“JACK REACHER – PUNTO DI NON RITORNO”: CAPOLAVORO D’AZIONE E D’INDAGINE
di Elisa Pedini – Arriva nelle sale, dal 20 ottobre, l’attesissimo sequel del duro Jack Reacher, col titolo “JACK REACHER – PUNTO DI NON RITORNO”, per la regia di Edward Zwick. Pellicola, semplicemente, straordinaria. Un connubio degno di nota tra l’“action movie” e il “crime thriller”. Un film coinvolgente, avvincente, emozionante, scandito da un ritmo incalzante, che cattura l’attenzione dalla prima all’ultima scena. Nella sua indubbia spettacolarità, il film scorre solido e coerente, coinvolgendo lo spettatore in un intrigo ben strutturato, che, in certi passaggi, richiama la figura dell’hysteron proteron applicata alla cinematografia, che si attua nell’inversione dell’ordine naturale d’un evento, mostrandone prima l’effetto e poi la causa. Questa struttura, non solo consente di tenere sempre alta l’attenzione dello spettatore, ma anche di creare un forte senso di suspense. “Jack Reacher – Punto di non ritorno” è tratto dal libro “Never go back”, diciottesimo volume della fortunatissima saga di Jack Reacher, eroe letterario nato, nel 1997, dalla penna di Lee Child e giunto ormai a ben venti romanzi. Com’è noto, questo personaggio, affascinò talmente Tom Cruise, che, nel 2012, decise di produrre e interpretare il primo film: “Jack Reacher – la prova decisiva”, basandolo su “One Shot”, in realtà, il nono libro della saga. Notevole caratteristica, infatti, dei romanzi su questo eroe, è che non seguono un ordine cronologico, non c’è una continuità con cui familiarizzare per apprezzare il protagonista e le sue gesta. Di fatto, gli unici punti fermi sono Jack e il suo spazzolino da denti. Non per altro, la figura di questo personaggio è proprio quella dello “straniero misterioso”, una sorta di “cavaliere errante” dei nostri tempi. La sua vita nomade, scevra da ogni attaccamento, ha, però, una struttura rigida, basata su regole morali e senso di giustizia. Jack si sposta in autostop, non si ferma mai a lungo in nessun luogo ed è un ex maggiore dell’esercito americano. Il film inizia mostrandoci quattro uomini stesi a terra e ridotti proprio male, sul selciato, fuori da una stazione di servizio. Ecco, appunto, l’“effetto” di cui parlavo prima. Arriva la polizia. I testimoni riportano che, a metterli tutti e quattro ko, è stato un solo uomo, lo stesso che se ne sta, pacifico, seduto al bancone del locale. Quell’uomo è Jack. Ancora s’ignora la “causa”. Forte il contrasto che viene trasmesso allo spettatore: fuori, la notte, i lamenti dei malmenati, il vociare dei testimoni e la sbruffoneria dello sceriffo; dentro, una forte luce al neon, un bianco accecante e un uomo solo, seduto di spalle alla porta, calmo. La spiegazione di tutto, la “causa”, arriva, puntuale e in modo a dir poco spettacolare. Si tratta di traffico di clandestini e Jack li fa arrestare tutti. Quindi, il nostro “giustiziere nomade” se ne va, di nuovo, in autostop. Scopriamo che ad aiutarlo è stato il Maggiore Susan Turner, che gli è succeduta quando lui ha lasciato l’esercito. Quando Jack va a Washington per conoscerla, scopre che è stata arrestata con l’accusa di spionaggio. È subito evidente, per il nostro eroe, che c’è qualcosa di molto strano e inizia a indagare. Qualcuno lo pedina. Jack va a parlare con l’avvocato del Maggiore Turner e così, scopre che Susan aveva inviato due sue unità in Afghanistan, per indagare su una questione poco chiara relativa alle armi. I due inviati vengono ammazzati in pieno stile esecuzione e guarda caso, un giorno dopo, il Maggiore Turner viene arrestata. L’avvocato di Susan viene assassinato e le accuse ricadono su Jack. Con un espediente viene arrestato come militare. Riesce a evadere e a far scappare anche il Maggiore Turner con lui. Da questo punto, non vi dico altro perché la trama si fa sempre più intrigante in un coerente climax di tensione e conduce lo spettatore dentro a una storia di indagini fitte e avvincenti, fra pedinamenti, ricerche, testimoni e rapidi spostamenti per non essere presi, fino a dare spiegazione e soluzione a ogni enigma. A complicare ancora di più la situazione, c’è la figlia di Jack, che va tutelata, perché è un facile bersaglio per colpire lui. Vi rammento, però, quanto detto al principio sulle caratteristiche di questo personaggio: un samurai del nuovo millennio, solitario, nomade, senza legami e scevro da attaccamenti. Appare strano che abbia, al dunque, una figlia. Chi sia questa fanciulla, lo lascio scoprire a voi. “Jack Reacher – Punto di non ritorno” è un film che va seguito e che si fa seguire, con grande attenzione. Di azione ce n’è davvero tanta, ma tutto è calibrato e realistico, evitando così i più classici, abominevoli, cliché degli action movie americani: primo fra tutti, i tipici inseguimenti eterni con dilatazioni spazio-temporali tanto improbabili, quanto ridicole. I personaggi sono ben costruiti e le loro personalità risultano solide e credibili. I dialoghi sono sottili, acuti e vanno ascoltati, apprezzati, perché, persino quelli che possono sembrare più personali e meno utili alla trama, in realtà, sono portatori di messaggi molto importanti su tematiche molto attuali. Mi piace concludere, ponendo l’accento sulla figura del Maggiore Susan Turner, interpretata in modo squisitamente naturale e intenso da una straordinaria Cobie Smulders: una donna molto bella, intelligente, attiva, dotata di profondità e sensibilità, ma anche di grande forza e coraggio. Finalmente, una protagonista femminile realistica. Infine, molto apprezzabile è la totale mancanza d’una futile love story tra i due protagonisti, che non avrebbe dato valore aggiunto alcuno ad un film d’azione e d’indagine qual è “Jack Reacher – Punto di non ritorno.”