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Robert Doisneau: la bellezza delle cose che ci circondano

di Cristina T. Chiochia

Le foto di Robert Doisneau arrivano a Milano dal 9 Maggio 2023 con 130 immagini in bianco e nero e sembrano prendere vita già ad occhi chiusi presso il Museo Diocesano Carlo Maria Martini, in una mostra antologica emozionate in un viaggio sino al 15 Ottobre 2023 in cui si segnalano del foto sugli iconici anni ’50 in Francia in particolare a Parigi davvero interessanti. La mostra, curata da Gabriel Bauret, grazie a i personaggi rappresentanti, in bianco e nero si diceva, intenti a fare “qualcosa”, in una sorta di bolla senza tempo e senza spazio, quasi  a dare vita ad un teatro inedito, come quello umano che emoziona, fa sorridere, meditare. Durante la conferenza stampa quello che si è messo in luce  è non solo di essere di fronte alle foto di uno uno dei più importanti fotografi del Novecento ma anche, come recita il comunicato stampa che questa è una “esposizione, curata da Gabriel Bauret, promossa da Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e prodotta da Silvana Editoriale, col patrocinio del Comune di Milano, col contributo di Fondazione Banca Popolare di Milano e di Fondazione Fiera Milano, ripercorre la vicenda creativa del grande artista francese, attraverso 130 immagini in bianco e nero, tutte provenienti dalla collezione dell’Atelier Robert Doisneau a Montrouge, nell’immediata periferia sud di Parigi“. Una sorta, insomma, di atto d’amore, che, in fondo, la fotografia è, attraverso improbabili personaggi, bambini (spensierati), uomini, donne , innamorati pieni di vita e di passione e personaggi famosi che diventano vere e proprie icone della “sua”città.  Vedere “il lato bello”, insomma della vita, lui che iniziò come pubblicitario e fini per diventare un grande fotografo. Perdersi per le strade di Parigi, come nella vita, osservare la “sua” città  contemporanea e riconoscerne un pò di quelle emozioni umane ora forse un po’ demodè e da secolo scorso e sicuramente, di cui, la recente pandemia da covid, ha un po’ disabituato: amore e vita in strada, dove anche un bacio può dare scandalo e lo si vive quindi con indifferenza, cosi come tra la gente sconosciuta e quella famosa, che sia per il gusto di sentirsi o essere vivi. Lontana la guerra, esplode la vita. In mostra inoltre, anche ritratti di Jacques Prévert, Pablo Picasso (con la celebre foto dell’amico) ed i tanti protagonisti di quegli anni.  Presente alla mostra anche il video documentario biografico della nipote Clementine Deroudille dal titolo Robert Doisneau uscito nei cinema italiani nel 2017 con il sottotitolo “La lente delle meraviglie” ed inoltre, tra i capolavori esposti, anche la  foto del bacio, Le baiser de l’Hôtel de Ville del 1950. Iconica foto che ritrae una giovane coppia che si bacia davanti al municipio di Parigi mentre la gente cammina veloce e distratta. L’opera, per lungo tempo identificata come simbolo della capacità della fotografia di fermare l’attimo, non è stata scattata per caso: Doisneau, infatti, stava realizzando un servizio per la rivista americana Life e per questa chiese ai due giovani di posare per lui. Una mostra voluta da Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e prodotta da Silvana Editore che ne cura anche il catalogo.Un modo per perdersi nella bellezza delle cose che ci circondano, almeno qualche ora.




L’arte come piacere di sentirsi a casa

di Cristina T. Chiochia

Con la mostra L’Ode al Piatto (30 novembre – 24 dicembre 2022) , lo storico Studio Bolzani di Milano, gioiello di Angelo Bolzani che quest’anno celebra il proprio centenario dalla fondazione con una serie di iniziative nel passaggio pedonale di Via Durini (la Galleria Strasburgo, proprio dietro a San Babila), ha offerto durante il periodo di Natale al suo pubblico, un concetto di arte come piacere, in questo caso quello di sentirsi a casa.
E lo ha fatto con una mostra su un oggetto apparentemente semplice: il piatto, appunto, presente in tutte le case.
Una mostra di piatti che, come recita il comunicato stampa sono “realizzati dai più conosciuti e rinomati artisti del ‘900. Le ceramiche presentate, saranno piu di quaranta. I campi di grano di Mario Schifano, i cavalli di Aligi Sassu, le ricche composizioni di Michele Cascella, i volti aggraziati di Ernesto Treccani, le geometrie di Arnaldo Pomodoro, i doppi profili di Remo Brindisi, i paesaggi di Carlo Mattioli, le figure cubiste di Ibrahim Kodra, sono solo alcune delle firme storicizzate che saranno esposte in mostra“. Durante il periodo natalizio insomma, la galleria ha offerto uno sguardo inedito sul “food” visto però non dando importanza al contenuto dei piatti, ma i piatti stessi. Perchè, in fondo, l’uomo è ciò che mangia. Perché non riflettere sull’uomo attraverso le emozioni che suscitano dei piatti proprio in questo periodo di festa? Inoltre tutti d’Autore.
Un viaggio, quello nel secondo piano della galleria dove erano presenti anche molti altri capolavori volutamente in ordine scomposto ma in continuo dialogo con le pareti, dove l’ alimentazione del cibo fisico è connessa all’evocazione della vita emotiva del piatto dipinto e che assume un significato estetico di arte, ma di esplicito richiamo alla “conditio sine qua non ” dove le opere evocano la sensibilità degli artisti.
L’uomo è ciò che mangia.  Ed ecco come una sorta di ritratti, i piatti dipinti come prospettive dell’anima nei diversi aspetti psicologici come quello di Bruno Cassinari che in una ceramica policroma (“prova d’autore”), oppure quello di  Franco Gentilini con il suo “Volto femminile. Piatto che puo’ essere anche in dialogo con quello che puo’ contenere, come aspetto fisiologico, come quello di Saverio Terruso (Pezzo unico) dove la rappresentazione di un piatto di pesci diventa moto accellerato sulla superficie dei colori.
Un viaggio nella “affettività” di un piatto tra abbuffate e trasgressioni umane, ma anche nell’intimità affettiva, religiosa e culturale della società che esprime, come quello di Salvatore Fiume con un nudo di donna ammiccante, o da contro, quello profondamente spirituale di Franco Rognoni.
Concludendo la mostra ha offerto un modo inedito per allontanarsi dalla percezione del piacere fisico del cibo (che un piatto ovviamente può contenere), per immergersi in quello del proprio mondo interiore Un ascolto di sé intenso, che avviene attraverso l’arte dove il concetto di “appetito”, permette agli artisti in mostra di dialogare tra di loro, quasi alla ricerca di un linguaggio nuovo per merito della superficie della ceramica del piatto.
Una mostra che è un’ode al bisogno d’amore, alla ricerca del proprio anestetico naturale, l’arte. Proprio perchè grazie all’arte, avviene spesso il miracolo: eliminare la sofferenza e la profonda insoddisfazione di vivere questi tempi tanto difficili e confusi.
Una scorciatoia? Forse. Ma la bella mostra “Ode al Piatto”  nutre di bellezza estetica in concetto di desiderio e di piacere associato al cibo e lo pone in relazione al piatto, ovvero ciò che da sempre lo contiene, lo accoglie per essere poi gustato. Piatti artistici che sono veri capolavori in ceramica di grandi autori italiani che dipingono sulla superficie del piatto, che diventa accogliente non solo di colori ma anche di arte, in totale equilibrio espressivo, ed in continuo dialogo tra di loro. Arte come piacere. Quello di sentirsi accolti ed “a casa”.



Cristian Cavagna: ritratto di un annusatore

“Ciao a tutti sono Cristian, e sono un annusatore”. Così si aprono i godibilissimi video che Cristian posta sul suo profilo TikTok, che vanta un seguito di quasi 18.000 follower.

Ma chi è Cristian Cavagna? Se ancora non lo conoscete, ve lo diciamo noi: Cristian è uno dei massimi esperti di profumeria in Italia e il suo curriculum è impressionante. Consulente e direttore creativo per marchi famosi, selezionatore di marchi per piccole e grandi profumerie, valutatore di fragranze, presentatore a Pitti Fragranze, giudice all’Accademia del Profumo per citare solo alcuni dei suoi innumerevoli interessi e progetti. E’ fondatore di Adjiumi, un gruppo di Facebook nato 17 anni fa per riunire sia i rappresentanti delle varie filiere legate al mondo dei profumi, sia semplici appassionati, con lo scopo di diffondere la cultura olfattiva e il rispetto della materia prima. Oggi Adjiumi (non vi scervellate: il nome è puramente inventato e non significa nulla. E’ come un profumo: c’è ma non lo vedi, lo senti ma non lo puoi toccare) conta più di 6600 membri, ed è diventato un punto di riferimento per gli appassionati, anche perché Cristian ed il suo staff promuovono una cultura dello scambio, della curiosità, dell’amore per il bello e per l’arte, e combattono la critica becera, inutile e fine a se stessa.

Il gruppo e la sua filosofia rispecchiano appieno la personalità e lo stile di Cristian: elegante, raffinato, pacato, mai sopra le righe e attento alle sensibilità e ai gusti altrui. E’ sempre impeccabile, lui: pensate che una volta l’abbiamo incontrato in pieno luglio in profumeria, con l’aria condizionata andata in tilt per il gran caldo. Lui era lì, perfetto, senza una piega e senza una pezza, fresco come una rosa. E dispensava sorrisi a tutti agitando con nonchalance il ventaglio di emergenza che ci avevano fornito per resistere alla canicola. Noblesse oblige! Quando inizia a parlare di materie prime, progetti artistici, sensazioni e storia del profumo, staresti lì ad ascoltarlo per ore e senti che ne hai ancora da esplorare e studiare prima di poterti definire anche solo appassionata di fragranze!

Da due anni però Cristian ha anche deciso di comporre le sue fragranze. Ha infatti iniziato a creare – insieme ad alcuni amici nasi, primo fra tutti il maestro Arturetto Landi – una collezione di sette profumi dedicati al suo fiore preferito, la tuberosa, linea che ha chiamato “La tuberosa secondo me”. Ne sono già usciti tre: Musa Paradisiaca, Boa Madre e Murice Imperiale. Musa Paradisiaca è il nome scientifico del BANANO, dalle cui foglie Cristian ha estratto un composto luminoso ed elegante, che insieme alla freschezza del sedano e alla corposità della tuberosa, del narciso, della vaniglia e dell’ambra danno vita ad un delizioso contrasto tra freddo e caldo, ad una sensualità fresca e moderna allo stesso tempo.  E che dire dell’elegantissima bottiglia che strizza l’occhio all’art déco? Non solo: tutte le creazioni sono accompagnate da illustrazioni create appositamente da artisti internazionali (per Musa Paradisiaca l’australiana Rhea Ornias; per Boa Madre la tedesca Polina grafik designer; per Murice Imperiale la lituana Natasha Gro).

Boa Madre è la seconda delle tuberose secondo Cristian, una declinazione inedita e animale della tuberosa: il boa è il rettile, freddo, glaciale, elegantissimo, ma è anche il boa di piume, morbido, arioso, leggero. Boa madre è infine la buona madre in portoghese, la terra madre da cui tutto nasce, il porto salvo a cui approdare. Ritroviamo in apertura l’accordo fresco di foglie di banano accostato alla piccantezza dello zenzero e del pepe rosa. Il cuore fiorito e sensuale vede un’assoluta di tuberosa che si fonde con il gelsomino, la zagara, il seducente ylang ylang e l’iris, mentre il fondo animale e potente fonde le note legnose di sandalo con quelle bruciate della betulla e del cuoio, per tuffarle nell’animalità del muschio, dello zibetto e del castoreo. Una fragranza che potrebbe sembrare più maschile e che sta invece piacendo moltissimo alle donne.

Infine, quest’estate è uscita la terza creazione: Murice Imperiale. Murice è il mollusco da cui si ricava il viola imperiale, il rosso porpora, pigmento che non scolorisce mai, anzi a contatto con il sole si fissa ancora di più. Imperiale perchè veniva usato dagli imperatori sia per le case che per le vesti. “Ho immaginato il profumo dell’aria del mare in mezzo ad una piantagione di tuberose” dice Cristian. Attenzione però a non chiamarla tuberosa marina: è una tuberosa oceanica!

Le tuberose però non possono crescere vicino al mare, perciò come può arrivare un fiore cosi delicato su una spiaggia? Attraverso una sirena che sulla battigia ha trovato una murice, dove la tuberosa si era nascosta per poter viaggiare attraverso il mare. Cavalcando le onde del mare, sfidando mostri marini, la tuberosa ha pianto nella pioggia e si è asciugata al sole. Ha abbracciato un blocco di ambra grigia e ha danzato con assolute di alghe rosse. Ha difeso il diritto alle radici con tutte le sue forze, aggrappandosi ad un corallo. C’è una estrazione molecolare di muschio marino, che ci fa scivolare sugli scogli, ed ecco che incantevole arriva l’accordo di Musa paradisiaca con le sue foglie di banano. Non ditelo a Cristian…ma io ci sento anche il profumo del melone maturo, succoso e luminoso come il sole d’estate…

(collage di ©Emmanuelle Varron per ©Cafleurebon)

Ma non finisce qui: per festeggiare i 15, 16 e 17 anni del gruppo Adjiumi, Cristian ha creato altrettanti cubi celebrativi. Nel 2020 è nato Dolce q.b., una vaniglia orientale unisex, studiata sotto una prospettiva completamente nuova: ci troviamo di fronte ad una diversa interpretazione del sillage orientale, una vaniglia morbida ma allo stesso tempo molto tostata e speziata, poiché letteralmente avvolta da catrame di betulla, incenso e cannella che la rendono irresistibile ma senza risvolti golosi.

La scatola di Dolce q.b. ci ricorda un contenitore per monoporzioni di torte. Sfilando la parte superiore si nascondono golose curiosità: il pack di un rosso deciso per omaggiare gli interni delle borse di Coco Chanel presenta minuscoli disegni che danno forma agli elementi olfattivi presenti in piramide, provette, pipette e la sigla di ADJ. Rovesciando questa base, la stessa formerà una piramide dove in chiaroscuro campeggiano le lettere di Adjiumi a caratteri “qb…tali”. Dopo il bianco, il 2021 si tinge di oro, e vede l’uscita di Elevato al Cubo. Qui lo scopo è di far conoscere meglio la famiglia olfattiva dei gourmand, tanto amata dal pubblico. Il profumo è quello di una pralina di cioccolato fondente ottenuta da fave di cacao di São Tomé. Note di testa di menta fresca e ripieno morbido di miele di corbezzolo, su un fondo intenso di incenso e vetiver bourbon. È un sontuoso peccato di gola, da cui lasciarsi catturare e sedurre: l’esperienza è intensa, mentre l’infusione di fiori di sambuco è il piacere zuccherino da condividere.

La scorsa settimana è uscito il terzo cubo celebrativo: INCUBO. Un profumo dedicato all’odore del nero…ma di cosa profuma il colore nero?? Ovviamente di liquirizia!!!  Molti hanno chiesto a Cristian se fosse sicuro di questo progetto: il 17, il nero, l’uscita nella seconda metà di ottobre, il nome Incubo…ma lui voleva creare un profumo che avvolgesse il corpo umano, come una spirale, come le famose rotelle alla liquirizia, e quindi il colore nero era d’obbligo, così come materie prime dark, introspettive, calde e avvolgenti per l’appunto: non solo liquirizia, ma anche tè nero, ribes nero, prugna ed elicriso. Nessuno spavento quindi: già al primo annuso Incubo ti stampa un sorriso in faccia, di riporta in un negozio di caramelle e ti seduce con la sua effervescenza che vira in un caldo abbraccio nel drydown.

Concludiamo questo ritratto con la frase che utilizza Cristian per chiudere i suoi video: BUON PROFUMO A TUTTI!! E non è finita qui: l’anno prossimo ne vedremo delle belle, dato che il vulcanico Cristian ha in serbo per noi dei bellissimi progetti!

Potete seguire Cristian su TikTok (_cristiancavagna_) e su Instagram (_cristiancavagna_), mentre trovate su FB e su Instagram le omonime pagine dedicate al gruppo Adjiumi.




Gli ottanta ritratti di alcuni dei più noti e acclamati chef in un libro

di Cristina T. Chiochia

Volti iconici che il libro di Skira Editore racchiude in ritratti ad acquarello di Severino Salvini con una introduzione al libro di Paolo Bianchi (suoi anche i commenti).

Un volume dal titolo evocativo di  CHEF PORTRAITS Ritratti ad acquerello  che, come recita il comunicato stampa è “una raccolta di ottanta ritratti ad acquerello di alcuni dei più noti e acclamati chef, che rappresentano la grandezza e l’eccellenza della ristorazione italiana.

Da Massimo Bottura, Antonino Cannavacciuolo e Carlo Cracco a Ernst Knam, Heinz Beck e Davide Oldani, Giorgio Locatelli e Gennaro Esposito, Enrico e Roberto Cerea, Annie Feolde, Claudio Sadler, solo per citare i più noti”. Molto più di una semplice galleria di immagini ad acquerello. E’ un modo per mettere in evidenza una grande passione. Ovvero quello dello “stare a tavola” per godersene insieme a pennelli e colori, Chef in carne ed ossa che cucinano, sorridono, muovono le mani e gli utensili, per rappresentare il potenziale della loro arte, in modo inedito. Gusti ed aspettative sul cibo che vengono soddisfatte dal palato degli intenditori dell’arte.

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Il libro, lo dice molto bene: “[…] non li abbiamo decisi sfogliando le guide, perché così avremmo in fondo lasciato che fossero altri a sceglierli al nostro posto, e nemmeno ci siamo limitati a dare credito ai nostri gusti. Davanti a impegni come questi, bisogna essere in grado di allontanarsi un minimo dal proprio palato e dal proprio cuore ed evitare così l’effetto scuola elementare, quando le maestre erano brave solo quando ci davano un buon voto. E anche se il numero totale va ben oltre le dita delle nostre mani, siamo davvero molto ma molto lontani dall’olimpo tricolore. Succede perché mi viene difficile pensare a un altro Paese con una varietà di cucine e di interpreti paragonabile alla nostra”.

L’Italia. Ma anche il resto del mondo nel piatto. Eccellenze a “doppio taglio” che vengono in questo modo segnalati, appezzati e messi in risalto. Perché il mondo ama i cuochi. Ed ama mangiare. Ed è bello qualche volta, segnalarlo con un sorriso.




I profumi che hanno fatto la storia: i favolosi anni ’60

Non so voi, ma io quando penso agli anni ‘60 e in particolare ai profumi da uomo, ho stampata in mente l’immagine di Alain Delon mollemente sdraiato a bordo piscina nell’omonimo film del 1968 con Romy Schneider. A dirla proprio tutta, in realtà mi viene in mente quell’immagine anche quando mi chiedono quale sia per me l’archetipo della bellezza maschile…

Ma lasciamo da parte il mio pénchant per il bell’Alain e parliamo di alcuni dei profumi più iconici del favoloso decennio 1960-1969.

Negli anni ‘60 il movimento hyppie, nato a San Francisco, predica un ritorno alla natura, il rifiuto delle costrizioni, l’uguaglianza dei sessi e la ricerca dei paradisi artificiali al grido di “fate l’amore, non la guerra”. I simboli di questa gioventù ribelle sono la musica pop, i giacconi di cuoio nero, e i capelli lunghi. Dalle manifestazioni contro la guerra del Vietnam al maggio sessantottino, un vento di ribellione soffia ovunque tra i giovani e si diffonde in Europa. La gioventù scopre l’India, i suoi guru, le sue sette e i suoi aromi: si profuma di sandalo, muschio e patchouli e brucia bastoncini di incenso.

Parallelamente a questa anti-moda, l’alta moda si orienta verso il prêt-à-porter di lusso con Yves Saint-Laurent, Daniel Hechter, Paco Rabanne, Cacharel, Courrèges.

Nel 1966, Dior lancia Eau Sauvage, creata da Edmond Roudnitska: a un tempo discreta e persistente, segna l’avvento della profumeria al maschile e apre la via alle eau frâiche femminili, mascoline e androgine. Eau Sauvage è stato il primo profumo per uomo di Dior e, per almeno 25 anni, è stato il profumo per uomo più venduto al mondo. Roudnitska, nel crearlo, decise di mantenere la semplicità della struttura classica del profumo per uomo, ma aggiungendo un tocco di eleganza con l’uso di fiori, fino ad allora esclusivi dei profumi femminili, e con l’hédione, una nuova sostanza che verrà molto utilizzata da Roudnitska, ad aggiungere freschezza. L’essenza legnosa e aromatica del profumo creano un’essenza selvatica che dà il nome al prodotto.

E il nostro Alain fu anche il primo testimonial utilizzato da Dior per pubblicizzare questa fragranza.

Per quanto riguarda la profumeria femminile, come dicevamo i profumi negli anni ‘60 diventano più accessibili non solo dal punto di vista dei costi, ma anche più leggeri e freschi.

Oggi vogliamo citare Calèche, un altro capolavoro di Hermès uscito nel 1961, esattamente a 10 anni di distanza da Eau d’Hermès (trovate qui l’articolo che abbiamo dedicato a questa maison) e creato da Guy Robert. La prima fragranza femminile della maison: un profumo delicato per un’amazzone moderna (se preferite, potete immaginarvi comodamente sedute all’interno della carrozza che dà il nome alla fragranza). Un profumo gioioso e femminile ispirato da un cuoio dall’odore fiorito, con un accordo di note di legni bruciati. E’ la rosa liana Argyreia a dare questa sensazione di cuoio fiorito addolcita da note verdi come mughetto, narciso e iris. Il profumo possiede un carattere cipriato e dolce che richiama la scia di vetiver e di muschio bianco.

Il secondo profumo che riteniamo emblematico del decennio è Chamade di Guerlain. Con il cuore che batte al ritmo de La Chamade, romanzo di Françoise Sagan, rivendica la parità tra uomini e donne e il diritto di decidere della propria vita. Ispirandosi al celebre romanzo e all’energia di questa rivoluzione in corso, Jean-Paul Guerlain immagina la “sua” Chamade, una fragranza decisa che infrange anch’essa i codici del suo tempo e che vuole esprimere il battito spaventato del cuore quando si è infinitamente innamorati.

(bottiglietta vintage)

Dedicato alla donna emancipata, questo fiorito ambrato verde vede per la prima volta in assoluto utilizzati i boccioli del ribes nero, a cui aggiungono freschezza l’accordo di giacinto ed il galbano, per poi arrivare alle note di fondo: vaniglia, sandalo e gelsomino. Un’audace incarnazione della libertà di essere ed amare.

Ma adesso tocca a voi: qual è l’uomo più bello di tutti i tempi? E il profumo da uomo che più vi piace?  Scrivetecelo nei commenti, alla prossima!




I profumi che hanno fatto la storia: l’Interdit e Cabochard

Non possiamo lasciare gli anni ‘50 per avventurarci nel decennio successivo prima di aver parlato di una iconica fragranza di Givenchy, che venne creata appositamente per un’altra bellissima icona di quegli anni: Audrey Hepburn. 

Stiamo parlando di L’Interdit, profumo nato dal legame unico e leggendario che unì uno dei più grandi couturier mai esistiti – Hubert de Givenchy – e una delle attrici più famose e amate di sempre. Il rapporto tra lo stilista francese e Audrey Hepburn è ancora oggi uno dei grandi sodalizi creativi mai raccontati. Per lei, Givenchy disegnò i meravigliosi abiti di Sabrina, Cenerentola a Parigi e, naturalmente, Colazione da Tiffany. 

Un’altra creazione, meno vicina alla natura del designer ma sempre sinonimo dell’affetto che egli provava per Audrey Hepburn, è stata una fragranza unica, commissionata apposta per l’amica e musa, diventata poi uno dei grandi profumi da donna più amati: L’Interdit.

Così raccontano la storia del profumo i giornali di gossip dell’epoca: Hubert lo regala all’amica dicendole che la nostra presenza arriva sempre con il nostro profumo e che perciò lei non poteva non avere il suo profumo personale, unico e riconoscibile. Con l’aiuto del naso François Gravon crea una fragranza speciale, androgina con note di fiori bianchi femminili ma anche con accenni dark di ambra, muschio animale e fava tonka.

Una composizione fatta di contrasti, proprio come la personalità di Audrey. Per presentarlo alla star, Hubert lo vaporizza su un fazzoletto e glielo fa annusare. Lei lo trova meraviglioso. Lui le dice che è solamente per lei. Perché solo lei può portarlo. 

Hubert, però, dopo averlo donato alla sua musa si accorge di aver commesso un errore: lascia il fazzoletto impregnato della creazione in una stanza dove riceve le clienti couture: Tra queste, Jackie Kennedy e Madame Lanvin, che un giorno sentendo l’ambiente inondato da quell’aroma insiste per averlo.

Hubert a quel punto ha un problema, dire a Audrey che avrebbe dovuto mettere in commercio il suo profumo. «Je vous l’Interdis!» (Io glielo proibisco!) lei dice. Così la fragranza nata senza fini commerciali ma come un’ode all’amicizia che legava i due trova un nome: L’Interdit ed entra nel mondo e nella storia della profumeria.

Hubert de Givenchy, l’enfant terrible della moda, è stato il primo couturier a introdurre plastica e alluminio nelle sue creazioni. Il primo ad aver utilizzato solo modelle nere a Los Angeles. Il primo ad aver sdoganato la stampa animalier. Per lui era più importante il valore, il messaggio che le sue creazioni veicolavano, piuttosto che vendere qualche modello in più. Ed è stato anche il primo ad aver fatto pubblicità a un profumo usando un volto, una testimonial, Audrey Hepburn in questo caso.

Oggi la fragranza non è variata di molto, rimanendo – come amava dire la Hepburn – un talismano che dà la forza di fare qualsiasi cosa, un modo di essere “Choc within chic”. Poco mutata nel tempo anche la boccetta, che oggi ha una forma più moderna, ma sempre caratterizzata da grazia e semplicità, le stesse caratteristiche dell’anima gentile ma anche sfaccettata per la quale era stata creata.

Chiudiamo il decennio 1950-1960 con un profumo creato da Madame Grès, a seguito di un viaggio in India in cui viene inebriata di odori, colori e sapori orientali e sconosciuti. Dopo aver aperto la sua casa di moda nel 1942 a Parigi, Madame Grès divenne famosa per i suoi disegni fluidi che drappeggiavano il corpo come pieghe sulle statue greche. Bernard Chant era il profumiere responsabile della creazione di questa nuova fragranza voluta dalla stilista, e anche se a Madame Grès non piaceva personalmente, sentiva che Chant aveva creato una gemma con Cabochard.

Donna di carattere, forte e volitiva, battezza volontariamente il suo profumo con un nome gergale e dice: “Cabochard è il profumo delle donne che fanno sempre di testa propria.

“Caboche” infatti significa testardo in francese, suggerendo che chi indossa questo profumo trasmetterà la sua durezza, nonostante la facciata da “signora per bene”. Può odorare di fiori, ma sono fiori che bisogna bucare attraverso una nebbia di fumo di sigaretta per poterli cogliere.

È un aroma intenso e, per l’epoca, fu rivoluzionario, poiché includeva tra le sue note aromi maschili assolutamente insoliti nel campo femminile della profumeria. Tuttavia, riflette raffinatezza ed eleganza, e rappresenta una donna che rifugge dall’ordinario per entrare nel mondo inesplorato. E’ un cosiddetto chypre cuioiato (per la definizione di chypre, vi rimandiamo al secondo articolo della serie, quello dedicato alla Maison Guerlain).

Nella sua piramide olfattiva, centinaia di aromi provenienti dal continente Orientale si uniscono e si mescolano a note speziate, fruttate, aromatiche e floreali, in combinazione con agrumi e persino tabacco e cuoio. Una fusione impensabile che crea un finale unico, indescrivibile e inconfondibile, e che ha ispirato numerose composizioni sia nell’immediato ma anche più in là nel tempo.

 

Cabochard si inserisce dunque nel filone che abbiamo visto iniziare nel secondo dopoguerra, con fragranze come Bandit (ve lo ricordate? Non per nulla contiene il galbano come Cabochard), profumi che sfidano gli stereotipi, che iniziano a smontare le barriere tra uomini e donne – dopotutto, chi l’ha detto che certi profumi o certe note devono appartenere ad un sesso piuttosto che ad un altro? – che sfidano le convenzioni e vengono creati per stupire e farsi notare.

E voi: avete delle note olfattive o dei profumi che non osate indossare? Fatecelo sapere nei commenti e sui social!




I profumi che hanno fatto la storia: Eau d’Hermès

di Claudia Marchini

Nella puntata dedicata agli anni ’20 abbiamo parlato della ventata di energia, di ottimismo, della voglia di felicità e allegria che si percepiva dopo gli anni bui della guerra. E così furono gli anni’ 50: più che mai si sente la voglia di cambiamento, anche favorito dal benessere della ricostruzione. Con la liberazione, gli americani portano in Europa il chewing gum e i blue jeans, il rock ‘n’ roll e le t-shirt. 

Le donne, costrette durante la guerra a lavorare nelle fabbriche belliche, scoprono l’indipendenza economica. 

Nasce il prêt-à-porter, e anche le fragranze diventano più accessibili, e più leggere e vivaci. 

In questi anni, nascono anche le eau de toilette maschili con lavanda e vetiver che sottolineano una eleganza discreta, anche se il profumo maschile resta ancora legato al rito della rasatura.

È del 1951 l’uscita di Eau d’Hermès, che il celeberrimo naso Jean-Claude Ellena ha definito come una vera e propria opera d’arte olfattiva. L’Eau d’Hermès è un’acqua aromatica, costruita interamente attorno ai sentori di cuoio. Più di tutte le altre fragranze, questa celebra il savoir faire artigianale di Hermès nella lavorazione della pelle, ed è forse una delle prime fragranze che possiamo definire unisex. 

Quella di Hermès è una storia tutt’altro che convenzionale. Infatti, non è sempre stata una maison di moda come la conosciamo oggi: in origine, e per molti anni dopo la sua fondazione, l’azienda non aveva nulla a che fare con il lusso e realizzava equipaggiamento da equitazione.

Thierry Hermès inizia la sua carriera da un piccolo artigiano a Pont-Audemer, in Normandia. Nel 1837 si trasferisce a Parigi per avviare la propria azienda specializzata nella produzione di bardature, selle e altre attrezzature per l’equitazione.

Nella seconda metà del XIX secolo l’azienda viene rilevata da Emile-Maurice Hermès, nipote di Thierry, che amplia il repertorio del marchio e crea il primo prodotto paragonabile a una borsa: un contenitore per portare attrezzature come stivali o selle, così apprezzato dai clienti da essere usato anche come valigia. Sebbene il marchio e la sua produzione oggi siano molto più ricchi rispetto al 1837, Emile-Maurice è ancora considerato il cervello e l’anima della maison poiché si è sempre evoluto in stretta simbiosi con lo sviluppo sociale: ad esempio, quando l’auto ha iniziato a diffondersi tra la popolazione, Hermès ha immediatamente esplorato le nuove possibilità offerte dal bagagliaio.

La sua attività rimane senza logo fino al 1919, quando due nipoti di Thierry introducono il semplice logotipo Hermès Frères (“fratelli Hermès”) composto con un carattere handwrite, scelta coerente agli standard dell’epoca

Il marchio rimane invariato fino agli inizi degli anni ’50, quando viene lanciato l’iconico simbolo della carrozza nobiliare trainata da un cavallo. Il simbolo è direttamente ispirato al dipinto “Le Duc Attele, Groom a L’Attente” (“carrozza agganciata, sposo in attesa”) di Alfred de Dreux. Il 1951 in casa Hermès è infatti un anno rivoluzionario: con la morte di Emile-Maurice si chiude l’era degli Hermès Frères. Per la prima volta in oltre cento anni, l’azienda usciva dalla linea di sangue sotto la direzione del genero di Emile, Robert Dumas. Egli volle subito rimarcare la continuità con l’eredità del passato battezzando il passaggio del testimone con un profumo dedicato a Emile stesso e che rappresentasse l’eleganza Hermès. Edmond Roudnitska, (che abbiamo conosciuto la scorsa puntata con Diorissimo) recepì questo spirito creando un profumo che emanasse classe e tradizione, ma reinventato per guardare al futuro. 

Eau d’Hermès venne inizialmente creata per i clienti di 24, Rue du Faubourg Saint-Honoré e solo successivamente per tutti quanti ne facessero ordinazione alla boutique di Parigi. Veniva presentata in un flacone di cristallo ispirato alle vecchie lanterne da calesse e prodotto delle manifatture Saint Louis ornato da un fiocco di cuoio.

Le sensazioni offerte dalla profumazione sono infinitamente ricche di sfumature. La piramide olfattiva si apre tutta in freschezza, con lavanda, bergamotto, olio essenziale di petit grain, limone e salvia. L’incipit aromatico sfuma su un cuore di spezie: cumino, coriandolo, cannella, cardamomo regalano alla pelle una sensualità coinvolgente. Il fondo della piramide olfattiva si fa caldo, intenso e aromatico. Le note carezzevoli della vaniglia incontrano quelle balsamiche del legno di sandalo e del legno di cedro. La fava tonka apporta alla composizione una cremosa morbidezza. 

Simbolo di raffinatezza estrema, la fragranza è oggi racchiusa nel classico flacone a forma di parallelepipedo, dagli angoli stondati e con il tappo a forma di bombetta.




I profumi che hanno fatto la storia: il dopoguerra

di Claudia Marchini

Nella scorsa puntata abbiamo parlato di Joy, la fragranza creata da Jean Patou nel 1929 come antidoto all’atmosfera di preoccupazione che si era creata a causa della crisi economica. La prima fragranza di cui parliamo oggi vide la luce nel 1946 per celebrare la fine della seconda guerra mondiale: si tratta di Le Roy Soleil della stilista Elsa Schiaparelli.

La particolarità di questa fragranza sta nella bottiglia, che fu disegnata nientemeno che dal grande Salvador Dalì e realizzata dalle cristallerie Baccarat in soli 2000 esemplari.

La bottiglia è stata pensata come un omaggio a re Luigi XIV e veniva presentata in un grande guscio di metallo. Il tappo rappresenta un sole e sormonta una roccia battuta dalle onde. Gli uccelli in volo, disegnati all’interno del disco solare, creano una prospettiva aggiuntiva e formano un viso trompe-l’oeil. Il nome Roy Soleil è stato scelto anche perché faceva eco a Place Vendôme, sede della Maison Schiaparelli, perché prima della Rivoluzione francese si chiamava Place Louis le Grand (e infatti una statua del monarca occupava in precedenza il posto dell’attuale Colonna Vendôme).

E a proposito di star e personaggi famosi che hanno apprezzato la fragranza, non possiamo non citare la famosa Wallis Simpson, nota al mondo per essere stata il motivo della rinuncia al trono da parte di Edoardo VIII. Come sappiamo, il fratello gli subentrò con il nome di Giorgio VI, lasciando a sua volta il trono a sua figlia Elizabeth, che a 96 anni ancora regna saldamente sul Regno Unito. Ma questa è un’altra storia…

Dicevamo: la Duchessa di Windsor, alla quale Elsa Schiaparelli aveva offerto un flacone del profumo, le scrisse: “Cara Madame Schiaparelli, è il flacone più bello mai realizzato, e il Roy Soleil è un gentiluomo molto persistene e dolce… Ha soppiantato la fotografia del Duca sulla coiffeuse!”.

Data la tiratura estremamente limitata, e l’enorme successo della fragranza che – nonostante fosse molto costosa andò letteralmente a ruba – vi sono ormai pochi esemplari dell’epoca che hanno ancora il jus al suo interno. Questo profumo veniva descritto come dolce, devastante, super-longevo, lussuoso, regale, ma purtroppo non è arrivato fino ai giorni nostri. Dobbiamo quindi limitarci ad immaginarla e se vogliamo vedere dal vivo uno dei flaconi originali possiamo visitare il Museo del profumo di Milano, che ne possiede un esemplare. Il Direttore del Museo, Giorgio Dalla Villa, ci ha spiegato che è molto difficile trovare un pezzo con ancora tutti i raggi del sole intatti: il flacone è infatti pesante e i raggi sono delicati, perciò in alcuni punti sono spezzati. (per info e prenotazione visite guidate: https://museodelprofumo.it, museodelprofumo@virgilio .it).

Ma altri profumi famosi sono stati creati nella seconda metà dagli anni Quaranta, proprio per celebrare la pace e il ritrovato ottimismo. Ormai i couturier sono entrati prepotentemente nel mondo della profumeria e impongono fragranze di carattere, per farsi notare. Parliamo per esempio di Miss Dior e Vent Vert (Balmain), creati nel 1947 e di Bandit e Fracas di Robert Piguet, usciti rispettivamente nel 1944 e 1948.

Il profumo Miss Dior fu introdotto sul mercato per il Natale del 1947, lo stesso anno del lancio della prima collezione firmata da Christian Dior, ed è stato creato da Paul Vacher.

La fragranza, imbottigliata in prestigioso vetro di Baccarat, reca il nome della sorella Catherine Dior. Il profumo è un tripudio di note floreali, di agrumi e patchouli  con un sottofondo cipriato. La storia racconta che fu una segretaria dello stilista a dare lo spunto per la scelta del nome. Catherine era infatti irrintracciabile da alcuni giorni e attesa ad una riunione. Al vederla, la donna esclamò: “Oh, Miss Dior“, che venne quindi scelto come nome per la nuova fragranza!

Miss Dior arriva in profumeria accompagnata dal lancio della collezione “Corolle”, che consacra il mito del New Look. Il profumo viene vaporizzato nelle sale dell’edificio durante il défilé: una pubblicità che diede benefici al suo lancio nelle boutique.

Per Monsieur, che si auto definì “couturier-parfumeur“, il profumo doveva essere un “chypre d’eccezione sinonimo di amore ed eleganza assoluta“.

Gli altri 3 profumi di cui vi vogliamo parlare sono tutti opera di Germaine Cellier, primo “naso” donna della storia del profumo, soprannominata “enfant terrible”. In un mondo essenziero all’epoca dominato dagli uomini Lady Germaine appare come una figura di rottura, una fresca ventata di aria nuova. Dopo un’infanzia a Bordeaux e gli studi parigini Cellier lavora in realtà importanti come Roure Bertrand e Colgate-Palmolive prima di avvicinarsi all’incontro che le cambierà la vita con il grande artista Robert Piguet, stilista di Paul Poiret, uno dei primi e fervidi sostenitori della necessità del binomio moda-profumeria.

Nel 1944 vede la luce Bandit di Robert Piguet, che rappresentava un’idea di donna completamente nuova, dirompente e che rispecchiava un momento in cui le cose stavano davvero cambiando per l’autodeterminazione femminile.

Bandit rompe tutti i canoni ed è infatti considerato il primo profumo chypre-cuoiato della storia. Nell’apertura, accanto alle note agrumate e aldeidate, compare subito prepotentemente la sferzata verde del galbano. Gelsomino e patchouli donano al profumo un tocco esotico mentre il cuoio e il muschio di quercia creano una scia tenebrosa. Un profumo per donne moderne pronte ad affrontare le grandi battaglie sociali dell’epoca.

Era una nuova era, a cui nessuno era preparato, e questo si rifletteva anche nella sfilata stessa in cui venne presentato Bandit, dove le modelle, vestite da malvagi banditi con maschere nere, sfilavano tenendo in mano coltelli, brandendo revolver giocattolo e – si dice – persino rompendo bottiglie di profumo in passerella. Proviamo ad immaginare lo stupore e lo scandalo che deve aver provocato all’epoca!

Pierre Balmain intraprende gli studi di architettura a Parigi ma li abbandona molto presto per seguire la sua passione per la moda. Dopo la sua prima collezione, di gran successo, chiede a Germaine Cellier di creare una fragranza che rappresentasse “l’aria di libertà e cambiamento del dopo guerra”, che non somigliasse ai classici profumi fioriti di moda all’epoca, un bouquet di sentori sani e vivificanti della campagna. Nacque così Vent Vert.

Vent Vert è considerato il primo profumo “Floreale – Verde” della storia della profumeria e vide la luce nel 1947. L’elemento rivoluzionario nella composizione della Cellier era il galbano, una resina gommosa dall’odore molto caratteristico che aveva già sperimentato con Bandit e che qui viene utilizzata in vera e propria overdose.

E’ invece del 1948 il secondo profumo creato da Cellier per Piguet: Fracas

Il lancio di questa fragranza è legato alla scandalosa collezione che Robert Piguet presenta nel 1948, suscitando scalpore per le sue idee audaci e sexy. Germaine Cellier vuole creare una fragranza che faccia sentire chi la indossa un vero “schianto”, immaginando una donna enigmatica che lascia una scia ammaliante di tuberosa. Note di testa di fiore d’arancio con un cuore misterioso di tuberosa, gelsomino e gardenia miscelati alla ricchezza del sandalo e alla delicatezza del muschio: Fracas è a ragione considerato LA fragranza di riferimento per chi ama la tuberosa. 

La sua formula seducente e cremosa si fonde alla pelle della donna che lo indossa e la riscalda con la sua sorprendente alchimia. A differenza di tante fragranze tradizionali a base di fiori bianchi, Fracas è misterioso e sensuale: non per nulla, è uno dei profumi preferiti (se non il preferito) della star Madonna (che ha raccontato fosse anche il profumo di sua madre .

Ma non solo Madonna. Tra le star che hanno amato e continuano ad amare questo capolavoro ricordiamo Kim Basinger, Marlene Dietrich, Ava Gardner ( che pare lo abbia lanciato in viso a Frank Sinatra). Insomma, una fragranza imperdibile per non ama passare inosservata!

 




L’Aida di Anna Netrebko infiamma Verona

Dieci minuti di standing ovation hanno chiuso la rappresentazione dell’Aida di Giuseppe Verdi all’Arena di Verona. Sabato 16 luglio, in una serata prossima al sold outè trionfare è stata Anna Netrebko nel ruolo della protagonista, la Celeste Aida figlia del re etiope Amonasro e schiava in Egitto. Carismatica in “Ritorna vincitor”, suadente in “O cieli azzurri” e poi ancoracombattuta e accorata nel tragico duetto con Amonasro e sensuale in quello con l’innamorato Radames, Netrebko ha saputo dominare la scena anche grazie all’intesa conYusif Eyvazov, suo compagno nella vita e sul palcoscenico.  Lasciate al di fuori dell’anfiteatro romano le polemiche sull’utilizzo del “blackface”, il pubblico del 99° Verona Opera Festival è rimasto incantatodal ritorno in scena del soprano russa nell’opera regina dell’Arena.

Accompagnata da un cast di eccezione a iniziare daltenore Eyvazov nel ruolo del guerriero Radames combattuto tra l’amore per Aida e l’amore per la propria patria dal mezzosoprano Anna Maria Chiuri nel ruolo di Amneris, figlia del Re degli Egizi e sfortunata terza nel triangolo amoroso in scena. Applausi anche per Amonasro interpretato dal baritono Ambrogio Maestri che alterna la dolente supplica al Re degli Egizi con l’intransigente duetto con Aida, per il Re degli Egizi del basso Romano Dal Zovo e per il gran sacerdote Ramfis del basso polacco Rafał Siwek.

L’allestimento dell’Aida proposta dal 99° Verona Opera Festival è quello monumentale e faraonicofirmato, vent’anni fa, da Franco Zeffirelli che porta in scena un Egitto dorato, magnificente, prezioso, sovrabbondante, immaginario e sontuoso sovrastato da una colossale piramide e su cui vegliano gli occhi delle 14 sfingi e dei quattro idoli collocati sugli spalti e sulla scena La scena monumentale e tradizionale, anche grazie ai costumi multicolori di Anna Anni e alle coreografie originali di Vladimir Vasiliev, restituisce la doppia anima dell’opera di Verdi solenne ed esotica in costante equilibrio fra l’intimismo dei duetti sottolineato da calibrati giochi di luce e la grandeur del trionfo e delle celebrazioni pubbliche come nell’invocazione a Fthà o nell’esortazione alla guerra. Amori, gelosie, passioni, vendette, drammi dilanianti, pentimenti e messaggi di pace tra popoli si alterano sul palco in una rappresentazione che non può che suscitare stupore e meraviglia tra gli spettatori.  Non manca chi parla perfino di un allestimento hollywoodiano e di una “operazione esteticamente abbagliante” per questo allestimento dell’opera tratta da Verdi dal soggetto originale dell’egittologo Mariette e rappresentata in Arena fin dalle origini nel 1913.

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Sul podio di Aida il Maestro Marco Armiliato, Direttore musicale del 99° Arena di Verona Opera Festival 2022, alla guida di Orchestra della Fondazione Arena e Coro preparato da Ulisse Trabacchin. Insieme al Ballo areniano coordinato da Gaetano Petrosino, oltre alla Akmen di Ana Sophia Scheller, fatale spirito guida creato da Zeffirelli appositamente nel 2002 (all’epoca per Carla Fracci), si confermano i due primi ballerini Eleana Andreoudi e Alessandro Staiano.

Si può dire quindi che l’Arena di Verona rimane il teatro migliore dove godersi l’Aida nella lunga stagione estiva. Da non perdere le prossime repliche: 24, 28 luglio (ore 21.00); 5, 21, 28 agosto (ore 20.45) e 4 settembre (ore 20.45).​




La magia de La Traviata incanta l’Arena di Verona

Emozioni e magia incantano le migliaia di spettatori seduti sugli spalti dell’Arena di Verona che si zittiscono improvvisamente quando i violini aprono il Preludio de La Traviata di Giuseppe Verdi nell’allestimento di Franco Zeffirelli, l’ultima sontuosa creazione firmata dal Maestro toscano che ha inaugurato il Verona ’Opera Festival del 2019. Un affresco sulla Parigi dell’Ottocento con un trionfo di colori, luci e costumi che portano lo spettatore subito nel cuore dell’opera più rappresentata al mondo. Lo spettacolo, diretto dal Maestro Marco Armiliato, direttore musicale del Festival, adatta il percorso intimo e psicologico di Violetta, travolta dall’inaspettata storia d’amore tanto da spingersi al sacrificio di sé, alla grandiosità degli spazi areniani con una scena ambiziosa su più livelli resa possibile da una colossale scatola scenica.  Ancora poche repliche per uno spettacolo da non perdere: 22, 30 luglio (ore 21.00), 6, 20 agosto e 1 settembre (ore 20.45). Dopo occorrerà attendere l’estate del 2023 quando, per il Festival del centenario, sarà ripresa anche LA Traviata allestita da Zeffirelli insieme ad a altri sei titoli.

“Questa Traviata vuole essere un omaggio all’arte e alla tecnica di Zeffirelli, da parte di tutte le maestranze areniane, cui è richiesto un lavoro d’eccellenza. Come lui, inoltre, vogliamo credere nei giovani, e anche in questa produzione, accanto a stelle affermate, debuttano virgulti a cui auguriamo una carriera internazionale” racconta Cecilia Gasdia, Sovrintendente e Direttore Artistico di Fondazione Arena, ricordando come nel 1984 fu scelta proprio dal Maestro toscano come Violetta, ne La Traviata diretta da Carlos Kleiber, per poi aggiungere: “Da Sovrintendente, trentacinque anni dopo, è stato un onore per me poter affidare a Zeffirelli un nuovo allestimento e realizzare un sogno che coltivava dal 2008”. L’allestimento in scena de La Traviata “raccoglie l’idea originale di Zeffirelli, quel geniale flash forward che seguendo la musica di Verdi origina una storia d’amore fra le più belle di sempre, e la amplifica rendendola adatta all’unicità degli spazi areniani. Il tutto, grazie anche ai suoi collaboratori, nel segno della cura del particolare, anche nella scena più affollata, che contraddistingue l’opera sempre viva del Maestro. È stata lungamente, accuratamente preparata con lui e presentata al suo fianco nella primavera 2019. Ora la riproponiamo per la prima volta, rendendogli giustizia con un irripetibile cast di stelle” aggiunge Stefano Trespidi, vice Direttore Artistico.

Si inizia dalla fine, dal corteo funebre di Violetta, la Traviata il cui destino, evidenziato dalle note dolenti del Preludio, appare segnato fin da subito. L’irrompere dell’amore per Alfredo porta alla sorpresa, all’esplosione di gioia incontenibile, prima che venga chiesto e accettato il passo indietro per il bene dell’amato e quindi alla rinuncia e al riscatto. La storia è nota per un ruolo titanico che ha visto protagonista la giovane soprano armeno Nina Minasyan che ha dominato la scena commuovendo con grazia e delicatezza  il pubblico dell’Arena che, a sua volta, le ha tributato una standing ovation. Lunghi applausi nella rappresentazione del 15 luglio anche il tenore Francesco Meli, tornato in Arena come Alfredo Germont e per il baritono Amartuvshin Enkhbat (già Nabucco) nel ruolo di Giorgio Germont.

Impreziosiscono l’allestimento i costumi creati da Maurizio Millenotti, le luci di Paolo Mazzon e le coreografie di Giuseppe Picone interpretate dal Ballo dell’Arena coordinate da Gaetano Petrosino e con i primi ballerini Eleana Andreoudi e Alessandro Staiano. L’Orchestra della Fondazione Arena e il Coro preparato da Ulisse Trabacchin sono diretti dal Maestro Armiliato.​