Mattia Marzi racconta come è nato “Tu lo conosci Coez”
Mattia Marzi, 24 anni, affermato e preparato giornalista musicale, redattore per Rockol, ha da poco pubblicato il suo primo libro, “Tu lo conosci Coez?”, sulla crescita umana e artistica del cantautore e rapper italiano Silvano Albanese, in arte Coez. Il libro, uscito lo scorso febbraio, è già un successo.
Un esordio letterario interessante. Perché un libro su Coez? Lo conoscevi? Come ti sei avvicinato al personaggio?
Innanzitutto permettimi di salutare tutti i lettori di “Cosmopeople” e di ringraziarvi per lo spazio che mi state dedicando. Dunque… Perché un libro su Coez? È stata la casa editrice a contattarmi per propormi di scrivere un libro su Coez, lo scorso settembre. Arcana stava per inaugurare una collana interamente dedicata ai cantautori del 2000 e tra i libri in programma c’era anche un volume dedicato a Coez. Lo conoscevo e avevo anche avuto modo di scrivere degli articoli su di lui per Rockol, il sito con il quale collaboro da ormai qualche anno e del quale sono uno dei redattori. In particolare, avevo recensito il suo ultimo album, “Faccio un casino”, e avevo parlato di Coez in un articolo sulla terza generazione di cantautori romani. È stato proprio dopo aver letto questi articoli che Arcana mi ha invitato a scrivere il libro e io ho accettato. Non vi nego che era da un po’ che sognavo di scrivere un libro, ma non mi ero mai sentito del tutto pronto a farlo. Forse non mi sentivo all’altezza o forse, più semplicemente, “non sapevo da dove iniziare” (quasi citando Coez!). Quando è arrivata la proposta di Arcana non ci ho pensato due volte: ho accettato e mi sono messo alla prova.
Mi sono avvicinato al personaggio semplicemente cercando di raccontare in modo onesto, sincero e schietto la storia di Coez (e spero di esserci riuscito): dalle prime rime scritte in cameretta fino al successo che ha ottenuto a livello “mainstream” con l’ultimo album, passando per l’esperienza con il suo primo gruppo, i Circolo Vizioso, il collettivo dei Brokenspeakers, il debutto come solista e la svolta di “Ali sporche”. Ho provato a raccontare non solo l’artista, ma anche la persona e la storia dietro le sue canzoni: il rapporto burrascoso con il padre, l’attaccamento alla mamma (alla quale ha recentemente dedicato anche “E yo mamma”), le tante porte che gli sono state sbattute in faccia, la fatica che ha fatto per arrivare al successo (per molto tempo i media “tradizionali”, “mainstream”, di Coez proprio non volevano saperne, perché secondo loro non era abbastanza “pop” per il pubblico generico e non era abbastanza rap per entrare in certi circuiti). Non è stato facile, prima di cominciare a scrivere il libro ho raccolto parecchio materiale, perché volevo che i contenuti fossero quanto più veritieri possibile. Anche se ho deciso di avvicinarmi molto, a livello di tono e di stile, alla forma del romanzo: proprio perché volevo raccontare una storia, ma con un taglio “giornalistico” nella ricerca dei contenuti.
Come hai raccolto il materiale per scrivere il libro?
Per raccontare gli ultimi tre album, “Non erano fiori” del 2013, “Niente che non va” del 2015 e “Faccio un casino” del 2017, quelli della svolta “cantautorale” per intenderci, ho avuto a disposizione parecchio materiale, tra interviste, videointerviste, recensioni e altro. Invece è stato più difficile andare a recuperare materiale relativo alla prima fase della sua carriera, quella precedente la svolta di “Ali sporche”, cioè il Coez-rapper. Sono andato a recuperare vecchie interviste ai Circolo Vizioso e ai Brokenspeakers e vecchi articoli su questi gruppi, con i quali Coez si è fatto conoscere all’inizio della sua carriera. Poi ho trovato spunti interessanti anche nei testi dei brani contenuti all’interno degli album del primo periodo, in particolar modo quelli dell’album solista “Figlio di nessuno”: lì Coez ha raccontato molto di sé e della sua storia personale. Ci tenevo ad essere preciso nel racconto dei fatti e delle vicende, così ho pensato di confrontarmi anche con chi è stato vicino a Coez nel momento cruciale della sua carriera, il passaggio da “rap” a “cantautorato”-“pop”: Riccardo Sinigallia (che ha prodotto l’album “Non erano fiori”) e Dario Giovannini di Carosello Records (che ha accolto Coez nel suo roster e ha pubblicato i suoi dischi tra il 2013 e il 2016). Entrambi hanno accettato di partecipare al progetto, di contribuire con una testimonianza: sono stati gentilissimi e il loro contributo è stato per me molto prezioso.
Secondo te, da esperto del settore musica, il rap è la musica del futuro? Anche in Italia? Ha ancora tanto da dire?
Parlare di “musica del futuro” secondo me è rischioso. Perché i tempi che stiamo vivendo sono decisamente frenetici. Le mode si rincorrono velocissime: una moda, o nel nostro caso un genere musicale, non fa in tempo ad affermarsi che subito arriva una nuova moda. Ora, ad esempio, va fortissima la trap, che nasce in ambito hip hop ma che sembra pian piano emanciparsi e diventare un genere a sé stante.
Il rap è nato negli Stati Uniti tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80, ma negli States ha raggiunto il successo “commerciale” solo qualche anno dopo. Il rap italiano è un caso particolare. I primi rapper hanno cominciato a farsi strada tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90 “scimmiottando” quelli americani. Per lungo tempo il rap, in Italia, è rimasto confinato all’interno del cosiddetto “underground” (se escludiamo casi come quelli di Jovanotti o degli Articolo 31, che però venivano accusati dai rapper duri e crudi e dai puristi di essere sostanzialmente dei “poppettari”). Anche perché erano gli stessi rapper che si auto-escludevano: per loro partecipare a manifestazioni come il Festivalbar oppure pubblicare pezzi più “radiofonici” era come svendersi al sistema. La vera testa d’ariete del rap italiano è stato Fabri Fibra, che con un album come “Tradimento” ha fatto il dito medio ai diktat della scena e ha dimostrato che era possibile fare un rap dai toni più “pop” ma dai contenuti importanti e coerenti con le radici del genere, restando comunque credibile. Un anno importante, per la storia del rap italiano, è stato il 2013: quell’anno i dischi dei rapper italiani hanno cominciato a scalare le classifiche. Però poi è come scattata una caccia ai primi posti: molti rapper hanno preferito avvicinarsi al “pop”, altri invece – come per reazione – sono tornati allo spirito degli esordi. Non so se il rap è davvero la musica del futuro e se ha ancora tanto da dire. Sicuramente come genere ha cambiato le carte in tavola e “rivoluzionato” – tra molte virgolette – la canzone italiana, non solo a livello di suoni e contenuti, ma anche a livello di spirito e di atteggiamento.
Stai lavorando ad altri progetti?
Per ora preferisco tenere la bocca cucita e non sbottonarmi. Scrivere il libro su Coez è stata una bella esperienza: mi ha insegnato molto e mi ha entusiasmato. E poi è stata la mia prima volta… e come tutte le prime volte è stata fantastica. Mettiamola così: non mi dispiacerebbe ripetere questa esperienza in un futuro prossimo. Chissà!