L’arte che non è più arte, cos’è?

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di Silvia Ferrari Lilienau – La storia è nota: alla recente fiera di arte contemporanea Art Basel di Miami, Maurizio Cattelan espone una banana (il titolo è Comedian) attaccandola con nastro adesivo alla parete dello stand; poco dopo l’artista americano David Datuna la stacca e la mangia mentre viene ripreso da numerosi cellulari del pubblico presente. Datuna viene allontanato, Cattelan non si offende, della banana – si garantisce – esistono altri due originali. In ogni caso, il valore della banana di Cattelan è di 120.000 dollari.

Ora, da più parti si sono ricordati i precedenti che legittimano una simile operazione, dalla Merde d’Artiste di Piero Manzoni del 1961, alla copertina del disco dei Velvet Underground del 1967 disegnata da Andy Warhol, allo stesso Cattelan, quando nel 1999 fissò alla parete, sempre con nastro adesivo, il gallerista Massimo De Carlo: soprattutto per l’autocitazione in tono minore, va da sé che l’idea nasca stanca, e però solleva scalpore intorno.

Proviamo qui a soffermarci brevemente non sugli oggetti artistici contemporanei in sé, anche perché tutta la storia dell’arte del Novecento si offre come bacino di possibili citazioni e giustificazioni culturali di ogni nuova operazione eventuale. Consideriamo piuttosto il sistema in cui gli oggetti sono ora inseriti, la rete con i suoi nodi, i nessi.

Certo ha avuto un peso l’interruzione del rapporto tra artista e committente, interruzione configuratasi con forza all’inizio del secolo scorso, ma già avviatasi in seno al Romanticismo: finché c’è stato, il committente – aristocrazia, chiesa, borghesia ricca e ambiziosa – si è fatto garante delle scelte, e questo ha deresponsabilizzato l’artista nella scelta dei soggetti. Bastava che l’artista si concentrasse sulla qualità della sua cifra stilistica. Vero è che a volte potevano verificarsi incidenti e incomprensioni, basti pensare a come Caravaggio si concedesse libertà interpretative che conducevano anche al rifiuto di suoi dipinti. Ma più spesso prevaleva una lettura ortodossa, e allora il coefficiente artistico corrispondeva al virtuosismo dell’artista.

Anche in assenza di un committente, ancora nella prima metà del Novecento riferirsi a generi riconoscibili – ritratti, nature morte, paesaggi – seguitava a legittimare il disimpegno ideativo e consentiva di concentrarsi sulla propria originalità compositiva.

Ancora. Se già Marcel Duchamp si era assunto l’onere di sue idee trasgressive, l’eredità dadaista eterogenea del secondo Novecento vedeva però l’esistenza non tanto di singoli artisti autogestiti, ma di gruppi accomunati da una poetica. Dal Pop al Nouveau Réalisme, dalla Optical Art al Minimalismo, dallo Happening alla Body Art, l’esperienza artistica era supportata dall’appartenenza a un collettivo.

Se poi l’arte condivisa era teorizzata da un critico di spessore – il caso di Pierre Restany e il Nouveau Réalisme negli anni Sessanta -, l’attività artistica procedeva forte della decodificazione offerta da addetti ai lavori di cultura articolata. In fondo, anche il fenomeno italiano degli anni Ottanta che fu la Transavanguardia si ancorava alle parole sapienti di Achille Bonito Oliva, senza le quali i protagonisti avrebbero forse vacillato nel confronto con le coeve correnti neoespressioniste tedesche e americane.

Il guaio – posto che guaio sia – si è profilato all’orizzonte quando gli artisti si sono presentati sulla scena soli, ognuno per sé. Quando hanno incominciato a esprimere propri punti di vista.

Immaginare di avere punti di vista è possibile, di fatto accade, ma non necessariamente ogni punto di vista ha forza comunicativa; inoltre, la società attuale è connotata dalla relazione rapida e diramata, gli artisti soli non hanno possibilità di sopravvivenza. I galleristi colti, che fino a qualche decennio fa stringevano sodalizi con artisti e critici (su tutti Arturo Schwarz, scrittore, fra l’altro, e sofisticato conoscitore di Dadaismo e Surrealismo), hanno più spesso lasciato il posto a galleristi potenti e a grandi case d’asta (illuminanti le pagine dedicate da Sarah Thornton a questi contesti una decina d’anni fa, nel libro Seven Days in the Art World).

A chi si legano allora gli artisti, per operare in spazi di visibilità? Ai curatori.

Il critico si poneva come tramite fra l’operato degli artisti e il pubblico. Capitava che il suo linguaggio specialistico fosse intellegibile al solo pubblico preparato, e certo, promuovendo alcuni artisti, il critico finiva per renderli riconoscibili anche al mercato dell’arte. Ciò non toglie che il suo ruolo intendesse essere anzitutto esegetico.

Il curatore non nasce come interprete potenziale, semmai come organizzatore di mostre ispirate a sue idee, suoi interrogativi o immagini del mondo, a cui ricondurre opere di artisti che quelle idee possano confermare, illustrandole.

Le danze in tal senso furono aperte da Harald Szeemann con l’ormai storica mostra del 1969 alla Kunsthalle di Berna When attitudes become forms. Suo erede può oggi essere considerato un altro curatore svizzero, tra i più influenti al mondo, Hans Ulrich Obrist. Della categoria fanno parte anche Massimiliano Gioni, curatore della Biennale di Venezia del 2013 intitolata Il palazzo enciclopedico, e Milovan Farronato, curatore del Padiglione Italia dedicato al tema del labirinto, all’ultima Biennale veneziana.

Se i critici si collocavano tra gli artisti e il pubblico, i curatori sembrano collocarsi sopra gli artisti e sopra il pubblico: non si fanno tramite di possibili interpretazioni, ma sollecitatori di riflessioni attraverso l’arte. E sono conoscitori del mercato: sono loro a interloquire con i collezionisti.

Non a caso Milovan Farronato è assurto agli onori della cronaca internazionale dopo la nomina a direttore del Fiorucci Art Trust, a Londra, mentre Massimiliano Gioni aveva mosso i primi passi alla Fondazione Trussardi di Milano, cioè nel mondo del mecenatismo milanese legato alla moda.

A meno che non abbia raggiunto chiara fama, l’artista ora rischia di rimanere compresso tra il personaggio del curatore e la volontà speculativa del collezionista facoltoso, al quale ultimo è anzi affidato il destino dell’artista. A fare la fama dell’artista non è propriamente la scrittura del curatore, ma la somma di denaro con cui un suo lavoro è stato battuto all’asta. Dunque l’arte gratificata dal grande collezionismo è quella riconosciuta come capitale. Se ne deriva che i nomi di punta dell’arte contemporanea siano per lo più scelti dai grandi collezionisti.

Ma che fine ha fatto il pubblico, in tutto ciò?

Il pubblico è quello che si vede nel video della performance messa in atto da David Datuna nello stand della Galerie Perrotin alla fiera d’arte di Miami: decine e decine di cellulari a riprendere la scena. I video saranno stati pubblicati nei social network, amplificando a dismisura la fama di Cattelan, omaggiando di pubblicità gratuita la Galerie Perrotin e puntando i riflettori su un artista poco noto fino a quel momento. Il pubblico è il nuovo agente promotore di un’arte che non necessariamente capisce o ama, ma di cui si sente compartecipe attraverso la “condivisione” che è imperativo categorico di ogni “social”. Se prima occorreva capire i testi dei critici, pur spesso spocchiosi e persino indecifrabili, ora basta “postare” video e immagini, dimostrando di essere stati fisicamente presenti all’ “evento”.

Nel caso della banana di Miami, il contributo artistico di Cattelan è pressoché inesistente, rispetto all’operazione commerciale e all’attenzione mediatica ottenuta.

Qui è come se i sarti truffaldini de I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen non avessero neppure bisogno di mentire, come se anzi dichiarassero subito di voler ingannare tutti, e l’opera d’arte fosse proprio l’inganno dichiarato. Talmente dichiarato, da capovolgere i termini del discorso.

Ecco, si ha l’impressione che nell’arte più recente i termini del discorso siano capovolti. Difficile dire se debbano e possano essere ripristinati parametri di più rigorosa e fondata consapevolezza storico-artistica. O meglio, la logica questo vorrebbe, ma non necessariamente essa corrisponde ai bisogni prevalenti. Di certo però, se questo sarà il procedere artistico a venire, gli strumenti analitici da mettere in campo afferiranno sempre più spesso agli studi di economia e di sociologia, e sempre meno alla storia dell’arte stricto sensu.

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