Abdullì che cercheranno di vendere il Katalicammello alla Strega, il Torero Camomillo e il Carciofo bulletto che terrorizza tutte le verdure dell’orto di nonno Piero

Le canzoni scelte affrontano tematiche anche molto forti come il bullismo o la perdita di una persona cara. È un momento molto emozionante e commovente nello spettacolo la scena in cui Alice deve affrontare la perdita del nonno. Sarà proprio la Strega Obscura, con la canzone Prendi un’emozione, a spiegare alla bambina l’importanza di vivere ogni tipo di emozione, positiva o negativa come la tristezza e la malinconia, proprio perché è fondamentale per il percorso di crescita di un bambino imparare a viverle. Le emozioni non vanno tenute lontano, vanno vissute.

Nel musical ci sono dieci canzoni: cinque sono della storia più recente dello Zecchino, come Quel Bulletto del Carciofo, Prendi un’emozione, Chi ha paura del buio, Dove vanno i sogni al mattino; le altre cinque invece fanno parte della storia della manifestazione canora, come ad esempio il Katalicammello, Volevo un gatto nero o l’Omino della Luna.

Tutte le canzoni sono state riarrangiate da Patrizio Maria D’Artista. La scenografia è stata realizzata da Geomag ed è composta da cubi che, a seconda di come vengono girati, creano un ambiente, come la cameretta di Alice o l’orto di nonno Piero, o un pezzo della storia, come il cammello. La scelta dei cubi è molto interessante: vuole riportare lo spettatore a giocare con la creatività, rifacendosi un po’ ai giochi di una volta, oggi soppiantati dai computer, dai tablet e dai telefonini.

La soddisfazione più grande, per me, è il consenso che sta ricevendo lo spettacolo: ogni sera i teatri sono pieni. Il pubblico è coinvolto completamente, sia i bambini sia gli adulti. È bellissimo sentire la gente partecipare allo spettacolo: tutti cantano e battono le mani a tempo quando partono le canzoni. Non per niente lo Zecchino d’Oro è una delle manifestazioni più importanti del nostro paese e ha segnato l’infanzia di tutti. Le sue canzoni creano un trait d’union tra le generazioni: le mamme cantano Volevo un gatto nero, i figli Quel bulletto del carciofo.

Il Magico Zecchino d’Oro è un vero e proprio family show: fa commuovere, divertire, ballare e cantare grandi e piccini. È assolutamente da vedere!

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Sul palco con Stefano, ad interpretare questo magico spettacolo, troviamo Rebecca Pecoriello, Giada Maragno, Maddalena Luppi, Enzo Forleo e Gennaro Cataldo.

Teatro Manzoni – Milano
24 – 25 marzo 2018

Il Magico Zecchino d’Oro
regia di Raffaele Latagliata




Ennio Morricone: The 60 Years of Music Tour. Un’esperienza indimenticabile

di Giuliana Tonini – Ho avuto il privilegio di assistere a un concerto di Ennio Morricone. Lo scorso 6 marzo il Maestro è tornato a Milano, al Mediolanum Forum di Assago, con un’altra tappa del The 60 Years of Music Tour.

La tournée, iniziata più di due anni fa per festeggiare i sessant’anni anni di carriera da compositore del Maestro, ha finora toccato diverse città in tutta Italia e in molti paesi d’Europa. Precisamente Inghilterra, Irlanda, Germania, Belgio, Olanda, Francia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria, Svizzera, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia.

Ennio Morricone non ha bisogno di presentazioni. Classe 1928, conosciuto in tutto il mondo, ha composto le colonne sonore di più di 500 film, lavorando con i maggiori registi del cinema italiano e internazionale.

Tra i film per cui ha scritto la musica ci sono, solo per citarne alcuni tra i più famosi, gli indimenticabili spaghetti western di Sergio Leone, di cui, per l’aneddotica, Morricone è stato compagno di scuola alle elementari, C’era una volta in America (il mio film preferito fra tutti), sempre di Sergio Leone, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, Novecento di Bernardo Bertolucci, Mission di Roland Joffè, Gli Intoccabili di Brian De Palma, Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, fino al recente The Hateful Eight di Quentin Tarantino.

Forse non tutti sanno che sono sue le colonne sonore di diversi film di Dario Argento, di Bianco, Rosso e Verdone e di vari film per la televisione, tra cui La Piovra.

Per la sua musica per il cinema ha vinto, in Italia e all’estero, innumerevoli premi, tra cui un Oscar alla carriera nel 2007 e, nel 2016, è finalmente arrivato, dopo molte candidature, l’Oscar per la migliore colonna sonora originale, per The Hateful Eight.

Ma Ennio Morricone non ha scritto solo musica per il cinema. Lui stesso ci tiene molto a ricordare di essere sempre stato anche un compositore di musica classica assoluta, pura, svincolata da esigenze di narrazione e di rappresentazione scenica. Le sue opere di musica assoluta sono circa cento.

Ai suoi concerti, il Maestro dirige le sue opere eseguite da un’orchestra di 125 elementi e da un coro di 75 persone. Al Forum di Assago, sul palco con lui c’erano l’Orchestra Roma Sinfonietta e il Nuovo Coro Lirico Sinfonico Romano, assieme alla voce solista femminile Dulce Pontes, cantante portoghese regina del fado.

Come era prevedibile, tutti i quasi tredicimila posti erano esauriti. Il palazzo dello sport alle porte di Milano era stracolmo di gente arrivata per sentire dal vivo i propri brani preferiti, diretti dal loro geniale autore.

Il concerto è stato un evento emozionante e dalla potenza coinvolgente. Eseguiti dal vivo, da duecento persone, i pezzi cui noi pensiamo come al sottofondo musicale delle scene dei film esplodono in tutta la loro bellezza di suggestivi brani di musica classica contemporanea. Non c’è neanche bisogno di dirlo, la musica di Ennio Morricone è magnifica in sé e per sé, indipendentemente dall’opera cinematografica per cui è stata composta e indipendentemente dall’averla vista o meno.

Una serata di pura musica, con un pubblico rapito ed emozionato, applausi scroscianti, numerose standing ovations e il Maestro che, alla fine di ogni esecuzione, si alzava e si voltava a raccogliere il calore del pubblico.

Il programma è stato molto vario. Sono stati eseguiti, solo per citarne alcuni, L’uomo dell’armonica, da C’era una volta il west, di Sergio Leone, e il celeberrimo tema di Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo, sempre di Sergio Leone, tema universalmente conosciuto, da tutti e ovunque. Sono convinta che anche i bambini lo conoscono e lo canticchiano, senza sapere che è la melodia di un film di cowboy di più di cinquant’anni fa. Il brano, eseguito dal vivo, fa un effetto nuovo e portentoso. Andare su Youtube per credere. Non è la stessa cosa che dal vivo, ma rende l’idea.

In quanto a potenza suggestiva, non è da meno l’esecuzione di L’estasi dell’oro (la mia preferita), sempre da Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo, la musica della scena in cui Tuco-Eli Wallach corre tra le tombe del cimitero di Sad Hill alla ricerca della tomba di Arch Stanton, in cui il Biondo-Clint Eastwood gli ha detto che sono nascosti i duecentomila dollari.

Abbiamo poi ascoltato, ad esempio, il tema di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, L’ultima diligenza per Red Rock, da The Hateful Eight, Rabbia e tarantella, dal film Allonsanfan, dei fratelli Taviani, pezzo ripreso anche in Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino. Davvero di impatto anche Abolição, dal film Queimada, di Gillo Pontecorvo. Non poteva poi mancare Gabriel’s oboe, da Mission.

Attendevo palpitante Sacco e Vanzetti – Here’s to you, la ballata con la musica di Ennio Morricone e il testo di Joan Baez, ispirata alle parole attribuite a Bartolomeo Vanzetti pochi mesi prima dell’esecuzione sulla sedia elettrica. Non era in programma quella sera, ma non importa. Il concerto è stato per me un’esperienza unica, e, tra i bis eseguiti alla fine, c’è stata anche L’estasi dell’oro. Meglio di così non poteva andare.

Il The 60 Years of Music Tour è un evento davvero da non perdere. Ma gli indecisi si affrettino a prendere i biglietti. Il Maestro Ennio Morricone fa sempre il tutto esaurito in poco tempo.

Dove e quando
Musica per il cinema: dal 16 al 18 giugno 2018, Roma, Terme di Caracalla; 20 giugno, Locarno, Piazza Grande; 21 giugno, Parma, Parco La Cittadella; 23 giugno, Nimes, Arena; 24 novembre, Bruxelles, Palais 12.
Musica assoluta: 15 luglio, Praga, Smetana Hall.

Siti Internet e biglietti
Per la gioia degli appassionati, non è da escludere che, come è già successo in passato, vengano aggiunte altre date. Consultare per aggiornamenti, e per l’acquisto dei biglietti, i seguenti siti Internet:
www.enniomorricone.org
www.ticketone.it
www.dalessandroegalli.com

Pagina Facebook:
Maestro Ennio Morricone




Quattro chiacchiere con Umberto Noto, zio Fester ne “La Famiglia Addams “

Al Teatro Nuovo di Milano, fino al 25 marzo, è in scena il musical La Famiglia Addams con la regia di Claudio Insegno. Una favola noir, ispirata ai personaggi di Charles Addams, con un forte messaggio sui valori della famiglia, resa credibile e godibile da un cast di grandissimo livello.

Umberto Noto, in questa nuova produzione, interpreta Zio Fester.

Umberto, raccontaci qualcosa di te.

Mi sono diplomato nel 2002 alla MTS – musical the school di Milano e da allora ho sempre lavorato, passando dalle navi da crociera prima, dove ho girato il mondo come performer, alla prosa, al musical e alla televisione. Solo per citare alcuni titoli di spettacoli teatrali: I Promessi sposi , Il ritratto di Dorian Gray, Saranno Famosi, Gian Burrasca, Sogno di una notte di mezza estate, La Sposa in Blu, commedia della quale ho curato la mia prima regia, Be Italian, una produzione italo paraguayana,  fino a Spamalot e La Famiglia Addams con Claudio Insegno.

Ho  recitato anche in importanti serie tv come Camera Café e Piloti, sono stato acting coach della quarta stagione della serie tv Disney Alex & Co. e ho avuto l’onore di far parte del cast internazionale del film di prossima uscita nelle sale Ulysses – A dark Odyssey.

La filosofia di vita di Umberto si può sintetizzare con un verso di una canzone di Spamalot: Always look at the bright side of life, guarda sempre il lato positivo della vita.

Certe cose succedono perché devono succedere. Bisogna sempre tenerlo a mente, crederci e mai arrendersi di fronte alle avversità della vita, perché alla fine sono quelle che fanno crescere.

Ho fatto provini per ruoli per cui alla fine non sono stato preso. Non era semplicemente il momento. Ne sono poi arrivati altri perfetti per me come Sir Robin in Spamalot ed  attualmente Zio Fester ne La Famiglia Addams e ne sono infinitamente felice.

Parliamo degli Addams e di Fester.

Lo spettacolo parla della famiglia, dei valori della famiglia, ma anche di stranezze, verità nascoste, normalità diversa o diversa normalità. Fester incarna un po’ tutte queste cose. Ho lavorato molto sul personaggio per cercare di dargli tante sfaccettature. Non volevo che fosse solo “calvo, grasso e con una sessualità indefinita” come si definisce lui. Il mio Fester è giocherellone, umano, divertente e romantico. È capace di lasciare la sua famiglia, a cui è profondamente legato, per realizzare il suo obiettivo.

Fester infatti è innamorato della luna. La luna gli regala emozioni forti e lui riesce a raggiungerla, dimostrando così che quando si prova qualcosa per qualcuno, se il sentimento è vero e  puro, lo puoi avere. Io credo molto nella legge dell’attrazione che nasce da un desiderio profondo, dalla semplice volontà del cuore.

Nella vita l’energia positiva è la chiave di tutto.

La storia d’amore di Fester con la luna è una provocazione: parla dell’amore universale, di un amore profondo che va al di là di tutto e che regala emozioni, di un amore, per qualcuno o per qualcosa, che è sempre giusto.

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Come ti sei trovato a lavorare con gli altri membri del cast, con Elio, Gabriele Cirilli e con Claudio Insegno?

Per fare questo lavoro bisogna avere solidi valori e credere nel lavoro di gruppo. Sotto questo punto di vista, questo cast, così come quello di Spamalot, è perfetto: è come stare in famiglia, si cresce insieme, ci si compensa, senza invidie o desideri di primeggiare gli uni sugli altri. Sono tutti grandi e bravissimi professionisti. Elio è stato una grande scoperta, umanamente parlando, un perfetto Re Artù ed un compagno di viaggio indimenticabile. Gabriele Cirilli è un uomo e un artista eccezionale, è il fratello maggiore che tutti vorrebbero avere, forte sostenitore del lavoro di squadra. Porta in dote la sua esperienza teatrale trentennale iniziata alla scuola di Gigi Proietti. Claudio Insegno è un grande attore e Maestro: ci forgia, ci insegna a svecchiare il teatro e la comicità adattando il tutto ad un pubblico che cambia continuamente. Lavorare con lui è una continua esperienza formativa. Non vuole attori impostati, non vuole sentire una voce: cerca la verità nel personaggio. Per fare questo, lascia molta libertà interpretativa a noi attori. Capisci che hai trovato la giusta chiave di lettura quando gli si illuminano gli occhi e sorride. Vuol dire che lo hai convinto. Con Claudio ti devi lasciare andare, devi giocare a carte scoperte. Lui è lì, sempre disponibile, ti segue passo per passo. Ama ciò che fa, è nato per insegnare e lo capisci perché mentre lo fa si emoziona sempre.

Quali ruoli ti piacerebbe interpretare in futuro?

Ci sono tanti ruoli! Una volta, come primo ruolo, avrei forse scelto Jean Valjean, il protagonista dei Miserabili, ma credo che ora non sarebbe il momento. Oggi mi sento più orientato verso un teatro che va dalla riflessione al divertimento. Mi piacerebbe interpretare il Genio in Aladdin della Disney, perché è un signor ruolo, con belle canzoni e lo spettacolo è pura magia. Mi piacerebbe anche o un ruolo en travesti, come quello di Bernadette in Priscilla, un personaggio irriverente, simpatico e nostalgico; o l’ambiguo Maestro di Cerimonie di Cabaret o Lumière nella Bella e la Bestia.

Hai dei performer italiani di riferimento?

I miei esempi sono Manuel Frattini, Giampiero Ingrassia, Pierfrancesco Favino, Gigi Proietti, professionisti a completo servizio del teatro, che regalano sempre grandi emozioni.




Storie di resilienza al Premio Wondy

di Morgan Le Fay – A Milano la premiazione dei finalisti del “Premio Wondy”.

Un premio letterario dedicato alla resilienza, di certo l’unico in Italia, probabilmente anche nel mondo: “Premio Wondy” è l’iniziativa lanciata circa un anno fa dall’associazione “Wondy sono io”, nata in memoria di Francesca Del Rosso, giornalista, blogger e scrittrice, morta nel dicembre 2016, a 42 anni, dopo una lunga battaglia contro il cancro. L’idea è venuta, quasi d’istinto, ad Alessandro Milan, giornalista e marito di Francesca.

Francesca, “Wondy” per gli amici, amava i libri e ha portato avanti, fino all’ultimo, una straordinaria testimonianza di resilienza, affrontando la malattia non soltanto con grande coraggio e forza d’animo, ma anche con ironia e quasi leggerezza. Anche grazie a lei, che, tra le altre cose, per diverso tempo ha tenuto un blog su “Vanity Fair” dal titolo “Le chemioavventure di Wondy”, la parola resilienza ci sta diventando un po’ più familiare: una capacità, insita in ognuno di noi (anche se magari non ne siamo sempre consapevoli), di resistere agli urti, alle difficoltà della vita, senza spezzarci, di trasformare anche le esperienze più negative in opportunità, in qualcosa di positivo. L’associazione intende diffondere proprio questa cultura della resilienza, attraverso varie iniziative (potete trovare tutte le informazioni sul sito wondysonoio.org).

Il “Premio Wondy” è una di queste. Alle case editrici (e ben ottanta hanno risposto) è stato chiesto di inviare un’opera, di recente pubblicazione, che avesse a che fare con la resilienza. Tra i sei romanzi arrivati in finale, ne è stato premiato uno da una giuria tecnica e uno da una giuria popolare, che ha potuto votare sulla pagina Facebook dell’associazione.

Le opere finaliste sono:
La rondine sul termosifone, di Edith Bruck, ed. Nave di Teseo
Non volevo morire vergine, di Barbara Garlaschelli, ed. Piemme
Voi due senza di me, di Emiliano Gucci, ed. Feltrinelli
Magari domani resto, di Lorenzo Marone, ed. Feltrinelli
La notte ha la mia voce, di Alessandra Sarchi, ed. Einaudi;
Quello che mi manca per essere intera, di Ilaria Scarioni, ed. Mondadori.

La giuria tecnica, presieduta da Roberto Saviano, era composta da Daria Bignardi, Paolo Cognetti, Ferruccio de Bortoli, Luca Dini, Donatella Di Pietrantonio, Chiara Fenoglio, Chiara Gamberale, Emanuele Nenna, Paola Saluzzi e Gianni Turchetta.

La premiazione dei vincitori si è svolta il 5 marzo al teatro Manzoni di Milano, in collaborazione con Edizioni Condé Nast, rappresentata per l’occasione da Luca Dini, direttore editoriale e membro della giuria, che Wondy l’aveva conosciuta molto bene.

L’evento è stato presentato da Ambra Angiolini e Alessandra Tedesco, giornalista di Radio 24 e amica di Francesca, che hanno trascinato sul palco anche un Alessandro Milan, in verità un po’ riluttante, e ha visto la partecipazione di numerosi personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo, come Roberto Bolle, Rossella Brescia, Caterina Balivo, Martina Colombari, le cantanti Malika Ayane e Paola Turci, con le loro voci straordinarie.

Di ogni opera finalista era stato scelto un brano rappresentativo, letto da altrettanti attori, tutti bravissimi e visibilmente commossi: Alessandro Borghi, Marco D’Amore, Matilda De Angelis, Marta Gastini, Vittoria Puccini e Valeria Solarino.

I romanzi, di cui alcuni autobiografici, raccontano, senza sconti, storie segnate da eventi dolorosi, che hanno dato una svolta, spesso drammatica, alle vite dei personaggi. Eppure, nello stesso tempo, sono vicende percorse da un incrollabile, ineludibile, amore per la vita. Storie resilienti, appunto, di chi ha saputo rialzarsi, affrontare e superare anche le situazioni più dure, trovando in sé inaspettate risorse.

Un momento particolarmente toccante è stata la testimonianza di Mutlu Kaya, una ragazza diventata, tre anni fa, la star di un talent show in Turchia, grazie alla sua voce angelica e a una sfolgorante bellezza. Il fidanzato, che non gradiva la sua carriera televisiva, le ha sparato alla testa. Lei è miracolosamente sopravvissuta, ma purtroppo con gravi danni cerebrali, che l’hanno costretta su una sedia a rotelle e a un lungo, difficile percorso di recupero. Eppure, l’altra sera Mutlu era lì, sul palco, a sorridere e cantare ancora, a raccontare la sua storia, a manifestare il suo ottimismo e la sua gioia di vivere, salutata dal pubblico con una lunga standing ovation.

Ma è giunto il momento di sciogliere finalmente la suspense con la proclamazione dei vincitori:
la giuria popolare ha scelto “Non volevo morire vergine” di Barbara Garlaschelli, mentre la giuria tecnica ha assegnato il premio a “La notte ha la mia voce” di Alessandra Sarchi. Due storie, per alcuni aspetti simili, che affrontano problematiche forti, estreme, ma che hanno molto da dire a tutti noi, perché non è necessario ammalarsi di cancro o essere colpiti da una disabilità o da un lutto per essere (o imparare a essere) resilienti. Ognuno, poi – come ha sottolineato Alessandra Tedesco a mo’ di conclusione – trova il suo modo, la sua strada, per superare le avversità.

La serata è stata un successo, che ha mescolato parole e musica, allegria e commozione, toccando le corde più profonde di tutti i presenti, ospiti e pubblico (e la cosa era palpabile), senza mai cedere alla tristezza: una festa, insomma, proprio come sarebbe piaciuto a Wondy.
Appuntamento, dunque, alla prossima edizione, e buona resilienza a tutti!

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