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Richi Sweet e il suo album d’esordio: Resurrezione

“Dedicata a me” è il singolo di lancio di “Resurrezione”, l’album di esordio di Richi Sweet, un brano che gli è valsa la partecipazione a Sanremo Giovani 2020 con un tema molto attuale: l’alcolismo e la sua ingannevole capacità di far sentire i giovani parte di un gruppo.

Numerosi sono i contenuti autobiografici che costruiscono il percorso narrativo dell’album, uno story telling che diviene una sorta di favola moderna, in cui si inseriscono nella loro varietà esperienze e sentimenti vissuti da Richi nel corso della sua giovane vita, a partire dall’adozione – è nato in Brasile ed è stato adottato da una famiglia italiana di Modena – al bullismo e le violenze subite, dai primi incontri con la musica ai successi; traumi e paure che sono diventati punti di forza e d’ispirazione per mettersi dalla parte di chi è percepito come “debole”, “diverso”. Conosciamo meglio questo giovanissimo artista, che già dimostra di aver tanto da dire.

Parlaci un po’ di “Dedicata a me” e del suo video

“Dedicata a me” parla di alcolismo, un male subdolo che si maschera da aggregatore, per farti sentire accettato e parte di un gruppo. Parla anche della determinazione di uscirne con le proprie forze, è un grido di protesta, oltre che una serenata “dedicata a me” stesso, appunto.
Il video (https://youtu.be/x9czYG9o9yQ) mi rispecchia molto: lo abbiamo girato a Sirmione (BS) ed il regista, Federico Folli, alterna diverse scene in cui mi si vede “discutere” con il mio alter ego. Devo dire che questo duplice ruolo mi è venuto spontaneo, perché, come dico sempre, “Non ho nemici, l’unico che ho, sono proprio io.”

E dell’album cosa puoi dirci, perché il titolo “Resurrezione”?

“Resurrezione” perché metaforicamente e spiritualmente parlando, sono morto e risorto un sacco di volte in questi miei 25 anni di vita. I miei sentimenti ed esperienze nell’album trovano piena espressione, soprattutto in brani autobiografici come “Non è questione di colore” o “Dedicata a me”, ma anche  l’amore ricorre nei testi dell’album ed esplode ne “La bella e la bestia”, “Ciao” e “Tulipano”. “Balotelli e Raffaella Fico”, “Kurt Cobain”, “Elisa” e “Forse non hai capito” sono invece i brani che esaltano stili di vita estremi che rendono meno monotona la vita quotidiana, o tematiche di carattere più sociale,  i social e soprattutto il razzismo e la difficoltà di inserimento.

Nei tuoi brani parli di temi attuali, razzismo, bullismo, come mai ti stanno tanto a cuore?
So cosa vuol dire essere giudicati o bullizzati, già dalle scuole elementari ero considerato “diverso”, ero sempre isolato in un angolo, quando i miei genitori chiedevano spiegazioni l’insegnante rispondeva “vostro figlio è diverso”. Addirittura alle scuole medie volevo cambiare colore di pelle, come se fosse un difetto.

Per questo motivo mi sta a cuore particolarmente il tema: sono dalla parte di chi è considerato un “debole” o un “perdente”, capisco cosa voglia dire essere emarginati, quanto questo può segnare una persona, ho subito bullismo fisico e Cyber Bullismo, ovviamente ci sono alcune scene che preferisco non raccontare.

Scrivi testo e musica da solo?

Solitamente scrivo i testi da solo, ma per la realizzazione di questo mio primo album sono stato aiutato dal mio discografico, Giancarlo Prandelli (GNE Records di Brescia). Nei brani, “Tulipano” e “Forse non hai capito”, per esempio, prevale la sua scrittura.

Stai già lavorando al prossimo progetto?

Questa situazione Covid mi ha bloccato da una parte, ma dall’altra mi ha ispirato tanti brani che sentirete in futuro, perché vengo ispirato di continuo da quello che vivo quotidianamente. Inoltre scrivo tanto, scrivo ogni giorno, quindi di materiale per il futuro ce n’è moltissimo.

Ph. Mario Ugozzoli

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RESURREZIONE:
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Dedicata a me:
https://youtu.be/x9czYG9o9yQ




Silver
: Power of Love, un appello all’impegno per un mondo migliore

Dopo il successo del singolo “Let me fall in love”, che ha sfiorato il milione di views su YouTube, arriva “Power of love” con un videoclip originale, ricco di positività e di speranza.  Un brano scritto da qualche anno, in collaborazione con Giancarlo Prandelli (GNE Records), ma straordinariamente attuale, con un testo denso di significato, che vuol essereun appello all’impegno di tutti, per un mondo migliore da costruire liberando il potere che è dentro ognuno di noi: il potere dell’amore, arma vincente ed universale. Dopo il quarto posto ad X Factor  nell’edizione vinta da Marco Mengoni, con cui era in squadra, l’artista bergamasco ha portato avanti  il suo progetto con determinazione e costanza, coltivando la passione per la musica in molteplici ambiti, dalla conduzione di programmi televisivi come VeeJay, all’attività di giornalista musicale, dalla partecipazione a programmi TV fino. Al suo attivo album (SILVER) e numerosi singoli e live con grandi nomi del panorama musicale italiano (Morgan, Francesco Facchinetti, Alberto Fortis, Eugenio Finardi, Angela Brambati, Cormac de Barra, Vladimir Luxuria, Mal, Andy Fluon, Mirko Casadei e tanti altri). 

Abbiamo chiesto a Silver di raccontarci qualcosa in più del suo progetto e dei programmi  futuri.

Parlaci un po’ di questo nuovo singolo, “Power of love” …

“Power of love”, dopo la ballad romantica in inglese “Let me fall in love”, segna un ritorno ai temi sociali, all’attualità. Il brano, nonostante sia stato scritto qualche anno fa, è davvero molto attuale,  avrei potuto scriverlo proprio in questo momento storico: un fiume di parole che culminano nello slogan ‘Power of Love’, un  “grido universale” che occorrerebbe porre al centro di tutto.
Il brano era stato selezionato per Sanremo Giovani, tra i 66 finalisti, mi sono esibito live davanti a Baglioni negli Studi Rai di Roma, ma immediatamente dopo è arrivata una comunicazione della Rai secondo la quale il brano risultava edito, quindi “irregolare”. Nonostante non si sia mai chiarito l’accaduto, la mia esclusione è risultata definitiva.

E poi l’uscita è stata ancora rimandata, dalla primavera all’autunno per la pandemia…
Eh sì, questo singolo sembra avere un percorso travagliato!  Abbiamo rimandato all’autunno l’uscita, ma è stata anche una occasione per ideare una iniziativa di successo: in giugno,  abbiamo creato uno spot per i social, con immagini selezionate dai miei precedenti videoclip e associato ad un messaggio di speranza, una esortazione a premere “Play” e ripartire tutti  insieme, dai sentimenti e dagli affetti veri. Numerosi fans, ma anche amici e colleghi, hanno partecipato con entusiasmo inviando i propri video realizzati con il cellulare, che riprendono l’evento per loro più significativo  dopo il lockdown: il primo momento in cui si è tornati ad abbracciare qualcuno o qualcosa che era mancato. Il risultato è stato molto emozionante, i video sono stati inseriti dentro una cornice, una mia ideale passeggiata per il centro di Bologna (regia di Riccardo Sarti in collaborazione con Carlo Montanari per la direzione  artistica e post produzione e con Gianluca Battilani per la color (https://youtu.be/Oq3x2HOkB9A).

Il tuo nuovo singolo contiene un messaggio attuale, quali sono i tuoi timori e le tue speranze in questo difficile momento?
Oggi, ma già da tempo prima della pandemia, sembra che l’unica cosa importante sia il proprio “IO”, i termini di solidarietà e condivisione sembrano perdere sempre più significato.

Credo molto nella forza dell’amore, quell’amore che avvolge tutto e tutti e che è indispensabile per non perdersi nel caos che sta travolgendo l’umanità. La mia speranza è questa, che l’amore vinca su odio, rabbia, individualismo e ci permetta di ricostruire un mondo migliore. Sta ad ognuno di noi impegnarsi per farlo, come dico in “Power of love”: “c’è bisogno di te!”, c’è bisogno di ognuno di noi, nessuno può sollevarsi da questa responsabilità che ci tocca in prima persona…

Cosa temo di più? In questo momento, particolarmente, la questione del distanziamento forzato tra le persone, che passa attraverso l’impossibilità del contatto, di abbracciarsi, soprattutto per quanto riguarda i più giovani: la difficoltà di svolgere attività condivise, di supportarsi reciprocamente, di scambiarsi  perfino una penna, una merendina. Un distanziamento che va ben oltre quello “fisico”, che potrebbe creare abitudine, condizionamento, rappresentando un rischio enorme per il futuro, poiché potenzialmente si potrebbero apportare gravi danni allo sviluppo personale e comportamentale di bambini e ragazzi.

I tuoi prossimi progetti musicali?
Stiamo pianificando l’uscita di un  nuovo singolo;  ho scritto molto in questo periodo, sia in italiano che in inglese, e  sto continuando a scrivere. Cerco di tenermi attivo ed in contatto con i fans, organizzando qualche diretta live, come già fatto nei mesi di quarantena insieme ad altri artisti e amici (Antonio Maggio, Alberto Fortis, Andy Bluvertigo, Gianna Tani, Nick Casciaro). 

E’ assolutamente necessario trasmettere messaggi positivi e di speranza, in attesa del  ritorno alla normalità, a una libertà che sia di nuovo parte integrante della nostra vita.

Foto Chiara Sardelli

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Cento docce fatte male – perché non è mai troppo tardi!

di Claudia Marchini – “Fermo lì, nel fango, con il sole spietato di agosto che sembrava voler sciogliere come cera ogni cosa, soprattutto la sua pelle, con la polizia che avanzava verso di lui e la gente di fronte a spingere, urlare, esaltarsi in una folle danza distorta dalla calura, si chiese quando tutto fosse iniziato”.

Inizia così Cento docce fatte male, il nuovo romanzo di Laura Manfredi edito da Morellini, con i due protagonisti di questa divertente e al contempo commovente storia in piedi sotto al palco del più grande raduno di musica Heavy Metal del mondo, imbrattati di fango e in fuga dalla polizia che li cerca.

Niente di particolarmente strano, direte voi. Senonché i due protagonisti – Pietro Boccamara e Mario Incantalupi – sono due vecchietti quasi novantenni scappati due giorni prima dalla casa di riposo in Provincia di Pavia di cui sono ospiti. Uno, il Boccamara, è un uomo rancoroso, sempre arrabbiato con tutto e tutti, muto selettivo, un contadino che non è mai uscito dalla valle del Pavese in cui è nato e vissuto. Attende la fine dei suoi giorni in un tran tran sempre uguale, nascondendo un segreto e un dolore troppo grandi per essere espressi a parole. E perciò, non parla.

L’altro, l’Incantalupi, è tutto l’opposto: scrittore di gran fama, giramondo, omosessuale pieno di vita e allegria. E’ diventato cieco da poco e quindi decide di farsi rinchiudere in una casa di riposo, convinto di non poter ormai godere più della vita come faceva un tempo. Ma un articolo di giornale che parla del raduno metal di Wacken risveglia la voglia dell’Incantalupi di fare nuove esperienze, e cerca quindi di convincere il riluttante Boccamara a scappare con lui: “Secondo lei, è meglio farsi una doccia di merda, fatta male, in questi lugubri cessi azzurrini, con il loro getto timido e tiepido, tutti i santi giorni, con una saponetta di merda, oppure è meglio lerciarsi come maiali per una settimana e poi chiudersi in una benedetta spa o che so io e farsi grattar via lo sporco a suon di massaggi con oli profumati e lozioni miracolose? Ecco, si chieda questo. Se per lei la risposta resta: “Meglio cento docce fatte male che una giornata in una spa dopo qualche giorno di sporcizia”, rimanga pure sulla sua poltrona. Di certo non la porterò via di peso, stia sicuro”.

In fuga verso la Germania, i due saranno affiancati da un professore di Prato che sta scappando dalla moglie fedifraga e da due adolescenti hikikomori – quei giovani che decidono di chiudersi in camera loro e non avere più contatti con il mondo esterno – anch’essi alle prese con paure e drammi tipici della loro generazione. Per non parlare degli altrettanto deliziosi personaggi di contorno, dalla direttrice della casa di cura all’infermiera Celestina, dal commissario Bonaccia alla pittoresca signora Ciufoli.

Va letto con cura, Cento docce fatte male, perché pieno di spunti di riflessione sull’animo umano e sulla nostra società: chi si rinchiude nel mutismo e chi invece fa la farfalla di fiore in fiore in fondo forse nascondono lo stesso senso di inadeguatezza e lo stesso senso di colpa per aver abbandonato chi si amava; è forte il pregiudizio che circonda la terza età, come se ad un certo punto bisognasse rinunciare a vivere appieno; e anche quello che dopo una certa età si debba rinunciare all’amore; fino alla consapevolezza che non è mai troppo tardi per prendersi una rivincita sul destino o sull’età.

Perché vale sempre la pena di vivere.

Un romanzo accattivante, ispirato ad una storia vera, che tocca tutte le corde del nostro animo e che vi consigliamo assolutamente per le vostre letture estive! E per immergersi fino in fondo nel mood della storia, potete ascoltare la playlist metallara (ma non troppo) creata appositamente su Spotify dall’editore: https://open.spotify.com/playlist/0f3SqQFAedpHaj7UEMe5JQ




L’arte che non è più arte, cos’è?

di Silvia Ferrari Lilienau – La storia è nota: alla recente fiera di arte contemporanea Art Basel di Miami, Maurizio Cattelan espone una banana (il titolo è Comedian) attaccandola con nastro adesivo alla parete dello stand; poco dopo l’artista americano David Datuna la stacca e la mangia mentre viene ripreso da numerosi cellulari del pubblico presente. Datuna viene allontanato, Cattelan non si offende, della banana – si garantisce – esistono altri due originali. In ogni caso, il valore della banana di Cattelan è di 120.000 dollari.

Ora, da più parti si sono ricordati i precedenti che legittimano una simile operazione, dalla Merde d’Artiste di Piero Manzoni del 1961, alla copertina del disco dei Velvet Underground del 1967 disegnata da Andy Warhol, allo stesso Cattelan, quando nel 1999 fissò alla parete, sempre con nastro adesivo, il gallerista Massimo De Carlo: soprattutto per l’autocitazione in tono minore, va da sé che l’idea nasca stanca, e però solleva scalpore intorno.

Proviamo qui a soffermarci brevemente non sugli oggetti artistici contemporanei in sé, anche perché tutta la storia dell’arte del Novecento si offre come bacino di possibili citazioni e giustificazioni culturali di ogni nuova operazione eventuale. Consideriamo piuttosto il sistema in cui gli oggetti sono ora inseriti, la rete con i suoi nodi, i nessi.

Certo ha avuto un peso l’interruzione del rapporto tra artista e committente, interruzione configuratasi con forza all’inizio del secolo scorso, ma già avviatasi in seno al Romanticismo: finché c’è stato, il committente – aristocrazia, chiesa, borghesia ricca e ambiziosa – si è fatto garante delle scelte, e questo ha deresponsabilizzato l’artista nella scelta dei soggetti. Bastava che l’artista si concentrasse sulla qualità della sua cifra stilistica. Vero è che a volte potevano verificarsi incidenti e incomprensioni, basti pensare a come Caravaggio si concedesse libertà interpretative che conducevano anche al rifiuto di suoi dipinti. Ma più spesso prevaleva una lettura ortodossa, e allora il coefficiente artistico corrispondeva al virtuosismo dell’artista.

Anche in assenza di un committente, ancora nella prima metà del Novecento riferirsi a generi riconoscibili – ritratti, nature morte, paesaggi – seguitava a legittimare il disimpegno ideativo e consentiva di concentrarsi sulla propria originalità compositiva.

Ancora. Se già Marcel Duchamp si era assunto l’onere di sue idee trasgressive, l’eredità dadaista eterogenea del secondo Novecento vedeva però l’esistenza non tanto di singoli artisti autogestiti, ma di gruppi accomunati da una poetica. Dal Pop al Nouveau Réalisme, dalla Optical Art al Minimalismo, dallo Happening alla Body Art, l’esperienza artistica era supportata dall’appartenenza a un collettivo.

Se poi l’arte condivisa era teorizzata da un critico di spessore – il caso di Pierre Restany e il Nouveau Réalisme negli anni Sessanta -, l’attività artistica procedeva forte della decodificazione offerta da addetti ai lavori di cultura articolata. In fondo, anche il fenomeno italiano degli anni Ottanta che fu la Transavanguardia si ancorava alle parole sapienti di Achille Bonito Oliva, senza le quali i protagonisti avrebbero forse vacillato nel confronto con le coeve correnti neoespressioniste tedesche e americane.

Il guaio – posto che guaio sia – si è profilato all’orizzonte quando gli artisti si sono presentati sulla scena soli, ognuno per sé. Quando hanno incominciato a esprimere propri punti di vista.

Immaginare di avere punti di vista è possibile, di fatto accade, ma non necessariamente ogni punto di vista ha forza comunicativa; inoltre, la società attuale è connotata dalla relazione rapida e diramata, gli artisti soli non hanno possibilità di sopravvivenza. I galleristi colti, che fino a qualche decennio fa stringevano sodalizi con artisti e critici (su tutti Arturo Schwarz, scrittore, fra l’altro, e sofisticato conoscitore di Dadaismo e Surrealismo), hanno più spesso lasciato il posto a galleristi potenti e a grandi case d’asta (illuminanti le pagine dedicate da Sarah Thornton a questi contesti una decina d’anni fa, nel libro Seven Days in the Art World).

A chi si legano allora gli artisti, per operare in spazi di visibilità? Ai curatori.

Il critico si poneva come tramite fra l’operato degli artisti e il pubblico. Capitava che il suo linguaggio specialistico fosse intellegibile al solo pubblico preparato, e certo, promuovendo alcuni artisti, il critico finiva per renderli riconoscibili anche al mercato dell’arte. Ciò non toglie che il suo ruolo intendesse essere anzitutto esegetico.

Il curatore non nasce come interprete potenziale, semmai come organizzatore di mostre ispirate a sue idee, suoi interrogativi o immagini del mondo, a cui ricondurre opere di artisti che quelle idee possano confermare, illustrandole.

Le danze in tal senso furono aperte da Harald Szeemann con l’ormai storica mostra del 1969 alla Kunsthalle di Berna When attitudes become forms. Suo erede può oggi essere considerato un altro curatore svizzero, tra i più influenti al mondo, Hans Ulrich Obrist. Della categoria fanno parte anche Massimiliano Gioni, curatore della Biennale di Venezia del 2013 intitolata Il palazzo enciclopedico, e Milovan Farronato, curatore del Padiglione Italia dedicato al tema del labirinto, all’ultima Biennale veneziana.

Se i critici si collocavano tra gli artisti e il pubblico, i curatori sembrano collocarsi sopra gli artisti e sopra il pubblico: non si fanno tramite di possibili interpretazioni, ma sollecitatori di riflessioni attraverso l’arte. E sono conoscitori del mercato: sono loro a interloquire con i collezionisti.

Non a caso Milovan Farronato è assurto agli onori della cronaca internazionale dopo la nomina a direttore del Fiorucci Art Trust, a Londra, mentre Massimiliano Gioni aveva mosso i primi passi alla Fondazione Trussardi di Milano, cioè nel mondo del mecenatismo milanese legato alla moda.

A meno che non abbia raggiunto chiara fama, l’artista ora rischia di rimanere compresso tra il personaggio del curatore e la volontà speculativa del collezionista facoltoso, al quale ultimo è anzi affidato il destino dell’artista. A fare la fama dell’artista non è propriamente la scrittura del curatore, ma la somma di denaro con cui un suo lavoro è stato battuto all’asta. Dunque l’arte gratificata dal grande collezionismo è quella riconosciuta come capitale. Se ne deriva che i nomi di punta dell’arte contemporanea siano per lo più scelti dai grandi collezionisti.

Ma che fine ha fatto il pubblico, in tutto ciò?

Il pubblico è quello che si vede nel video della performance messa in atto da David Datuna nello stand della Galerie Perrotin alla fiera d’arte di Miami: decine e decine di cellulari a riprendere la scena. I video saranno stati pubblicati nei social network, amplificando a dismisura la fama di Cattelan, omaggiando di pubblicità gratuita la Galerie Perrotin e puntando i riflettori su un artista poco noto fino a quel momento. Il pubblico è il nuovo agente promotore di un’arte che non necessariamente capisce o ama, ma di cui si sente compartecipe attraverso la “condivisione” che è imperativo categorico di ogni “social”. Se prima occorreva capire i testi dei critici, pur spesso spocchiosi e persino indecifrabili, ora basta “postare” video e immagini, dimostrando di essere stati fisicamente presenti all’ “evento”.

Nel caso della banana di Miami, il contributo artistico di Cattelan è pressoché inesistente, rispetto all’operazione commerciale e all’attenzione mediatica ottenuta.

Qui è come se i sarti truffaldini de I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen non avessero neppure bisogno di mentire, come se anzi dichiarassero subito di voler ingannare tutti, e l’opera d’arte fosse proprio l’inganno dichiarato. Talmente dichiarato, da capovolgere i termini del discorso.

Ecco, si ha l’impressione che nell’arte più recente i termini del discorso siano capovolti. Difficile dire se debbano e possano essere ripristinati parametri di più rigorosa e fondata consapevolezza storico-artistica. O meglio, la logica questo vorrebbe, ma non necessariamente essa corrisponde ai bisogni prevalenti. Di certo però, se questo sarà il procedere artistico a venire, gli strumenti analitici da mettere in campo afferiranno sempre più spesso agli studi di economia e di sociologia, e sempre meno alla storia dell’arte stricto sensu.




Peace: alla ricerca della pace con Fabio D’Amato

A pochi mesi dall’uscita del suo penultimo singolo, intitolato “Peace”, il compositore e musicista Fabio D’Amato ne pubblica il suggestivo videoclip, scritto e diretto dal regista Andrea Mini. 

Peace” è un viaggio ideale, simbolico, spirituale, alla ricerca della pace, un percorso che inizia tra le note di un pianoforte, attraversa il magnifico quartetto d’archi del Conservatorio di Brescia (Mi Hyang Lee e Giroldi Giulia, Violino; Akari Yamagishi, Viola; Salomè Perlotti Trovato, Violoncello), per culminare tra le montagne dei favolosi Piani di Bobbio (LC).

Le immagini suggestive rappresentano, in maniera essenziale, il percorso intrapreso dall’artista, in una dimensione sempre emozionale. Le note scandiscono i passi ed il peso di una scalata, a tratti faticosa, sulle montagne, fino al raggiungimento del punto più alto, dove l’artista vorrebbe trovare quella pace e serenità a cui ogni uomo aspira.  Ne parliamo con Fabio, per conoscere qualche dettaglio ulteriore di questo bellissimo progetto.

1. Come nasce il brano “Peace”?

“Peace” nasce dall’esigenza di pace interiore che ognuno di noi, in fondo, ricerca nella propria vita, vuole raccontare un viaggio interiore, un percorso per raggiungere la serenità.

 

2. Raccontaci qualcosa di te, delle tue passioni e aspirazioni

Mi considero un trascrittore di emozioni in note, comporre musica è un po’ come tradurre tutto ciò che sentiamo o vogliamo trasmettere. La passione è la molla che mi spinge ad andare sempre oltre, a  sognare. Posso dire di essere stato fortunato: molti sogni che avevo quando ho iniziato a studiare musica si sono realizzati.

Mi piacerebbe scrivere musica per un film d’autore, far sì che  le immagini ed il suono viaggino insieme, generando emozioni in chi ascolta e guarda.
3. Hai pubblicato già due album fino ad oggi

Sì, il primo album risale al 2017, “Essential Songs”:  l’inizio di una bella avventura dove ho messo a frutto la mia ricerca personale sulla musica e la sua semplicità ed essenza. 

Il secondo album, “Essential Songs 2“, già dal titolo sottolinea la continuità con il primo: ho continuato, infatti, con la mia ricerca musicale dell’essenziale, utilizzando ancora suoni come il pianoforte e gli archi. Le tematiche traggono spunto, come sempre, dalla quotidianità… da quello che accade nel mondo.

Questo ultimo album è andato molto bene con grandi riscontri di ascolti, portandomi così a pubblicare anche il disco fisico.

Per entrambi i dischi, alcune tracks sono stata utilizzate per spot pubblicitari.

 

4.  Cosa pensi dell’attuale panorama musicale italiano?

Penso che la musica sia stata maltrattata negli ultimi 20 anni, purtroppo, e questo ha portato, a mio avviso, ad abituare le nuovissime generazioni ad ascolti musicali discutibili.

Credo che ci sia bisogno di avere più educazione musicale in generale e credo che bisognerebbe dare anche molte più opportunità agli artisti emergenti, perché ci sono dei veri talenti in Italia che spesso vanno a perdersi in una montagna di produzioni musicali.

Produrre musica è diventato paradossalmente più facile e questo ha permesso una produzione esagerata di musica di qualsiasi tipo e di qualsiasi livello, ma la cosa strana è che spesso chi fa musica poi non la sa né leggere né scrivere né suonare, ma “solo” scrivere sul pc; questo da una parte ha creato opportunità per tutti, dall’altra ha creato un vero appiattimento, per cui tutto suona uguale o come già sentito.

5. Tu Lavori in vari ambiti dal punto di vista musicale, qual è quello che ti appassiona maggiormente?

Scrivere canzoni mi piace molto e lo faccio sempre in maniera parallela, lavorando con artisti emergenti giovani, ma anche con i big.

Lavorare con gli spot è sempre molto creativo, perché permette di valorizzare magari delle immagini con la musica, cercando di entrare dentro il mood del prodotto o servizio.

Le colonne sonore poi sono il mio pane quotidiano, quindi non saprei proprio scegliere, la mia è una passione a 360°!

 

6. Progetti futuri e novità in arrivo?

Progetti sempre tanti, sto scrivendo il prossimo singolo, sto scrivendo canzoni, sto scrivendo spot; sicuramente usciranno altri singoli nel 2020 e, intanto, sto preparando il nuovo album.

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Sostenibilità in cucina

La cucina “zero waste” ovvero che non produce alcun rifiuto è tra i nuovi trend nella cucina d’autore. Non solo quindi attenzione spasmodica al prodotto biologico e, ancora meglio, ai piccoli fornitori locali, ma anche focus sul riciclo, riutilizzo e riduzione di ogni scarto. Una ristorazione pienamente sostenibile passa infatti inevitabilmente dalla lotta agli sprechi alimentari.
Tra i pionieri di questa scelta innovativa di ristorazione ci sono il tre volte stellato Massimo Bottura a e Dan Barber. Lo chef alla guida de “L’Osteria Francescana” ha dato vita nel 2016 al progetto Food for Souls, una Ong che anche grazie all’esperienza maturata con i Refettori, combatte gli sprechi alimentari. Barber invece, tra Londra e New York, ha creato dei temporary restaurant “WastED” con l’obiettivo di mostrare la creatività della cucina del riciclo e allo stesso tempo far riflettere sull’enorme spreco alimentare che, quotidianamente, avviene sulle tavole dei ristoranti di tutto il mondo. Ma non sono i soli. La sostenibilità permea ormai ogni ambito della vita sociale e personale e l’applicazione più integrale di questo approccio ai fornelli porta appunto all’approccio “zero waste”.

È un po’ come tornare indietro alle tradizioni contadine quando non era ammissibile sprecare le già limitate risorse (la francese bouillabaisse è un tipico esempio di queste tradizioni, ma anche la ribollita tanto per “giocare in casa”). Nel nuovo Millennio tuttavia la ricerca del “no waste” si sposa con una maggiore consapevolezza e con la volontà di perseguire fino in fondo i valori sostenibilità ambientale, economica e sociale.

In questi ultimi anni stanno aumentando le sperimentazioni di nuovi modelli di ristorazione a zero rifiuti anche se spesso si ricorre al format “pop up restaurant” piuttosto che a un locale stabile, come è accaduto con il trendy Zero Waste Bistrot di New York, inaugurato nel corso della Design Week per invitare a riflettere sull’economia circolare. In parallelo sono in crescita anche le certificazioni rivolte all’eco ristorazione come le americane Green Restaurant 4.0 Standards e Green Seal Gs-46, la neozelandese The Better Cafè and Restaurant e l’europea Nordic Ecolabelling for Restaurants.

In Italia il trend è ancora agli albori, soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione creativa della cucina “no waste”. Ma la direzione è ben segnalata non solo dalle esperienze estere, ma anche dall’elevata sensibilità che le nuove generazioni mostrando sul tema. E a Milano la sperimentazione appare già ben a avviata.

Franco Aliberti ha impresso una svolta sostenibile nella cucina del ristorante Tre Cristi. La parola chiave è cucina attenta all’ambiente ed ecosostenibile: ogni piatto esalta le singole materie prime, presentate in diverse consistenze e utilizzando tutte le parti commestibili di frutta e verdura. Una innata curiosità e voglia di sperimentare: Franco Aliberti si avvale delle più moderne tecniche di cottura ma predilige un ritorno all’uso di cucina ancestrale, materica, come quella della griglia, che diviene garanzia di una cucina personale e decisamente creativa. “Sotto i riflettori il singolo ingrediente, bilanciato al massimo da altri due di supporto, perché amo colpire con la semplicità più che con la complessità, reinterpretando anche un semplice broccolo con una vena giocosa, senza perdere di vista la sostanza del piatto” racconta Franco Aliberti.

Tra le apertura più recenti il Røst porta invece in scena milanese un concetto di cucina circolare, con la riscoperta dei tagli poveri e una selezione di vini naturali di nicchia.
Massima attenzione alla materia prima e utilizzo degli ingredienti nella loro totalità caratterizzano la proposta gastronomica di una carta che ha due focus principali: i vegetali, dove la verdura di stagione è regina del piatto e i tagli poveri. Piatti della tradizione con gusti decisi, realizzati con delicatezza, pensati per tutti. Al numero 3 di Via Melzo, che sempre di più si distingue come la nuova food street del distretto di Porta Venezia. La carta del Røst abolisce le categorie di ordine (antipasti, primi, secondi, contorni), prediligendo un racconto orizzontale tra piccoli piatti da condividere liberamente, per favorire l’assaggio e la convivialità. Le proposte cambiano in relazione alla disponibilità di materie prime, aggiornandosi anche giorno per giorno per valorizzare gli ingredienti ed evitare gli sprechi. Una successione numerica caratterizza ogni menù, a testimonianza della freschezza di ogni selezione. La parete d’ingresso mette in scena i protagonisti con il Wall of Fame: 16 piatti in ceramica, ognuno raffigurante un produttore/fornitore di materie prime, disposti nello spazio a creare la ø di Røst.

Tra le esperienze all’estero più significative in evidenza quella d el Silo a Brighton nel Regno Unito a cura di Douglas McMaster. Porta in alto un concetto integrale di “zero waste”: i prodotti sono coltivati localmente e consegnati senza packaging, le bevande alcoliche (prodotte attraverso la fermentazione) o meno sono prodotte in casa utilizzando anche le erbe del territorio, i piatti sono di plastica riciclata, tavoli e sgabelli derivano dal processo di riciclo del legno, gli avanzi alimentari infine finiscono in una compostiera (messa a disposizione anche al resto della comunità) in grado di generare fino a 60 chili di compost in 24 ore. “Silo è nato dal desiderio di innovare l’industria alimentare dimostrando rispetto per l’ambiente, per la produzione del cibo e per il nutrimento dato al corpo. Questo significa che noi partiamo dalla forma originaria degli ingredienti, evitando gli sprechi nella preparazione dei piatti e preservando l’integrità e i valori nutrizionali degli alimenti” racconta McMaster. Una nuova etica in cucina che si sposa a menù strabilianti. Nei menù degustazione (quattro portate a 33 sterline a testa) troneggia, ad esempio un gelato ai semi di zucca con foglie di fisco, mentre tra gli snack si può scegliere per 3 sterline un piatto di spine di sgombro croccanti fermentate nel chili.

L’idea alla base dei locali Instock, nati ad Amsterdam e ora presenti anche a Utrecht e Anversa, oltre che con furgoncini attrezzati per lo street food, è quella di utilizzare cibi brutti ma buoni, ovvero quelli scartati dalla catena della grande distribuzione per problemi di standard di qualità o di sovrapproduzione, così da sensibilizzare gli utenti a una scelta sostenibile “Buttare via un prodotto alimentare non significa solo gettare via i soldi, ma non curarsi dell’enorme spreco di energia prodotto per la produzione e la conservazione di un alimento poi buttato” sostengono da Instock dove sono persino riusciti a creare due tipologie da patate e pane di scarto, la Pieper Bier e la Bammetjes Bier. L’utilizzo di prodotti invenduti o di scarto da parte degli chef di Instock significa anche che ogni giorno è diverso dall’altro nei locali della catena di ristorazione dove la creatività è, necessariamente, la parola d’ordine.

Nolla a Helsinki di Carlos Henriques, Luka Balac e Albert Franch Sunyer. Il Nolla è il primo ristorante a zero rifiuti della penisola scandinava, divenuto alla fine stabile dopo una serie di aperture temporanee (in ultima quella presso il Christmas Markets). In pochi mesi di vita è subito diventato una delle esperienze da non perdere per chi va a Helsinki grazie creatività ai fornelli e alla tecnologia utilizzare per render possibile il progetto. La scelta dei tre startupper, finanziati tramite una raccolta di crowdfunding, è stata integrale: non solo l’attenzione a evitare ogni spreco in cucina è totale, anche oggetti, utensili, energia e arredi per il locale sono stati accuratamente scelti seguendo il mantra “riduzione degli sprechi, riciclo e riutilizzo”. Il locale si è perfino dotato di una macchina da compostaggio per gli avanzi alimentari. Il percorso degustazione da due portate costa 45 euro, quello da tre invece 59 euro.
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Trentodoc, lo spumante metodo classico “figlio” delle Dolomiti

Capodanno si avvicina e per il count down le bollicine di alta quota del Trentodoc, il metodo classico italiano nato sulle Dolomiti, possono essere una valida alternativa alle blasonate bollicine francesi. Con poco più di un secolo di storia e a 26 anni dal riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata, il Trentodoc è una delle più apprezzate alternative italiane allo Champagne. Produzione di nicchia, viticoltura eroica e una forte identità sono le carte vincenti di queste bollicine di montagna capaci di attrarre sempre di più i wine lovers di tutto il mondo.

Il Trentodoc ha saputo esaltare fin da subito la forte identità territoriale che contraddistingue queste bollicine di montagna unendo le 54 cantine (e 189 etichette) alleate nel Consorzio Trentodoc. Il risultato è un prodotto riconoscibile grazie alle sue caratteristiche distintive determinate dalle diverse altitudini (l’altitudine media dei vigneti si trova intorno ai 450 metri), dal microclima fresco e temperato che influisce sull’acidità dell’uva e dall’effetto termoregolatore dell’ “Ora del Garda” (il vento con effetto termoregolatore, fondamentale per la viticoltura, che soffia dall’omonimo lago), dalle forti escursioni termiche tra giorno e notte e, inifne, dal terreno caratterizzato a una forte componente calcarea e pietrosa.

La produzione di Trentodoc inizia nel 1902 con la capacità visionaria di Giulio Ferrari, studente all’Imperial Regia Scuola Agraria di San Michele, di identificare le analogie rispetto al territorio dello champagne e replicare in quota il metodo di produzione delle bollicine francesi. Le Cantine Ferrari, sono poi passate negli Anni ’50 alla famiglia Lunelli, mentre le orme di Ferrari sono state seguite da numerosi altri viticoltori tanto che, nel 1984, è stato fondato l’Istituto Trento Doc per la promozione delle bollicine di montagna, nel 1993, si è arrivati al riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata Doc “Trento”, la prima Doc riconosciuta in Italia riservata a un metodo classico e la seconda al mondo dopo lo Champagne.

Oggi la produzione di Trentodoc è affidata al disciplinare che fissa canoni e controlli lungo la filiera a cominciare dai territori dedicati che comprendono la Valle dell’Adige, la Valle di Cembra, la Vallagarina, la Valle del Sarca, la Valsugana e le Valli Giudicarie, incidendo praticamente sul territorio della provincia. Quanto alle uve dalle quali si ottiene il Trentodoc sono lo Chardonnay che dona longevità, eleganza e carica aromatica; il Pinot nero a cui si deve il bouquet fruttato; il Pinot bianco e il più raro e il Pinot meunier, in grado di adattarsi a qualsiasi terreno. La vendemmia è svolta manualmente ed è in genere anticipata rispetto a quella di uve legate alla produzione di vini fermi per assicurare il giusto equilibrio tra acidità e zuccheri.

Secondo quanto previsto dal disciplinare, il “vino base”, dopo l’introduzione di lieviti e zuccheri selezionati, è affidato a una lenta maturazione in bottiglia, che varia da un minimo di 15 mesi a un minimo di 36 per la riserva ma arriva fino a 10 anni sui lieviti per i Trentodoc più raffinati ed evoluti. Rispetto al sentire comunque che vuole le bollicine un prodotto da godere giovane, sono numerose le cantine che stanno sperimentando affinamenti sui lieviti sempre più prolungati per esaltare la ricchezza e la lunga vita del prodotto. I nuovi trend intrapresi negli ultimi anni dal Trentodoc sono infatti legati a tempi e forme di affinamento. La cantina Cesarini Sforza, ad esempio, fondata nel 1974 da Lamberto Cesarini Sforza, conserva per ogni annata mille bottiglie magnum per verificare l’evoluzione del prodotto nel tempo. In un caso, quello dello spumante Lagorai prodotto dalla cantina Romanese (Trento), l’affinamento avviene in acqua, nel Lago di Levico (bandiera Blu d’Europa) dove, a partire dal 2013, 2.000 bottiglie (Dosaggio Zero Lagorai, 100% Chardonnay) riposano per 500 giorni chiuse in quattro gabbie d’acciaio a venti metri di profondità e il vino acquista un perlage con bollicine più cremose e più fini. La temperatura costante del fondale del Lago di Levico, una sorta di cantina naturale, intorno ai sette gradi permette al vino di maturare sui lieviti nelle migliori condizioni anche grazie alla pressione esercitata dall’acqua sul tappo. Un metodo di eccellenza che deve le sue origini al ritrovamento, 10 anni fa, nel Mar Baltico di un antico galeone carico di bottiglie di champagne invecchiate sul fondale marino per oltre 300 anni. È stato proprio questo ritrovamento storico che ha spinto i fratelli Romanese a provare una nuova strada che unisce enologia, territorio e natura.

Tra i trend in crescita nel mercato delle bollicine di montagna, aumentano poi le richieste di dosaggio zero (pas dosé o, per chi preferisce, nature), ovvero lo spumante a cui alla fine dell’affinamento in bottiglia, dopo la fase della sboccatura, non viene aggiunto nient’altro (in caso contrario la bottiglia viene rabboccata con il “liquer d’expedition” che costituisce una ricetta segreta per ogni cantina e può evidentemente intervenire sul vino). Le Cantine Revì, fondate nel 1982 da Paolo Malfer ad Aldeno, sono tra i pionieri questo ambito per cui utilizzano uve Chardonnay e Pinot nero. In ascesa anche le vendite di millesimati (prodotto con uve di una singola annata) e rosé.

Vicepresidente dell’Istituto Trentodoc è Carlo Moser, figlio di quel Francesco Moser che ha fatto sognare l’Italia intera a cavallo di una bici, campione del mondo, recordman dell’ora (e non è un caso che una delle etichette dell’azienda sia il metodo classico Brut 51,151 dal numero di chilometri percorsi in un’ora il 23 gennaio 1984) e vincitore di 273 corse su strada per professionisti. Viticoltori da generazioni, Francesco e il fratello Diego hanno acquistato Maso Villa Warth nel 1979 e da lì hanno avviato la produzione di bollicine di montagna (e non solo) e hanno allestito una sala con bici e trofei dello “Sceriffo”.

Chi vuole saperne di più su questa realtà cosi unica (il Trentodoc è la sola area di produzione di bollicine di montagna) e distintiva può programmare un week end lungo o, meglio ancora, una vacanza a Trento e dintorni, magari iniziando da Palazzo Roccabruna, nel centro del capoluogo di provincia, sede dell’enoteca del Trentino. Quasi tutte le 53 cantine prevedono visite guidate e percorsi di degustazione che permettono di comprendere meglio il territorio e le sue realtà. Meglio tuttavia informarsi in anticipo sugli orari e prenotare per non rischiare di rimanere a bocca asciutta. Le Cantine Ferrari prevedono addirittura sei proposte di tour per un minimo di due persone e con prezzi compresi, a seconda dei prodotti degustati, tra i 15 e i 48 euro Per una giornata indimenticabile si può poi abbinare (a iniziare da 70 euro a persona), la visita alla cinquecentesca Villa Margon, sede di rappresentanza dell’azienda, e una sosta alla Locanda Margon dove si possono gustare i piatti stellati di Alfio Ghezzi. Pedrotti organizza invece visita in cantina e degustazioni a partire da 12 euro fino a 44 euro; Endizzi propone pacchetti a partire da 10 fino a 26 euro; Cantine Monfort da 5 a 20 euro a testa; Maso Martis da 7 a 20 euro. Le 53 meritano tutte di essere scoperte, ognuna infatti ha una sua storia, i suoi valori e i suoi prodotti da raccontare. E sono storie speciali, come il territorio da cui nascono.




Un brindisi a tutta Bottega

Nel mondo, dai duty free alla compagnie aeree, si brinda con i vini Bottega resi iconici dalle bottiglie metallizzate delle bollicine.  Un packaging che come raccontato dal capo azienda Stefano Bottega “non è mai stato un artificio fine a se stesso, ma uno strumento per comunicare la qualità del prodotto”. In particolare,  le bottiglie metallizzate, in particolare la Gold, richiamano Venezia e la sua raffinata eleganza: una bellezza assoluta e mai stucchevole. “Questa bottiglia ha dato prestigio al Prosecco Doc” sostiene l’imprenditore che poi ricorda come “Le due bottiglie sorelle, Rose Gold e White Gold, contengono nell’ordine un Pinot Nero spumante vinificato rosè e un uvaggio Venezia Doc, nuova denominazione compresa tra le colline di Conegliano e la laguna di Caorle”.

L’idea di proporre un percorso di innovazione anche nella presentazione stessa delle bottiglie nasce tuttavia per Bottega nell ‘universo della grappa per cui era stata adottata £una bottiglie in vetro soffiato per trasmettere un concetto di preziosità del distillato. La grappa spray è nata per regalare l’emozione fuggevole di un assaggio olfattivo, in conformità con l’adagio che la grappa si “assaggia prima di tutto con il naso”. La Grappa Riserva Privata Barricata con l’originale bottiglia a base quadrata e l’etichetta che si sviluppa su due facce ha vinto numerosi premi, tra cui nel 2010 l’Etichetta d’Oro del Vinitaly 15th International Packaging Competition”.

E in effetti Bottega nasce nel mondo della grappa 42 anni fa per poi entrare nell’universo variegato del vino a partire dal 1992. A raccontarlo è lo stesso Stefano Bottega oggi a capo dell’azienda: “L’azienda nasce come distilleria e ancora oggi sento che le mie radici affondano nelle vinacce da cui deriva la grappa. Tuttavia quello della distillazione è un mondo circoscritto che ha spinto me e la mia famiglia ad approcciare il vino che con la grappa condivide la stessa origine. E dalle colline di Conegliano il primo passo non poteva che essere il Prosecco che nei primi anni ’90 non aveva ancora conosciuto il boom attuale, ma era soltanto uno dei tanti vini spumanti del panorama enologico italiano. La crescita del Prosecco e di pari passo quella dell’azienda ci hanno consentito di diversificare e di produrre, oltre a molti altri vini anche i grandi rossi della Valpolicella (Amarone e Ripasso) e della Toscana (Brunello di Montalcino, Bolgheri, Chianti). In Valpolicella, a Valgatara, abbiamo una nuova cantina di proprietà, di cui abbiamo appena terminato la ristrutturazione, conservando l’architettura storica dell’edificio”.

La famiglia Bottega è entrata nel vino nel 1992, dapprima commercializzando il Prosecco prodotto da terzi. Nel 2007 con l’acquisizione della sede a Bibano di Godega e di 10 ettari di vigneti coltivati a Prosecco ha iniziato a produrre nella propria cantina che oggi conta oltre 100 autoclavi. Negli ultimi anni nuove acquisizioni a Vittorio Veneto e a Follina hanno portato a 20 ettari i terreni vitati di proprietà nella zona del Prosecco. Nel 2018 è stata aperta la cantina di proprietà a Valgatara in Valpolicella. Sempre dal 2018 è in funzione un’altra piccola cantina a Vittorio Veneto destinata alla produzione del tradizionale Prosecco Colfondo. Dal 2009 ha in gestione diretta a Montalcino una cantina dove vengono prodotti Brunello di Montalcino, Rosso e Sant’Antimo. Oggi  oltre ai vini e alle grappe, il  portafoglio di Bottega conta anche Limoncino, liquori a base frutta e crema e gin grazie a cui copre quasi completamente la gamma del beverage ed esporta prevalentemente in Canada, Germania, Uk, Olanda, Svizzera, Usa, Giappone e Scandinavia.

Tra i progetti più innovativi una particolare attenzione meritano i  “Prosecco Bar”,  un concept ideato da Bottega con la finalità di esaltare le eccellenze del nostro Paese . Nello specifico viene riproposta la filosofia del bacaro veneziano, ovvero di un’osteria informale, dove i cibi vengono presentati sia come “cicheti”, ovvero stuzzichini da consumare al bancone, sia come piatti più strutturati da servire ai tavoli. L’abbinamento con il Prosecco, privilegiato per la sua versatilità, e con altri vini italiani chiude il cerchio. Bottega Prosecco Bar è quindi un’evoluzione di questa filosofia, che estrapolata dalla realtà veneziana, è riproducibile in tutto il mondo. L’asse portante del progetto è il “Perfect Match”, ovvero l’abbinamento ideale tra i cibi tipici delle cucine regionali italiane e i diversi vini proposti da Bottega.

Quanto infine al vino preferito, l’imprendiore non ha dubbi: è il Pas Dosé Millesimato Stefano Bottega, un vino spumante, prodotto con metodo Charmat, che garantisce freschezza e facilità di consumo. Ha la sua cifra identificativa nel basso contenuto di zuccheri e nella prolungata persistenza aromatica, in quanto ha origine da un equilibrato uvaggio che assembla un 80% di uve Glera, le stesse del Prosecco, con un 20% di Chardonnay. Viene spumantizzato in autoclavi d’acciaio, dove in presenza di lieviti selezionati si compie naturalmente l’intero processo di fermentazione. Si può quindi definire un “vino nature”, che accarezza il palato con una struttura essenziale, asciutta e al tempo stesso armonica. Un vino ideale da abbinare alle moeche, ovvero i granchi che tutto l’anno popolano la laguna veneta e che solo per poche settimane all’anno assumono la stato di moeca, abbandonando nel periodo di muta il vecchio carapace.La tradizione vuole che le moeche si mangino fritte accompagnate da una polentina bianca morbida.




Trionfa la commedia brillante La Sposa Conveniente al Teatro Villa

di Giuliana Tonini – La compagnia teatrale Pasticcini & Fragole ha sfornato una nuova prelibatezza: la commedia brillante La Sposa Conveniente, andata in scena il 16, il 17 e il 22 novembre al Teatro Villa di Milano.

Ideata, scritta, diretta e interpretata da Evita Paleari, la ‘capocomica’ della compagnia, La Sposa Conveniente è la storia dei tre fratelli Taylor, Dorothy, Bartholemy e Dave, rampolli di una nobile famiglia inglese caduta in disgrazia economica, che stanno per essere travolti dai debiti lasciati dal loro defunto padre. A mali estremi, estremi rimedi: i due maschi pensano bene di sistemare la sorella col vecchio e donnaiolo, ma ricchissimo, conte Sheppard. Salvo poi pentirsi di tanto cinismo e cercando quindi di rimediare, fino a offrirsi di sostituirsi alla sorella per tenere a bada l’eccessiva vitalità del vecchio conte.

Due ore di puro divertimento, con gag esilaranti, battute scoppiettanti  e con un finale che cita il film Il matrimonio del mio migliore amico. Bravissima Evita Paleari nel ruolo di Dorothy e letteralmente da urlo Marco Berna e Alessandro Oteri nei panni dei due fratelli en travesti. Senza tralasciare, naturalmente, la bravura di Loredana Agosta, interprete della governante Grace, di Mauro Maggioni, il temuto conte Sheppard, che appare per pochi minuti alla fine, ma conquista subito la scena, e di Aurora Cecchettin, il fantasma della dolce mamma Taylor che ogni tanto appare recitando in rima.

La compagnia teatrale Pasticcini & Fragole è attiva da sedici anni. Formata da attori non professionisti, è nata come gruppo di genitori che metteva in scena le fiabe per i propri figli della scuola dell’infanzia Cristo Re in zona Villa San Giovanni a Milano, ed è cresciuta nel corso del tempo in numero e in qualità.

La vulcanica Evita Paleari è anche scrittrice e, nel 2018, ha pubblicato il libro Per fare la segretaria devi avere le scarpe adatte, edito da Albatros, autobiografia autoironica sulla sua pluridecennale esperienza di segretaria di direzione in una delle aziende più importanti d’Italia.

Il ricavato della replica del 22 novembre è stato devoluto interamente in beneficenza a favore di African Dream Onlus, organizzazione no profit, fondata dai coniugi Vincenzo Baggio e Antonella Benigna, presenti in sala, che si occupa di sostenere progetti educativi e sanitari in Uganda e Zambia. 

Informazioni e contatti

Pagina Facebook: Pasticcini & Fragole




Tutto o niente: il nuovo successo di Nearco feat. Tiara

TUTTO O NIENTE è la hit estiva di Nearco,  un brano che concilia l’anima rock dell’artista emiliano, con sonorità spiccatamente elettroniche e dance, impreziosite dalla voce straordinaria della giovane co-autrice TIARA, al secolo Chiara Mendo, che vanta un illustre passato di campionessa italiana di tennis under 16.

Abbiamo intervistato Nearco per conoscere meglio i suoi progetti e tutti i dettagli dell’intensissimo tour che lo vedrà in giro per numerose località dell’Emilia Romagna, Toscana e non solo.

Come è nato “Tutto o niente”?

Ogni mio brano parte da uno spunto che trovo nella realtà di tutti i giorni, in questo caso, la consapevolezza che, dalle esperienze della vita non si possono prendere solo le cose belle, ma si devono accettare (o meglio “sopportare”) anche le cose meno belle. Per cui, se ne vale la pena, si deve già sapere che bisogna prendere tutto il pacchetto. Questo è il messaggio che il brano vuol lanciare in modo simpatico ed ironico.

Qual è la novità di questo nuovo singolo, dal punto di vista musicale?

L’idea di utilizzare sonorità elettroniche e dance che rendessero il brano attuale, solare e in linea con il pubblico che incontro nei miei frequenti appuntamenti live; nello stesso tempo si sono scelte sonorità che potessero incontrare e fondersi con la mia anima rock, che da sempre contraddistingue il mio percorso musicale.

Come nasce la collaborazione con Tiara?

Chiara Mendo, in arte Tiara, l’ho conosciuta grazie a Max Corona (mio chitarrista storico, che ha lavorato anche per Emma Marrone, Lucio Dalla, Sylvie Vartain e lo staff di “Amici”), che ha co-prodotto insieme a me questo brano. E’ stata campionessa italiana di tennis under 16 e avendo viaggiato mezzo mondo, ha una straordinaria padronanza dell’inglese: pertanto abbiamo voluto chiamarla in studio e chiederle di scriverci la parte del brano in inglese. Devo dire che mi ha impressionato, oltre che per le sue doti canore, anche come autrice.

Dove possiamo vederti live e quando?

L’ attività live mi porta in giro praticamente tutto l’anno, sia come “front-man” della mia rock-band, sia come animatore e deejay nei party, nei locali e nelle feste di piazza, con un mio format personale che mi piace definire come “DeejayShow“.  Devo dire che dopo diversi anni di dura gavetta, partendo dall’Emilia, mia zona d’origine, e continuando in Romagna e Toscana, la mia attività live, sta raggiungendo piano piano, una dimensione nazionale. Per questa estate sono circa 80 gli appuntamenti live in programma, che vi invito a trovare, visitando i miei social ed il mio sito ufficiale www.nearco.it.  

Progetti in cantiere?

I progetti a breve termine sono due: continuare la promozione del mio nuovo singolo “TUTTO O NIENTE” per tutta l’estate e concentrarmi sul ricco calendario estivo, che mi vedrà impegnato in sagre, feste di piazza, locali ed eventi fino a fine settembre. Dopodiché da ottobre ripartirà la mia trasmissione televisiva in onda su tutta l’Emilia Romagna e parte del nord Italia, dal titolo “Voto Rocknroll” su DI.TV. e, magari, arriverà anche l’ispirazione per tornare a lavorare su un nuovo singolo.

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