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Sostenibilità in cucina

La cucina “zero waste” ovvero che non produce alcun rifiuto è tra i nuovi trend nella cucina d’autore. Non solo quindi attenzione spasmodica al prodotto biologico e, ancora meglio, ai piccoli fornitori locali, ma anche focus sul riciclo, riutilizzo e riduzione di ogni scarto. Una ristorazione pienamente sostenibile passa infatti inevitabilmente dalla lotta agli sprechi alimentari.
Tra i pionieri di questa scelta innovativa di ristorazione ci sono il tre volte stellato Massimo Bottura a e Dan Barber. Lo chef alla guida de “L’Osteria Francescana” ha dato vita nel 2016 al progetto Food for Souls, una Ong che anche grazie all’esperienza maturata con i Refettori, combatte gli sprechi alimentari. Barber invece, tra Londra e New York, ha creato dei temporary restaurant “WastED” con l’obiettivo di mostrare la creatività della cucina del riciclo e allo stesso tempo far riflettere sull’enorme spreco alimentare che, quotidianamente, avviene sulle tavole dei ristoranti di tutto il mondo. Ma non sono i soli. La sostenibilità permea ormai ogni ambito della vita sociale e personale e l’applicazione più integrale di questo approccio ai fornelli porta appunto all’approccio “zero waste”.

È un po’ come tornare indietro alle tradizioni contadine quando non era ammissibile sprecare le già limitate risorse (la francese bouillabaisse è un tipico esempio di queste tradizioni, ma anche la ribollita tanto per “giocare in casa”). Nel nuovo Millennio tuttavia la ricerca del “no waste” si sposa con una maggiore consapevolezza e con la volontà di perseguire fino in fondo i valori sostenibilità ambientale, economica e sociale.

In questi ultimi anni stanno aumentando le sperimentazioni di nuovi modelli di ristorazione a zero rifiuti anche se spesso si ricorre al format “pop up restaurant” piuttosto che a un locale stabile, come è accaduto con il trendy Zero Waste Bistrot di New York, inaugurato nel corso della Design Week per invitare a riflettere sull’economia circolare. In parallelo sono in crescita anche le certificazioni rivolte all’eco ristorazione come le americane Green Restaurant 4.0 Standards e Green Seal Gs-46, la neozelandese The Better Cafè and Restaurant e l’europea Nordic Ecolabelling for Restaurants.

In Italia il trend è ancora agli albori, soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione creativa della cucina “no waste”. Ma la direzione è ben segnalata non solo dalle esperienze estere, ma anche dall’elevata sensibilità che le nuove generazioni mostrando sul tema. E a Milano la sperimentazione appare già ben a avviata.

Franco Aliberti ha impresso una svolta sostenibile nella cucina del ristorante Tre Cristi. La parola chiave è cucina attenta all’ambiente ed ecosostenibile: ogni piatto esalta le singole materie prime, presentate in diverse consistenze e utilizzando tutte le parti commestibili di frutta e verdura. Una innata curiosità e voglia di sperimentare: Franco Aliberti si avvale delle più moderne tecniche di cottura ma predilige un ritorno all’uso di cucina ancestrale, materica, come quella della griglia, che diviene garanzia di una cucina personale e decisamente creativa. “Sotto i riflettori il singolo ingrediente, bilanciato al massimo da altri due di supporto, perché amo colpire con la semplicità più che con la complessità, reinterpretando anche un semplice broccolo con una vena giocosa, senza perdere di vista la sostanza del piatto” racconta Franco Aliberti.

Tra le apertura più recenti il Røst porta invece in scena milanese un concetto di cucina circolare, con la riscoperta dei tagli poveri e una selezione di vini naturali di nicchia.
Massima attenzione alla materia prima e utilizzo degli ingredienti nella loro totalità caratterizzano la proposta gastronomica di una carta che ha due focus principali: i vegetali, dove la verdura di stagione è regina del piatto e i tagli poveri. Piatti della tradizione con gusti decisi, realizzati con delicatezza, pensati per tutti. Al numero 3 di Via Melzo, che sempre di più si distingue come la nuova food street del distretto di Porta Venezia. La carta del Røst abolisce le categorie di ordine (antipasti, primi, secondi, contorni), prediligendo un racconto orizzontale tra piccoli piatti da condividere liberamente, per favorire l’assaggio e la convivialità. Le proposte cambiano in relazione alla disponibilità di materie prime, aggiornandosi anche giorno per giorno per valorizzare gli ingredienti ed evitare gli sprechi. Una successione numerica caratterizza ogni menù, a testimonianza della freschezza di ogni selezione. La parete d’ingresso mette in scena i protagonisti con il Wall of Fame: 16 piatti in ceramica, ognuno raffigurante un produttore/fornitore di materie prime, disposti nello spazio a creare la ø di Røst.

Tra le esperienze all’estero più significative in evidenza quella d el Silo a Brighton nel Regno Unito a cura di Douglas McMaster. Porta in alto un concetto integrale di “zero waste”: i prodotti sono coltivati localmente e consegnati senza packaging, le bevande alcoliche (prodotte attraverso la fermentazione) o meno sono prodotte in casa utilizzando anche le erbe del territorio, i piatti sono di plastica riciclata, tavoli e sgabelli derivano dal processo di riciclo del legno, gli avanzi alimentari infine finiscono in una compostiera (messa a disposizione anche al resto della comunità) in grado di generare fino a 60 chili di compost in 24 ore. “Silo è nato dal desiderio di innovare l’industria alimentare dimostrando rispetto per l’ambiente, per la produzione del cibo e per il nutrimento dato al corpo. Questo significa che noi partiamo dalla forma originaria degli ingredienti, evitando gli sprechi nella preparazione dei piatti e preservando l’integrità e i valori nutrizionali degli alimenti” racconta McMaster. Una nuova etica in cucina che si sposa a menù strabilianti. Nei menù degustazione (quattro portate a 33 sterline a testa) troneggia, ad esempio un gelato ai semi di zucca con foglie di fisco, mentre tra gli snack si può scegliere per 3 sterline un piatto di spine di sgombro croccanti fermentate nel chili.

L’idea alla base dei locali Instock, nati ad Amsterdam e ora presenti anche a Utrecht e Anversa, oltre che con furgoncini attrezzati per lo street food, è quella di utilizzare cibi brutti ma buoni, ovvero quelli scartati dalla catena della grande distribuzione per problemi di standard di qualità o di sovrapproduzione, così da sensibilizzare gli utenti a una scelta sostenibile “Buttare via un prodotto alimentare non significa solo gettare via i soldi, ma non curarsi dell’enorme spreco di energia prodotto per la produzione e la conservazione di un alimento poi buttato” sostengono da Instock dove sono persino riusciti a creare due tipologie da patate e pane di scarto, la Pieper Bier e la Bammetjes Bier. L’utilizzo di prodotti invenduti o di scarto da parte degli chef di Instock significa anche che ogni giorno è diverso dall’altro nei locali della catena di ristorazione dove la creatività è, necessariamente, la parola d’ordine.

Nolla a Helsinki di Carlos Henriques, Luka Balac e Albert Franch Sunyer. Il Nolla è il primo ristorante a zero rifiuti della penisola scandinava, divenuto alla fine stabile dopo una serie di aperture temporanee (in ultima quella presso il Christmas Markets). In pochi mesi di vita è subito diventato una delle esperienze da non perdere per chi va a Helsinki grazie creatività ai fornelli e alla tecnologia utilizzare per render possibile il progetto. La scelta dei tre startupper, finanziati tramite una raccolta di crowdfunding, è stata integrale: non solo l’attenzione a evitare ogni spreco in cucina è totale, anche oggetti, utensili, energia e arredi per il locale sono stati accuratamente scelti seguendo il mantra “riduzione degli sprechi, riciclo e riutilizzo”. Il locale si è perfino dotato di una macchina da compostaggio per gli avanzi alimentari. Il percorso degustazione da due portate costa 45 euro, quello da tre invece 59 euro.
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Trentodoc, lo spumante metodo classico “figlio” delle Dolomiti

Capodanno si avvicina e per il count down le bollicine di alta quota del Trentodoc, il metodo classico italiano nato sulle Dolomiti, possono essere una valida alternativa alle blasonate bollicine francesi. Con poco più di un secolo di storia e a 26 anni dal riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata, il Trentodoc è una delle più apprezzate alternative italiane allo Champagne. Produzione di nicchia, viticoltura eroica e una forte identità sono le carte vincenti di queste bollicine di montagna capaci di attrarre sempre di più i wine lovers di tutto il mondo.

Il Trentodoc ha saputo esaltare fin da subito la forte identità territoriale che contraddistingue queste bollicine di montagna unendo le 54 cantine (e 189 etichette) alleate nel Consorzio Trentodoc. Il risultato è un prodotto riconoscibile grazie alle sue caratteristiche distintive determinate dalle diverse altitudini (l’altitudine media dei vigneti si trova intorno ai 450 metri), dal microclima fresco e temperato che influisce sull’acidità dell’uva e dall’effetto termoregolatore dell’ “Ora del Garda” (il vento con effetto termoregolatore, fondamentale per la viticoltura, che soffia dall’omonimo lago), dalle forti escursioni termiche tra giorno e notte e, inifne, dal terreno caratterizzato a una forte componente calcarea e pietrosa.

La produzione di Trentodoc inizia nel 1902 con la capacità visionaria di Giulio Ferrari, studente all’Imperial Regia Scuola Agraria di San Michele, di identificare le analogie rispetto al territorio dello champagne e replicare in quota il metodo di produzione delle bollicine francesi. Le Cantine Ferrari, sono poi passate negli Anni ’50 alla famiglia Lunelli, mentre le orme di Ferrari sono state seguite da numerosi altri viticoltori tanto che, nel 1984, è stato fondato l’Istituto Trento Doc per la promozione delle bollicine di montagna, nel 1993, si è arrivati al riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata Doc “Trento”, la prima Doc riconosciuta in Italia riservata a un metodo classico e la seconda al mondo dopo lo Champagne.

Oggi la produzione di Trentodoc è affidata al disciplinare che fissa canoni e controlli lungo la filiera a cominciare dai territori dedicati che comprendono la Valle dell’Adige, la Valle di Cembra, la Vallagarina, la Valle del Sarca, la Valsugana e le Valli Giudicarie, incidendo praticamente sul territorio della provincia. Quanto alle uve dalle quali si ottiene il Trentodoc sono lo Chardonnay che dona longevità, eleganza e carica aromatica; il Pinot nero a cui si deve il bouquet fruttato; il Pinot bianco e il più raro e il Pinot meunier, in grado di adattarsi a qualsiasi terreno. La vendemmia è svolta manualmente ed è in genere anticipata rispetto a quella di uve legate alla produzione di vini fermi per assicurare il giusto equilibrio tra acidità e zuccheri.

Secondo quanto previsto dal disciplinare, il “vino base”, dopo l’introduzione di lieviti e zuccheri selezionati, è affidato a una lenta maturazione in bottiglia, che varia da un minimo di 15 mesi a un minimo di 36 per la riserva ma arriva fino a 10 anni sui lieviti per i Trentodoc più raffinati ed evoluti. Rispetto al sentire comunque che vuole le bollicine un prodotto da godere giovane, sono numerose le cantine che stanno sperimentando affinamenti sui lieviti sempre più prolungati per esaltare la ricchezza e la lunga vita del prodotto. I nuovi trend intrapresi negli ultimi anni dal Trentodoc sono infatti legati a tempi e forme di affinamento. La cantina Cesarini Sforza, ad esempio, fondata nel 1974 da Lamberto Cesarini Sforza, conserva per ogni annata mille bottiglie magnum per verificare l’evoluzione del prodotto nel tempo. In un caso, quello dello spumante Lagorai prodotto dalla cantina Romanese (Trento), l’affinamento avviene in acqua, nel Lago di Levico (bandiera Blu d’Europa) dove, a partire dal 2013, 2.000 bottiglie (Dosaggio Zero Lagorai, 100% Chardonnay) riposano per 500 giorni chiuse in quattro gabbie d’acciaio a venti metri di profondità e il vino acquista un perlage con bollicine più cremose e più fini. La temperatura costante del fondale del Lago di Levico, una sorta di cantina naturale, intorno ai sette gradi permette al vino di maturare sui lieviti nelle migliori condizioni anche grazie alla pressione esercitata dall’acqua sul tappo. Un metodo di eccellenza che deve le sue origini al ritrovamento, 10 anni fa, nel Mar Baltico di un antico galeone carico di bottiglie di champagne invecchiate sul fondale marino per oltre 300 anni. È stato proprio questo ritrovamento storico che ha spinto i fratelli Romanese a provare una nuova strada che unisce enologia, territorio e natura.

Tra i trend in crescita nel mercato delle bollicine di montagna, aumentano poi le richieste di dosaggio zero (pas dosé o, per chi preferisce, nature), ovvero lo spumante a cui alla fine dell’affinamento in bottiglia, dopo la fase della sboccatura, non viene aggiunto nient’altro (in caso contrario la bottiglia viene rabboccata con il “liquer d’expedition” che costituisce una ricetta segreta per ogni cantina e può evidentemente intervenire sul vino). Le Cantine Revì, fondate nel 1982 da Paolo Malfer ad Aldeno, sono tra i pionieri questo ambito per cui utilizzano uve Chardonnay e Pinot nero. In ascesa anche le vendite di millesimati (prodotto con uve di una singola annata) e rosé.

Vicepresidente dell’Istituto Trentodoc è Carlo Moser, figlio di quel Francesco Moser che ha fatto sognare l’Italia intera a cavallo di una bici, campione del mondo, recordman dell’ora (e non è un caso che una delle etichette dell’azienda sia il metodo classico Brut 51,151 dal numero di chilometri percorsi in un’ora il 23 gennaio 1984) e vincitore di 273 corse su strada per professionisti. Viticoltori da generazioni, Francesco e il fratello Diego hanno acquistato Maso Villa Warth nel 1979 e da lì hanno avviato la produzione di bollicine di montagna (e non solo) e hanno allestito una sala con bici e trofei dello “Sceriffo”.

Chi vuole saperne di più su questa realtà cosi unica (il Trentodoc è la sola area di produzione di bollicine di montagna) e distintiva può programmare un week end lungo o, meglio ancora, una vacanza a Trento e dintorni, magari iniziando da Palazzo Roccabruna, nel centro del capoluogo di provincia, sede dell’enoteca del Trentino. Quasi tutte le 53 cantine prevedono visite guidate e percorsi di degustazione che permettono di comprendere meglio il territorio e le sue realtà. Meglio tuttavia informarsi in anticipo sugli orari e prenotare per non rischiare di rimanere a bocca asciutta. Le Cantine Ferrari prevedono addirittura sei proposte di tour per un minimo di due persone e con prezzi compresi, a seconda dei prodotti degustati, tra i 15 e i 48 euro Per una giornata indimenticabile si può poi abbinare (a iniziare da 70 euro a persona), la visita alla cinquecentesca Villa Margon, sede di rappresentanza dell’azienda, e una sosta alla Locanda Margon dove si possono gustare i piatti stellati di Alfio Ghezzi. Pedrotti organizza invece visita in cantina e degustazioni a partire da 12 euro fino a 44 euro; Endizzi propone pacchetti a partire da 10 fino a 26 euro; Cantine Monfort da 5 a 20 euro a testa; Maso Martis da 7 a 20 euro. Le 53 meritano tutte di essere scoperte, ognuna infatti ha una sua storia, i suoi valori e i suoi prodotti da raccontare. E sono storie speciali, come il territorio da cui nascono.




Un brindisi a tutta Bottega

Nel mondo, dai duty free alla compagnie aeree, si brinda con i vini Bottega resi iconici dalle bottiglie metallizzate delle bollicine.  Un packaging che come raccontato dal capo azienda Stefano Bottega “non è mai stato un artificio fine a se stesso, ma uno strumento per comunicare la qualità del prodotto”. In particolare,  le bottiglie metallizzate, in particolare la Gold, richiamano Venezia e la sua raffinata eleganza: una bellezza assoluta e mai stucchevole. “Questa bottiglia ha dato prestigio al Prosecco Doc” sostiene l’imprenditore che poi ricorda come “Le due bottiglie sorelle, Rose Gold e White Gold, contengono nell’ordine un Pinot Nero spumante vinificato rosè e un uvaggio Venezia Doc, nuova denominazione compresa tra le colline di Conegliano e la laguna di Caorle”.

L’idea di proporre un percorso di innovazione anche nella presentazione stessa delle bottiglie nasce tuttavia per Bottega nell ‘universo della grappa per cui era stata adottata £una bottiglie in vetro soffiato per trasmettere un concetto di preziosità del distillato. La grappa spray è nata per regalare l’emozione fuggevole di un assaggio olfattivo, in conformità con l’adagio che la grappa si “assaggia prima di tutto con il naso”. La Grappa Riserva Privata Barricata con l’originale bottiglia a base quadrata e l’etichetta che si sviluppa su due facce ha vinto numerosi premi, tra cui nel 2010 l’Etichetta d’Oro del Vinitaly 15th International Packaging Competition”.

E in effetti Bottega nasce nel mondo della grappa 42 anni fa per poi entrare nell’universo variegato del vino a partire dal 1992. A raccontarlo è lo stesso Stefano Bottega oggi a capo dell’azienda: “L’azienda nasce come distilleria e ancora oggi sento che le mie radici affondano nelle vinacce da cui deriva la grappa. Tuttavia quello della distillazione è un mondo circoscritto che ha spinto me e la mia famiglia ad approcciare il vino che con la grappa condivide la stessa origine. E dalle colline di Conegliano il primo passo non poteva che essere il Prosecco che nei primi anni ’90 non aveva ancora conosciuto il boom attuale, ma era soltanto uno dei tanti vini spumanti del panorama enologico italiano. La crescita del Prosecco e di pari passo quella dell’azienda ci hanno consentito di diversificare e di produrre, oltre a molti altri vini anche i grandi rossi della Valpolicella (Amarone e Ripasso) e della Toscana (Brunello di Montalcino, Bolgheri, Chianti). In Valpolicella, a Valgatara, abbiamo una nuova cantina di proprietà, di cui abbiamo appena terminato la ristrutturazione, conservando l’architettura storica dell’edificio”.

La famiglia Bottega è entrata nel vino nel 1992, dapprima commercializzando il Prosecco prodotto da terzi. Nel 2007 con l’acquisizione della sede a Bibano di Godega e di 10 ettari di vigneti coltivati a Prosecco ha iniziato a produrre nella propria cantina che oggi conta oltre 100 autoclavi. Negli ultimi anni nuove acquisizioni a Vittorio Veneto e a Follina hanno portato a 20 ettari i terreni vitati di proprietà nella zona del Prosecco. Nel 2018 è stata aperta la cantina di proprietà a Valgatara in Valpolicella. Sempre dal 2018 è in funzione un’altra piccola cantina a Vittorio Veneto destinata alla produzione del tradizionale Prosecco Colfondo. Dal 2009 ha in gestione diretta a Montalcino una cantina dove vengono prodotti Brunello di Montalcino, Rosso e Sant’Antimo. Oggi  oltre ai vini e alle grappe, il  portafoglio di Bottega conta anche Limoncino, liquori a base frutta e crema e gin grazie a cui copre quasi completamente la gamma del beverage ed esporta prevalentemente in Canada, Germania, Uk, Olanda, Svizzera, Usa, Giappone e Scandinavia.

Tra i progetti più innovativi una particolare attenzione meritano i  “Prosecco Bar”,  un concept ideato da Bottega con la finalità di esaltare le eccellenze del nostro Paese . Nello specifico viene riproposta la filosofia del bacaro veneziano, ovvero di un’osteria informale, dove i cibi vengono presentati sia come “cicheti”, ovvero stuzzichini da consumare al bancone, sia come piatti più strutturati da servire ai tavoli. L’abbinamento con il Prosecco, privilegiato per la sua versatilità, e con altri vini italiani chiude il cerchio. Bottega Prosecco Bar è quindi un’evoluzione di questa filosofia, che estrapolata dalla realtà veneziana, è riproducibile in tutto il mondo. L’asse portante del progetto è il “Perfect Match”, ovvero l’abbinamento ideale tra i cibi tipici delle cucine regionali italiane e i diversi vini proposti da Bottega.

Quanto infine al vino preferito, l’imprendiore non ha dubbi: è il Pas Dosé Millesimato Stefano Bottega, un vino spumante, prodotto con metodo Charmat, che garantisce freschezza e facilità di consumo. Ha la sua cifra identificativa nel basso contenuto di zuccheri e nella prolungata persistenza aromatica, in quanto ha origine da un equilibrato uvaggio che assembla un 80% di uve Glera, le stesse del Prosecco, con un 20% di Chardonnay. Viene spumantizzato in autoclavi d’acciaio, dove in presenza di lieviti selezionati si compie naturalmente l’intero processo di fermentazione. Si può quindi definire un “vino nature”, che accarezza il palato con una struttura essenziale, asciutta e al tempo stesso armonica. Un vino ideale da abbinare alle moeche, ovvero i granchi che tutto l’anno popolano la laguna veneta e che solo per poche settimane all’anno assumono la stato di moeca, abbandonando nel periodo di muta il vecchio carapace.La tradizione vuole che le moeche si mangino fritte accompagnate da una polentina bianca morbida.




Trionfa la commedia brillante La Sposa Conveniente al Teatro Villa

di Giuliana Tonini – La compagnia teatrale Pasticcini & Fragole ha sfornato una nuova prelibatezza: la commedia brillante La Sposa Conveniente, andata in scena il 16, il 17 e il 22 novembre al Teatro Villa di Milano.

Ideata, scritta, diretta e interpretata da Evita Paleari, la ‘capocomica’ della compagnia, La Sposa Conveniente è la storia dei tre fratelli Taylor, Dorothy, Bartholemy e Dave, rampolli di una nobile famiglia inglese caduta in disgrazia economica, che stanno per essere travolti dai debiti lasciati dal loro defunto padre. A mali estremi, estremi rimedi: i due maschi pensano bene di sistemare la sorella col vecchio e donnaiolo, ma ricchissimo, conte Sheppard. Salvo poi pentirsi di tanto cinismo e cercando quindi di rimediare, fino a offrirsi di sostituirsi alla sorella per tenere a bada l’eccessiva vitalità del vecchio conte.

Due ore di puro divertimento, con gag esilaranti, battute scoppiettanti  e con un finale che cita il film Il matrimonio del mio migliore amico. Bravissima Evita Paleari nel ruolo di Dorothy e letteralmente da urlo Marco Berna e Alessandro Oteri nei panni dei due fratelli en travesti. Senza tralasciare, naturalmente, la bravura di Loredana Agosta, interprete della governante Grace, di Mauro Maggioni, il temuto conte Sheppard, che appare per pochi minuti alla fine, ma conquista subito la scena, e di Aurora Cecchettin, il fantasma della dolce mamma Taylor che ogni tanto appare recitando in rima.

La compagnia teatrale Pasticcini & Fragole è attiva da sedici anni. Formata da attori non professionisti, è nata come gruppo di genitori che metteva in scena le fiabe per i propri figli della scuola dell’infanzia Cristo Re in zona Villa San Giovanni a Milano, ed è cresciuta nel corso del tempo in numero e in qualità.

La vulcanica Evita Paleari è anche scrittrice e, nel 2018, ha pubblicato il libro Per fare la segretaria devi avere le scarpe adatte, edito da Albatros, autobiografia autoironica sulla sua pluridecennale esperienza di segretaria di direzione in una delle aziende più importanti d’Italia.

Il ricavato della replica del 22 novembre è stato devoluto interamente in beneficenza a favore di African Dream Onlus, organizzazione no profit, fondata dai coniugi Vincenzo Baggio e Antonella Benigna, presenti in sala, che si occupa di sostenere progetti educativi e sanitari in Uganda e Zambia. 

Informazioni e contatti

Pagina Facebook: Pasticcini & Fragole




Tutto o niente: il nuovo successo di Nearco feat. Tiara

TUTTO O NIENTE è la hit estiva di Nearco,  un brano che concilia l’anima rock dell’artista emiliano, con sonorità spiccatamente elettroniche e dance, impreziosite dalla voce straordinaria della giovane co-autrice TIARA, al secolo Chiara Mendo, che vanta un illustre passato di campionessa italiana di tennis under 16.

Abbiamo intervistato Nearco per conoscere meglio i suoi progetti e tutti i dettagli dell’intensissimo tour che lo vedrà in giro per numerose località dell’Emilia Romagna, Toscana e non solo.

Come è nato “Tutto o niente”?

Ogni mio brano parte da uno spunto che trovo nella realtà di tutti i giorni, in questo caso, la consapevolezza che, dalle esperienze della vita non si possono prendere solo le cose belle, ma si devono accettare (o meglio “sopportare”) anche le cose meno belle. Per cui, se ne vale la pena, si deve già sapere che bisogna prendere tutto il pacchetto. Questo è il messaggio che il brano vuol lanciare in modo simpatico ed ironico.

Qual è la novità di questo nuovo singolo, dal punto di vista musicale?

L’idea di utilizzare sonorità elettroniche e dance che rendessero il brano attuale, solare e in linea con il pubblico che incontro nei miei frequenti appuntamenti live; nello stesso tempo si sono scelte sonorità che potessero incontrare e fondersi con la mia anima rock, che da sempre contraddistingue il mio percorso musicale.

Come nasce la collaborazione con Tiara?

Chiara Mendo, in arte Tiara, l’ho conosciuta grazie a Max Corona (mio chitarrista storico, che ha lavorato anche per Emma Marrone, Lucio Dalla, Sylvie Vartain e lo staff di “Amici”), che ha co-prodotto insieme a me questo brano. E’ stata campionessa italiana di tennis under 16 e avendo viaggiato mezzo mondo, ha una straordinaria padronanza dell’inglese: pertanto abbiamo voluto chiamarla in studio e chiederle di scriverci la parte del brano in inglese. Devo dire che mi ha impressionato, oltre che per le sue doti canore, anche come autrice.

Dove possiamo vederti live e quando?

L’ attività live mi porta in giro praticamente tutto l’anno, sia come “front-man” della mia rock-band, sia come animatore e deejay nei party, nei locali e nelle feste di piazza, con un mio format personale che mi piace definire come “DeejayShow“.  Devo dire che dopo diversi anni di dura gavetta, partendo dall’Emilia, mia zona d’origine, e continuando in Romagna e Toscana, la mia attività live, sta raggiungendo piano piano, una dimensione nazionale. Per questa estate sono circa 80 gli appuntamenti live in programma, che vi invito a trovare, visitando i miei social ed il mio sito ufficiale www.nearco.it.  

Progetti in cantiere?

I progetti a breve termine sono due: continuare la promozione del mio nuovo singolo “TUTTO O NIENTE” per tutta l’estate e concentrarmi sul ricco calendario estivo, che mi vedrà impegnato in sagre, feste di piazza, locali ed eventi fino a fine settembre. Dopodiché da ottobre ripartirà la mia trasmissione televisiva in onda su tutta l’Emilia Romagna e parte del nord Italia, dal titolo “Voto Rocknroll” su DI.TV. e, magari, arriverà anche l’ispirazione per tornare a lavorare su un nuovo singolo.

Links

Sito Ufficiale: www.nearco.it

FbNearco (pagina Fan): https://www.facebook.com/NearcoOfficial/

InstagramNearcoOfficial: https://www.instagram.com/nearcoofficial/

Canale Youtube Nearco Channel: https://www.youtube.com/c/NearcoChannel




Mr Dailom: il rapper controcorrente

YIl rapper varesino Mr Dailom (al secolo Davide di Bartolomeo), dopo i singoli “Vita da cane”, “Porno giapponesi” e “Meridionali” (e due album “Sulle mie gambe” e “Vita da Cane”), torna in radio con un quarto singolo: “Chi sono”, un brano autobiografico, uno story telling che racconta la vita dell’artista attraverso le immagini del suo passato.

Da “Sulle mie Gambe” a “Vita da cane” fino all’ultimo singolo, “Chi sono”, come è stato il percorso artistico e umano di Mr Dailom?

Sicuramente “Sulle mie Gambe” è un disco più combattivo, in cui emerge quella voglia da parte di un Dailom giovanissimo di combattere per ottenere un’opportunità, “Vita Da Cane” è un disco più maturo e fondamentale per la mia carriera, traspare una consapevolezza che mi porta verso una dimensione nuova.

“Chi sono” è un po’ l’emblema di questa evoluzione, certamente è il brano che racconta la mia storia, il pezzo più vero che ho scritto, che mi è nato dal cuore. Si collega in qualche modo al precedente singolo, “Meridionali” che ha, anch’esso, un riferimento alla mia storia personale e famigliare: il ricordo del disagio che i miei nonni e i miei genitori hanno provato quando sono emigrati al nord, un ricordo che si è risvegliato in me in seguito a quanto continuamente leggiamo e ascoltiamo dai media. E’ bene ricordare come nel passato il razzismo in Italia era nei confronti dei meridionali, negli anni ‘80/90 il male del nord erano i meridionali, invece nel 2019 i nordafricani.

Come ti sei avvicinato alla musica e più in particolare al Rap?

Fin da ragazzino ho scoperto di avere un gusto e un’inclinazione verso il rap; la mia curiosità mi ha dato la possibilità di scoprire la cultura e il movimento Hip Hop in Italia, stimolato anche da Fabio Kaso (esponente del rap italiano e varesino), grazie al quale ho iniziato a scrivere quasi per gioco i primi testi.

Ti ritieni diverso da altri tuoi colleghi?

Posso solo dire che la mia musica è vera, ma soprattutto è responsabile, non invento un passato difficile solo per catturare l’attenzione, mi esprimo sì liberamente, ma sempre cercando di riflettere sulla responsabilità che un artista ha nei confronti dei suoi potenziali ascoltatori. Questo è molto importante oggi: è troppo facile crogiolarsi nel degrado.
Se questa è la tendenza oggi allora io voglio andare controcorrente professando dei valori troppo spesso dimenticati, magari è una linea che non paga nell’immediato, ma essere veri resta una condizione fondamentale del fare musica e arte.

Diciamo che voglio essere un artista Punk. Sai cosa significa nel 2019 essere punk? Non seguire la corrente, tutti parlando di droga, tutti si drogano, IO NO e non si sta parlando di Maria, io sono a favore della legalizzazione delle droghe leggere.

Penso che la cosa più punk nel 2019, sia per me far ritornare l’ascoltatore a dei vecchi valori, anche però dando spazio al mio ego, sempre rimanendo su un profilo irriverente.

Mi piacerebbe far tornare le persone che mi ascoltano a diretto contatto con la loro parte più profonda, quella che ci fa apparire fuori moda agli occhi della società odierna, oggi professare l’amore e alcuni valori è controcorrente, spero di riuscirci in futuro in maniera più dirompente.


Un artista che ti ha ispirato e che ammiri particolarmente?

Italiano, Fabri Fibra, americano 5O Cent. Drake sicuramente è il top per le mie orecchie, ma devo dire anche Kendrick Lamar.

Mr Dailom artista e Mr Dailom, o meglio Davide, uomo…

Mr. Dailom, è la parte più profonda della mia personalità, la maggiore espressione del mio ego in tutta la sua potenza, nella mia musica questa parte è rappresentata da pezzi autocelebrativi e rabbiosi.

Al contempo questa parte lascia anche spazio a una personalità più riflessiva, che si manifesta con pezzi carichi di sentimenti e ricordi della mia vita caratterizzati da suoni più rnb e dolci se così vogliamo definirli.

Davide Di Bartolomeo però è la mente, è la parte più razionale e scientifica di me grazie alla quale continuo nel mio percorso artistico a migliorare e perfezionare la mia tecnica, sia comunicativa che vocale.

Entrambi i miei lati sono caratterizzati da un aspetto: sono un lavoratore instancabile in tutti i sensi, perché divido la mia giornata lavorativa su due fronti, lavoro per un’azienda farmaceutica e faccio l’artista per il resto della giornata, poi invece per divertirmi e staccare la spina sono diventato un discreto ballerino di latino americano (ride).


Come vedi Mr. Dailom in futuro?

Sai come mi vedo? Non solo un Rapper, ma come artista in grado di esprimersi con la musica senza canoni di stile e di suono, non mi precludo a nessun genere musicale, voglio lasciarmi andare.

Foto Chiara Sardelli

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Valhalla: a Milano si mangia con gli Dei

di Giuliana Tonini – Chi ama sperimentare tradizioni culinarie di culture diverse non si faccia sfuggire il ristorante Valhalla – La Brace degli Dei, a Milano, il primo ristorante vichingo d’Italia. È in via Gaetano Ronzoni 2, in zona Darsena, e ha aperto lo scorso novembre, dall’idea di due giovani imprenditori, Igor Iavicoli e Milena Vio, appassionati di mitologia norrena. 

Il nome del locale, infatti, si riferisce al mitico luogo dove i guerrieri vichinghi morti in battaglia venivano portati dalle Valchirie e dove, al cospetto del dio Odino, tra banchetti e battaglie ultraterrene, attendevano il Ragnarok, lo scontro finale tra le forze del bene e quelle del male, l’armageddon della mitologia nordica, il crepuscolo degli dei. Anche il logo del ristorante si ispira, oltre alle inconfondibili navi vichinghe, ai tre triangoli del Valknut, il nodo di Odino.   

Entrando nel locale si fa un viaggio nel mitico Valhalla con la vista e col palato, con asce, pelli di cervo e scudi esposti e con piatti di carne dal sapore davvero divino, preparati in chiave moderna secondo gli usi alimentari e le tecniche di cottura degli antichi popoli nordici e seguendo la stagionalità delle materie prime, con un menù che cambia periodicamente.

E così si può gustare selvaggina, che veniva cacciata tutto l’anno, e i capi che venivano allevati e uccisi prima dell’inverno, perché non sarebbero sopravvissuti alle rigidissime temperature, come il vitello, il maiale e l’agnello. Ogni piatto viene preparato con la cottura più indicata al tipo di carne, alla brace in forno a legna, a temperature elevate che danno alla carne l’irresistibile gusto affumicato, oppure bollita a cottura lenta e a bassa temperatura. 

Tra le pietanze che abbiamo gustato segnaliamo, ad esempio, l’Ullr, una tartare di cervo con cipolla rossa, spuma di pino e pane dal sapore a dir poco celestiale, il Munin, petto d’anatra leggermente affumicato con contorno di funghi spadellati, e il Seidr, guanciotto di vitello accompagnato con un gustosissimo purè affumicato. Chi predilige un gusto molto salato può aggiungere alla carne sale affumicato o aromatizzato. Anche i dolci fanno venire l’acquolina in bocca. Uno su tutti, la Svava, spongecake al tè verde e namelaka di pistacchio, mousse al cioccolato bianco e mirtilli disidratati. E se, quando andrete voi al Valhalla, il menù sarà cambiato, state certi che troverete un’offerta di cibi degna di quella che abbiamo provato noi. 

Visto che i vichinghi del XXI secolo sanno che oggi non tutti mangiano la carne, al Valhalla si preparano anche piatti vegetariani.

Da bere si possono scegliere vini da tutta Italia, birre in bottiglia oppure, fortemente consigliata, la birra artigianale alla spina Bi-Max, scegliendo tra chiara classica, ambrata o triplo malto strong. 

Come è intuibile, il nome di ogni pietanza è legato alla mitologia norrena. Le carni hanno nomi di personaggi e creature, i piatti vegetariani nomi di luoghi e i dolci nomi di divinità femminili. 

Quelli che abbiamo assaggiato noi, ad esempio, si richiamano a Ullr, l’arciere degli dei figlioccio di Thor, sempre a caccia per procurare selvaggina per le mense divine, a Munin, che significa memoria, uno dei due corvi di Odino (l’altro è Hugin, pensiero), che parte all’alba e ritorna a sera per appoggiarsi sulle spalle del dio e sussurrargli quello che accade nel mondo, e a Seidr, potente sciamano che portava sandali di pelle di vitello.  

Il paradiso dei guerrieri vichinghi vi aspetta presto a cena o a pranzo.

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Valhalla – La Brace degli Dei

Via Gaetano Ronzoni 2

20123 Milano

Telefono: 02.84041503

Email: info@valhallarestaurant.it

Sito Internet: www.valhallarestaurant.it  

Pagina Facebook: Valhalla Milano

Orari: 

da lunedì a sabato: 19.00 – 23.30

domenica: 12.00 – 15.30

chiuso domenica sera




Stefano Colli: Guarda la notte, omaggio al Fante

Dopo l’anteprima video di Repubblica (https://video.repubblica.it/edizione/bologna/guarda-la-notte-stefano-colli-canta-per-fantelli-e-per-la-lotta-alla-sla/324717/325335), la presentazione del progetto a Rai 3 “Buongiorno regione” e TGR, e Rai Radio 2 (Quelli che a radio 2) arriva il 21 gennaio, finalmente in tutte le radio, tv e negli stores digitali, il nuovo singolo di Stefano Colli, Guarda la notte, omaggio alla memoria del Fante (Gianluca Fantelli) precocemente scomparso a causa della SLA.

Come nasce Guarda la notte?

Guarda la Notte nasce da un testo di Gianluca Fantelli, amico e autore di rara sensibilità artistica, con il quale avevo già collaborato in precedenza, con “Indifferente” pubblicato nel 2015 con l’etichetta indipendente SanLuca Sound e “Dimmi di sì” per il 58°Festival di Castrocaro, di cui sono stato finalista nello stesso anno. Gli avevo chiesto di raccontarmi una storia e lui mi ha regalato la sua, io e Mattia Pallotti (pianista con il quale ho composto la parte musicale) non abbiamo apportato nessuna modifica alla stesura originale! Giancarlo Di Maria con il suo arrangiamento potente e teatrale ha dato un ulteriore e decisivo apporto. Un bellissimo lavoro di squadra insomma! Quando Gianluca lo ha sentito si è profondamente commosso e mi ha scritto una bellissima mail.

Come hai conosciuto Gianluca Fantelli?

Ero stato ad un suo concerto ed ero rimasto profondamente colpito dalla sua musica e dalla sua sensibilità artistica, quindi non vedevo l’ora di conoscerlo. Nel 2014, è poi accaduto, che ero tra i finalisti del contest radiofonico “The Voice of Radio2”, Gianluca mi ha sentito in radio, ha scoperto che ero bolognese come lui e ci hanno organizzato un incontro. Le coincidenze della vita…

Durante  il nostro primo incontro (lui si trovava già in uno stadio avanzato della malattia) poco dopo essersi presentato mi ha detto: “Bene, adesso dimmi… perché sei qui? Che cosa vuoi da me?”. Io ho sorriso e gli ho risposto: “Scrivimi un pezzo!”. Mi ha fatto riflettere sull’ importanza del tempo che abbiamo a disposizione e la sua autoironia mi ha conquistato da subito! Era molto pignolo ed esigente: prima di iniziare a lavorare insieme ha voluto mettermi alla prova affidandomi un brano del suo repertorio da reinterpretere e ha drasticamente bocciato le prime due versioni che gli ho mandato, alla terza però sono riuscito a conquistarlo e alla fine abbiamo firmato tre brani inediti insieme!

Raccontaci qualcosa di questo progetto che ti vede in prima fila nella battaglia contro la Sla.

Per questo progetto sono stato affiancato dall’Associazione “Io Vivrò” che lo stesso Gianluca ha fondato nel 2009 insieme ad un gruppo di amici e che si pone come mission la lotta alla S.L.A., sclerosi laterale amiotrofica con un pensiero particolare rivolto ai bambini disagiati di tutto il mondo, al fine di consentire loro una vita sana e dignitosa. L’associazione è, infatti, attivissima nella raccolta fondi destinati all’aiuto dei malati di S.L.A. e le loro famiglie, anche attraverso adozione di bambini a distanza e partecipando alle lotte per i diritti dei disabili. Hanno contribuito, ricambiati, al lavoro di altre associazioni come ad esempio ASSISLA e FANEP, e sono sempre prima linea, a lottare contro le ingiustizie, fisiche e sociali. A loro io e il mio team vogliamo dare un contributo nel nostro piccolo, aiutandoli ad ottenere una maggiore visibilità e supporto da parte del pubblico e delle istituzioni.

Tra Crudele e questo singolo in quali progetti sei stato impegnato?

 In questi due anni ho continuato a scrivere e lavorare in studio con Giancarlo di Maria, mi sono dedicato al teatro e ho coltivato un mio personale progetto a cui ho dato vita nel 2016 insieme a Giulia Mattarucco, Riccardo Sarti e Maddalena Luppi: la compagnia musicale-teatrale “I Muffins“. Sono stato in tour per due stagioni teatrali con il Family show “Il Magico Zecchino d’Oro” prodotto da Fondazione Aida e Antoniano di Bologna, ho calcato lo storico palcoscenico del Teatro Sistina di Roma con “Georgie il Musical” e ho preso parte alla serie tv “Monstershop” prodotta da DeAgostini in onda su Sky – DeAkids con il M° Beppe Vessicchio alla sua prima prova da attore.

Quali sono i tuoi programmi futuri?

Stiamo già lavorando ad un nuovo singolo che dovrebbe uscire in primavera e, questa volta, si tratterà di un duetto con una giovane cantautrice con cui si è creato un bellissimo sodalizio artistico. Poi ci sono tanti nuovi progetti in ballo anche per quanto riguarda il teatro e la mia compagnia “I Muffins“, ma per scoprirle dovete continuare a seguirmi! 

www.stefanocolli.net

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Twitter:  https://twitter.com/StefanoColli1

foto Riccardo Sarti




Evita Paleari: “Per fare la segretaria devi avere le scarpe adatte”

Per fare la segretaria devi avere le scarpe adatte” è il romanzo autobiografico scritto dall’estrosa Evita Paleari. Un romanzo di formazione, che racconta la crescita di una ragazzina diciannovenne che, abbandonato  il suo piumone azzurro, i suoi sogni e le sue illusioni, con coraggio, studiando la Bibbia e il galateo, diventa una donna e trova il suo posto nel mondo.

Ma non vogliamo anticipare nulla di quanto sentirete in questa bellissima intervista che Evita ha rilasciato all’attore Marco Berna

Un romanzo assolutamente da non perdere, che tutti dovrebbero avere nella propria libreria!

E un ottimo regalo da farsi e da fare per questo Natale!

 

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Grease: intervista a Lucia Blanco e a Giulio Corso

Al Teatro della Luna di Milano, fino al 2 dicembre, torna in scena un grande classico: Grease il musical, con la regia di Saverio Marconi, cavallo di battaglia da più di vent’anni di Compagnia della Rancia, sempre premiato da grande successo di pubblico. 

Se il film Grease, che oggi compie 40 anni, può ormai considerarsi una pagina importante della storia del film musicale, nondimeno Grease il musical di Compagnia della Rancia può a buon diritto ritenersi una pietra miliare del panorama del musical italiano.

Per questa nuova edizione, nei ruoli di Danny e Sandy, troviamo Giulio Corso (attore di cinema e teatro, ha debuttato nel musical in “Rapunzel il musical”) e Lucia Blanco (A Chorus Line, La Bella e la Bestia, Mamma Mia!, Sindrome da Musical, La febbre del sabato sera, The Best of Musical, Dirty Dancing, Sarà perché ti amo, Footloose). Li abbiamo intervistati per conoscerli meglio e per capire perché Grease, “un gioiellino – come dice Giulioun orologio che funziona perfettamente”, ha sempre così tanto successo.

Lucia Tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita il film Grease rimanendo incantati dai colori, dallo stile degli anni ’50, dalla musica e dalla grande energia sprigionata dagli attori. John Travolta aveva un fascino e un carisma che mi facevano impazzire. Grease il musical riporta in scena tutte queste caratteristiche del film.

Avreste mai immaginato che sareste entrati a far parte del cast del musical proprio nei ruoli principali?

Lucia A dire il vero ho sempre sperato di entrare a far parte del cast di Grease. Ho fatto tante volte il provino, per tutti i ruoli, e quando finalmente, dopo tanti anni di audizioni, mi hanno chiamata quasi non ci credevo.

Giulio Fino a quando non ho fatto “Rapunzel” mai avrei pensato di fare musical, tanto meno un classico come Grease. E i classici prima o poi bisogna farli.

Cosa vi piace del vostro personaggio? Avete una canzone o una battuta che preferite?

Lucia Sandy caratterialmente è molto, molto lontana da me: così compita, perfettina, romantica, sdolcinata… io sono un ciclone. Ho sempre pensato che le donne siano un po’ più simili a Rizzo ma che si nascondano dietro la maschera da brava ragazza di Sandy. Ammetto però che interpretando Sandy sto imparando ad apprezzare anche quel suo lato più dolce e più romantico. La mia canzone preferita è “Sandra Dee reprise”, quella che segna il momento della trasformazione di Sandy, quando lei finalmente si sveglia e decide di prendere le redini della sua vita.

Giulio Danny è sicuramente da non prendere come esempio, è un bulletto, però è anche un personaggio divertente in cui ci possiamo rispecchiare tutti. Chi non ha mai scoperto di amare qualcuno solo dopo averlo perso? Proprio per questo motivo la mia canzone preferita è “Sandy”, che segna, a sua volta, la trasformazione di Danny. Lui si dice “basta con le sciocchezze, vai da lei o la perderai” e quindi si assume finalmente le sue responsabilità da uomo. C’è una battuta che mi diverte sempre, proprio all’inizio dello spettacolo: Danny e Sandy si rincontrano a scuola dopo l’estate. Danny finge di non conoscere Sandy per non sfigurare davanti ai suoi amici e lei allora gli chiede “Danny, cosa ti succede?” E lui “Danny è il mio nome ma cerca di non sciuparmelo!”.

Secondo voi perché Grease il musical è così popolare? Quali sono i suoi punti di forza che portano a metterlo in scena ogni anno da più di vent’anni? 

Giulio C’è una ragione perché Grease è diventato un classico: è uno spettacolo che parla di archetipi, di maschere in cui si riconoscono tutti. Parla di adolescenti che iniziano a scoprirsi, a conoscersi, innamorarsi, a capire il proprio ruolo nel gruppo. Questo rende lo spettacolo eterno, resistente al tempo per sempre.

Lucia Sono d’accordo ma aggiungerei anche, come punto di forza dello spettacolo, le musiche. Giovani, vecchi, bambini, tutti conoscono le canzoni di Grease. Pensa a quando, in discoteca, parte Greased Lightnin’: tutti cantano e ballano replicando la coreografia. E poi vorrei dire anche che la storia di Grease è sempre molto attuale: non solo per la storia d’amore tra adolescenti a scuola ma soprattutto per il tema del bullismo. Più attuale di così!

Immaginate di essere chiamati fra quarant’anni per un allestimento celebrativo del musical. Come potrebbe essere? In quale ruolo vi vedreste?

Giulio Sarebbe divertente rifare Grease ambientato nello spazio, tutti vestiti con tutine spaziali, magari con Lorella Cuccarini, anche se lei forse preferirebbe avere al suo fianco Giampiero Ingrassia! In ogni caso, qualunque sarà l’ambientazione, mi piacerebbe rifare il ruolo di Danny, riscoprendolo con una maturità differente. Sarei curioso di vedere se e come cambia il personaggio.

Lucia Oddio tra quarant’anni sarò piena di botox! Non riesco a immaginarlo. Forse proverei a interpretare Rizzo… ma no, non potrei mai, ho un viso troppo angelico, farò ancora Sandy ma piena di botox.

Quali sono i vostri progetti futuri?

Giulio Dopo Grease tornerò alla prosa con la ripresa dello spettacolo “Il principio di Archimede”, scritto da Josep Maria Mirò, con la regia di Angelo Savelli. Uno spettacolo molto bello e molto forte. Racconta la storia di un istruttore di nuoto che dà un bacio a un bambino, suo allievo. Partendo da questo caso o presunto caso di pedofilia (la verità non si saprà mai), la pièce spiega come funziona la nostra società, in cui le notizie si apprendono frammentate sui social network, e si capisce che non c’è più amore per la verità e la sua ricerca ma solo per quello che vogliamo sentirci dire.

Lucia Fino a febbraio sarò in tournée con Grease, poi ci sono nell’aria dei progetti, una cosa nuova ma sono molto scaramantica e perciò non anticipo nulla.