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“DOMANI”: il futuro è possibile

di Elisa PediniDal 6 ottobre nelle sale cinematografiche italiane, “DOMANI”, l’importante film sul nostro futuro, per la regia dello scrittore francese Cyril Dion e dell’attrice e regista Mélanie Laurent. Pellicola intelligente, coinvolgente, comprensibile, incisiva. “Domani” va visto, assolutamente. Ci chiama in ballo tutti e ci mostra in modo, a dir poco, inequivocabile, che tutti noi, ma proprio tutti, possiamo e dobbiamo, fare qualcosa. Il nostro pianeta è la nostra casa. Saremmo l’unica specie animale, con pretese di superiorità, tra l’altro, che si auto-estingue. In tanti anni di carriera, non mi era mai successo che, alla fine d’una programmazione per la stampa, la platea esplodesse in un applauso spontaneo e unanime. Eppure, tant’è. Questa è una pagina di critica cinematografica, dunque, non indulgerò in commenti che esulino da tale contesto, ma, fedele a me stessa, non vi lesinerò la verità, per cruda ch’essa sia. Sono lieta d’avere lettori intelligenti, che sapranno trarre le loro conclusioni e andranno a vedersi il film per iniziare, da oggi, a costruire il “Domani”. Dagli ultimi studi scientifici, la situazione del nostro pianeta è apparsa inquietante. L’uomo sta giungendo all’autodistruzione di se stesso. Quello che ha preoccupato maggiormente gli studiosi e che ha spinto i registi a dar vita a questo incredibile prodotto cinematografico, è la totale indifferenza della gente. Se, fino a ieri, la scusa era quella di dire che mancava l’informazione, bene, oggi, ve la stiamo dando: i miei colleghi ed io, in prima persona e i registi per mezzo di questo film. Vi avviso subito che non è un film per ambientalisti, ma per “cittadini”, che è molto diverso. “Domani” è una pellicola intelligente, che ci obbliga a prenderci le nostre responsabilità sulle spalle, senza alibi e con coraggio. I cambiamenti che stanno avvenendo alla nostra terra sono rapidi e preoccupanti. Il messaggio di “Domani” è chiaro: se non agiamo subito, tra un paio di decenni, ci ritroveremo come i dinosauri. Mi piace far riflettere sul fatto che, mentre i dinosauri si sono estinti per mutazioni naturali e climatiche del tutto indipendenti dalla loro volontà, noi, ce la saremo andata a cercare. La crescita demografica ha fatto triplicare la popolazione. Siamo in troppi. Il nostro pianeta è stato sfruttato eccessivamente e le risorse naturali sono finite. Mi dispiace informarvi che non è uno di quei film catastrofici da botteghino, è la realtà dei fatti. Mi dispiace, anche, dirvi che gli alieni non c’entrano niente e che sterminarsi tra di noi, non è la soluzione. “Domani” analizza tutti i settori della nostra vita: agricoltura, energia, economia, politica, o meglio, democrazia e istruzione. Dopo aver presentato la situazione attuale del nostro pianeta, il film ci propone, con lucidità e obiettività, le soluzioni, che ci sono e che sono già state adottate. Basta ascoltare e applicare. Personalmente, l’ho fatto, nel mio piccolo, il giorno dopo aver visto il film. Vi porterò solo alcuni esempi tratti dal film, ma le frasi le riporterò fedelmente. Cominciamo, per esempio, riflettendo su quanto possiamo fare in campo “agricolo”. Ammetto che ignoravo che il 70% del cibo fresco ci provenisse dai piccoli agricoltori, perché, in realtà, l’agricoltura industriale non è assolutamente in grado di rispondere ai fabbisogni poiché depaupera il suolo e dunque, le colture non possono essere variegate. A Detroit, hanno dato una svolta. I cittadini, piuttosto che andarsene e abbandonare la città, si sono rimboccati le maniche, dando così vita all’«agricoltura urbana». Hanno cominciato a coltivare le aree abbandonate, i giardini tra le case, le aiuole. I terreni incolti sono stati dati in gestione alla popolazione, che, con amore e dedizione, se li coltiva. «Bisogna cominciare da dove si è: dalle proprie case, dalle proprie strade. Solo così si può cambiare.», ci dice una signora. Oggi, hanno tutti i cibi freschi in tavola, a disposizione gratuitamente di tutti e a km0. Certo, «ci vuole una gran forza di volontà, non è un lavoro facile, è duro, ci si sporca e va conciliato con la vita di tutti i giorni.», afferma un ragazzo. Magnifico, ho pensato, basterebbe un po’ di senso civico in più e si potrebbe fare anche qua. Posso dirvi che io ho un piccolo balconcino, fino a ieri del tutto inutile, che è diventato la sede del mio piccolo “orto urbano”, perché nel film spiegano i principi e danno le fonti per approfondire. Parliamo, ora, di energia. Il cambiamento climatico dovuto all’inquinamento, sta mutando radicalmente il ciclo dell’acqua, con conseguenze catastrofiche. «Sole, acqua, vento, geotermia sono tutte fonti d’energia gratuita e inesauribile» per questo «Bastano piccoli operatori per gestire, non servono certo colossi. Basta volere e attivarsi.» Di nuovo, torna il concetto, su cui mi piace insistere: «volere e attivarsi». L’Islanda ha già centrato l’obiettivo: indipendente al 100%. Molti altri sono gli esempi prodotti di chi ce la sta già facendo, o di chi, per esempio, potrebbe farcela benissimo. V’invito a fare molta attenzione a ogni singolo intervento. Le riflessioni che solleva il film, fotogramma dopo fotogramma, sono innumerevoli e davvero importanti. Soprattutto, per noi, per la nostra realtà nazionale. Molto interessanti e istruttivi anche gli aspetti dell’economia e dell’imprenditoria, che vi lascio scoprire; mentre, mi piace attirare la vostra attenzione su quanto vedrete relativamente al concetto di “democrazia” e agli esempi apportati. Vi cito solo due frasi: «Dobbiamo tutelare l’unico potere che abbiamo: quello popolare» e «Troppi soldi e troppo potere sono deleteri e portano alla corruzione». Qui, una riflessione in nome del popolo sovrano, direi, che sia piuttosto obbligatoria. V’invito, in particolare, a prestare attenzione alla realtà islandese. Concludo, con un altro aspetto d’estrema d’importanza: l’istruzione. «Non siamo un paese ricco, la nostra forza è l’istruzione». Ecco, è su questa frase che vi lascio riflettere e che rinnovo l’invito a non perdere, assolutamente, questo film. Lasciatevi prendere da una fotografia decisamente seducente, ridete delle battute, fatevi sedurre dalle idee, ma soprattutto, riflettete e laddove possiate, agite. Mi piace pensare un “Domani” per i nostri figli, che comincia dal nostro «volere e attivarsi», oggi.

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L’intramontabile Rocky Horror del cinema Mexico

di Giuliana Tonini – Il 14 ottobre riprenderà la programmazione del Rocky Horror Picture Show al cinema Mexico di Milano. L’appuntamento sarà, come di consueto, il venerdì sera alle 22. Le date, nel corso dell’anno, si potranno consultare sul sito www.cinemamexico.it.

È dal 1981 che la sala di via Savona porta in scena l’originale rappresentazione interattiva in cui, mentre viene proiettato il film sullo schermo, sul palco un gruppo di attori, vestiti e truccati come i personaggi del film, recita, canta e balla in contemporanea con le scene che scorrono sullo schermo.

Per chi non lo conoscesse, il Rocky Horror Picture Show è il film musical cult del 1975 diretto da Jim Sharman, trasposizione cinematografica dello spettacolo teatrale di Richard O’Brien, che aveva sbancato i botteghini dei teatri di Londra e Broadway.

È la storia di due fidanzati, Brad e Janet, borghesi, pudichi e perbenino che, mentre sono in viaggio, dopo il rito del regalo dell’anello di fidanzamento, bucano una gomma durante un temporale e finiscono per chiedere aiuto bussando alla porta di un inquietante castello. È il castello del dottor Frank-n-Furter, il travestito in guepiere, calze a rete e tacchi vertiginosi, incontrovertibilmente macho nonostante gli abiti femminili, interpretato da Tim Curry, dalla voce e dalla presenza formidabili. In una parodia della storia di Frankenstein, lo scienziato Frank-n-Furter sta lavorando alla creatura Rocky, un biondo uomo oggetto, palestrato e volutamente decerebrato, e ha convocato nel suo castello illustri personaggi da tutta la Transilvania per farli assistere alla nascita della sua creazione. I fidanzatini si trovano così catapultati in un mondo in cui il concetto di ‘normalità’ è completamente sovvertito e in cui, davanti a Frank-n-Furter e alla sua corte di unconventional conventionalists, i diversi sono loro. La notte, piena di grottesche avventure, passata nel castello transilvano porterà Brad e Janet alla scoperta di un proprio sé insospettabile, fino ad allora messo a tacere dalle convenzioni sociali.

Il film, come prima lo spettacolo teatrale, è stato un successo. La sua carica allegorica, volutamente e irresistibilmente kitsch, ha conquistato il pubblico e sono subito cominciate negli Stati Uniti le proiezioni serali del sabato, a mezzanotte, dove tuttora gli spettatori vanno vestiti e truccati come i personaggi del film.

È su questa onda che, nel 1981, Antonio Sancassani, il proprietario del cinema Mexico, ha fatto della sala cinema milanese una Rocky Horror House. Una delle cinque Rocky Horror House al mondo e, a giudizio di molti, una delle migliori.

Nel cinema d’essai che oggi è, orgogliosamente, l’ultimo monosala rimasto a Milano, da 35 anni periodicamente si svolge il rito del Rocky Horror Picture Show. Perché di vero e proprio rito si tratta, cui assistere più e più volte, divertendosi sempre come pazzi.

Prima di ogni rappresentazione, quelli che assistono allo spettacolo per la prima volta – i vergini, come vengono appellati dal Diabolical Plan, la compagnia di attori amatoriali – vengono invitati ad alzare la mano, e sono sempre pochissimi. È a loro che viene spiegato con quali battute e con quali gesti partecipare allo spettacolo. Perché il pubblico interagisce.

E così ogni volta che viene nominata Janet Weiss si deve ripetere ad alta voce il suo cognome, il nome di Brad viene sempre accompagnato da un bel asshoooooooole, il dottor Scott da un uh! e così via. Al pubblico viene fornito dai Transilvani che girano per la sala il diabolical kit, un sacchetto che contiene, ad esempio, il riso da lanciare durante la scena del matrimonio degli amici di Brad e Janet, il giornale da mettersi in testa come fa Janet sotto il temporale, il guanto di lattice da fare schioccare in contemporanea col dottor Frank-n-Furter, la carta igienica da sventolare durante la scena della ‘nascita’ della creatura Rocky,…

Lo zoccolo duro del pubblico non ha bisogno di nessuna spiegazione. Molti fan partecipano ad ogni rappresentazione, conoscono a memoria ogni battuta e ogni canzone, e seguono tutto le spettacolo ripetendo le battute e cantando. Ma anche per chi non sa le parole, quando è il momento della canzone Time Warp è ‘vietato’ non alzarsi e non ballare il celeberrimo brano seguendo i passi degli attori sul palco e sullo schermo. Oltre a questa hit, il musical di Richard O’Brien offre molti altri pezzi indimenticabili, tra cui Science Fiction – Double Feature, Damn it Janet, Sweet Transvestite – il pezzo con cui Frank-n-Furter fa la sua grande entree – Rose Tint My World, I’m Going Home, e il significativo Don’t Dream it, Be it, il motto del Rocky Horror Picture Show.

Tra il pubblico, chi vuole si sbizzarrisce indossando le mise più disparate. Il minimo sindacale sono una parrucca di un colore sgargiante e un altrettanto sgargiante boa di piume di simil struzzo. Poi si vedono calze a rete, cappelli con gli strass, grembiuli alla Magenta (uno dei personaggi), uomini con parrucca e camice verde, ragazze che festeggiano l’addio al nubilato e chi più ne ha più ne metta.

E gli spettatori del Rocky Horror Picture Show sono di tutte le età. Si va da ragazzi e ragazze giovanissime a chi era ragazzo quando il film è uscito più di quarant’anni fa.

Insomma, assistere al Rocky Horror Picture Show è divertimento puro.

La compagnia del Diabolical Plan è composta da attori non professionisti che hanno in comune la grande passione per il Rocky Horror Picture Show e da anni si divertono a rappresentare i loro personaggi preferiti. Frank-n-Furter, il protagonista assoluto, l’antieroe egocentrico, cinico e perverso che però affascina e conquista il pubblico, da 7 anni è interpretato dal formidabile Andrea Alletto, in una performance sorprendente.

Last but not least, lo scorso aprile la Bocconi Live Performance Students Association – BLPSA ha tenuto presso l’OpenSide dell’Università Bocconi di Milano una conferenza, con la partecipazione di Andrea Alletto, sul caso manageriale del cinema Mexico come fortunata Rocky Horror House.

Ci vediamo al Mexico.

Dove, quando e a quanto:
Dove: cinema Mexico, via Savona 57, Milano
Quando: il venerdì sera alle 22 (per le date, consultare il sito internet)
A quanto: 6 euro.
Sito internet: www.cinemamexico.it
Pagine Facebook: Cinema Mexico e Diabolical Plan
Fan club: www.rockyhorroritalianfans.it




“ESCOBAR” – UNA STORIA INTENSA AD ALTA TENSIONE

di Elisa Pedini – Esce domani, 25 agosto, nelle sale italiane il film “Escobar”, per la regia e sceneggiatura di Andrea Di Stefano. Pellicola decisamente intrigante, potente, intensa. Assolutamente, da non perdere. Il regista, al suo esordio sul grande schermo, ci regala un vero capolavoro. Personalmente ha raccolto il materiale su Pablo Escobar, figura estremamente peculiare della scena del crimine organizzato. Nessuno come lui è stato amato e odiato, venerato e temuto. Un film che tiene lo spettatore incollato alla sedia per due ore, senza che neppure se ne accorga. Ogni aspetto è curato. Ogni situazione narrata, perfettamente calibrata. Nessuna scena inutile. Nessuna lungaggine. Tutto è necessario e l’attenzione non cala mai. La tensione è palpabile e presente sin dalla prima scena del film, senza mai trascendere né nella violenza gratuita, né in scene, tanto sperticate quanto improbabili. Una regia, a parer mio, magistrale, che si gioca sull’introspezione psicologica e sugli sguardi, oltre che sull’azione reale. Inquadrature a mezzo primo piano che rapide si spostano in soggettiva, bucando lo schermo. Lo spettatore è negli occhi dei protagonisti e ne prova gli stessi pensieri, le stesse emozioni, la stessa paura. Quando non si ha bisogno d’indulgere in inutili scene di violenza o di sesso, che nulla apportano né alla trama, né allo spettatore, è perché si ha davvero qualcosa da raccontare e soprattutto, perché si sa, veramente, fare regia. Pellicola degna d’encomio. La trama vede due storie parallele dipanarsi attorno a quella principale che è imperniata su Pablo Escobar: quella di Nick e Dylan e quella di Nick e Maria; ma nessuna soverchia l’altra, pur venendo ben sviluppate e delineate, né, tanto meno, sottraggono attenzione alla linearità e inesorabilità degli eventi. Ogni personaggio ha il suo spessore, alle volte solo tratteggiato; ma sufficiente per evincere perfettamente sia l’interiorità, che l’esteriorità del vissuto sullo schermo. La storia inizia in medias res. Una giovane e bella coppia, Nick e Maria, si stanno, a quanto pare, preparando a una celere fuga; ma qualcuno bussa. La tensione è già presente, nei loro sguardi, nel contrasto tra la luminosità della stanza in cui si trovano e il buio da cui si sente provenire il rumore. Nick è convocato da Pablo Escobar. Questi, sta per consegnarsi alle autorità e prega, colto in una profonda quanto terrificante umanità, per poi parlare ai suoi uomini, in tutta la sua inquietante, terribile, figura. Ha bisogno di fare un’ultima delicatissima operazione. Da qui, lo spettatore viene portato indietro nel tempo, a quando Nick, giovane e bel surfista canadese, arriva in Colombia per raggiungere suo fratello Dylan. Davanti ai suoi occhi si apre un paradiso: una laguna turchese, spiagge bianche come l’avorio e onde perfette. Non per niente, il titolo originale è proprio “Escobar: Paradise Lost”. I due fratelli pensano davvero d’aver trovato il loro paradiso in terra. Il loro sogno è stabilirsi lì e aprire una scuola di surf. Nick incontra Maria, bella e sensuale colombiana. La loro storia d’amore si sviluppa chiaramente per lo spettatore, che la percepisce e la vive senza ch’essa divenga mai esplicita o mielosa. Bastano pochi tratti per avere chiara la situazione. Tutto sembra perfetto. Maria vuole presentare ufficialmente Nick alla sua famiglia e in particolare a suo zio, amato e acclamatissimo, i di cui manifesti troneggiano in tutto il paese: Pablo Escobar. Sentire Maria definirlo come un esportatore del principale prodotto colombiano: la cocaina, è semplicemente geniale e mette il punto, attraverso una sola frase, sulla duplicità di visione del personaggio: narcotrafficante spietato e senza scrupoli per il mondo, benefattore per i suoi congiunti e il suo popolo. È così che Nick entra a far parte della “famiglia”, naturalmente, non solo nel senso amorevole del termine, ma anche nel senso più occulto che il crimine organizzato da a tale parola. Il primo dialogo tra Pablo e Nick è apparentemente molto tranquillo nei toni e nelle espressioni dei due protagonisti; ma posso garantirvi che lo si percepisce, letteralmente, agghiacciante. Il ragazzo non sa nulla di Escobar ancora e parla con serenità, senza comprendere né sospettare le conseguenze delle sue parole. Solo trasferendosi a vivere nella villa di Pablo vedrà, intuirà, capirà. Siamo appena all’inizio del film, in verità. La storia prosegue in un climax di tensione fino a ricongiungersi alla scena iniziale e condurre per mano lo spettatore verso situazioni sempre più ambigue e inquietanti fino alla conclusione del film. Volutamente non vi dico altro perché è un film che va visto e gustato: nella profondità e sapienza delle inquadrature, nei giochi di forte luce e cupa tenebra, nell’accostamento dei toni caldi e freddi, nella tranquillità dei dialoghi che sottendono, nel loro placido svolgersi, terribili minacce e verità. Tutto scandisce la tensione, senza mai stressare lo spettatore. Di fatto, non si vede nulla di cruento, ma tutto è percepito in modo potentemente “brutale”. L’interpretazione è affidata a un cast d’eccezione, che si conferma tale e non ha certo bisogno né di encomi, né di presentazioni: Benicio Del Toro, nel ruolo di Pablo Escobar, Josh Hutcherson e Claudia Traisac, rispettivamente Nick e Maria nel film e Brady Corbet, nella parte di Dylan.




“TORNO DA MIA MADRE” – UNA “FAVOLA” TENERA E MALINCONICA

di Elisa Pedini – Nelle sale italiane da domani, 25 agosto, il film “Torno da mia madre”, ad opera del regista e sceneggiatore francese Éric Lavaine. Commedia piacevole e leggera, che, al dunque, si mostra più come una “favola” sulla famiglia e sulle problematiche odierne, che, purtroppo, molti quarantenni si trovano a vivere. Le tematiche trattate sono molto attuali, ma la realtà si stempera nella tenerezza della poesia, tenendo toni malinconici, molto tenui e superficiali, senza sviscerare né introspettivamente, né socialmente, le varie situazioni proposte. Pertanto, è un film piacevole e anche comico, che va approcciato come una bella favola, senza forzarne i parallelismi con la vita vissuta. Mi spiego nel dettaglio, partendo dalla trama. La protagonista è Stéphanie, bella donna e architetto di quarant’anni. Il film inizia con lei, molto elegante e serenamente alla guida della sua cabrio rossa fuoco, mentre attraversa panorami stupendi. Tuttavia, quest’immagine di ricchezza e serenità, termina coi titoli di testa, quando, Stéphanie, restituisce l’auto e a piedi s’allontana con il suo bagaglio verso la fermata dell’autobus. È evidente che qualcosa è cambiato. Infatti, la donna fa ritorno a casa della madre, Jaqueline, la quale, l’accoglie a braccia aperte. Apprendiamo che Stéphanie è divorziata con un bambino e che ha chiuso il suo studio per fallimento, perdendo tutto. La prostrazione della donna è comprensibile ed evidente: è passata dall’avere tutto, al perdere tutto in un attimo. Quello che mi ha irritata e non poco è che Stéphanie non fa che lamentarsi e piangersi addosso: ogni occasione è buona per dire quanto sia sfortunata e quanto sia nei guai. Per quanto possa essere comprensibile il suo scoramento e l’imbarazzo di dover tornare dalla propria madre, non è possibile non pensare a quanti si trovino nella sua stessa, identica condizione, senza, però, avere la grandissima fortuna di rifugiarsi a casa di mamma. Aspetto fondamentale, perché, non solo le dona un tetto sicuro sopra la testa, ma anche la serenità di cercare un lavoro e il lusso di rifiutare impieghi umili e pesantemente squalificanti. Personalmente, avrei preferito udire meno lamentele e più gratitudine. E questo, secondo me, è l’aspetto più importante, per il quale, il film va gustato come una “favola”, da prendersi così com’è, senza parallelismi con la vita reale. L’ho premesso che la pellicola evita il drammatico, stemperandolo nella tenerezza della malinconia e del sentimento. Ovviamente, come si poteva, logicamente, supporre, le abitudini delle due donne sono diverse e da qui scaturiscono le situazioni più esilaranti del film. Soprattutto, perché, Jacqueline, ha un segreto, che vuole comunicare ufficialmente ai figli. Per tale ragione, ella assume non solo comportamenti strani, incomprensibili agli occhi di Stéphanie, che, addirittura, li scambia per segnali di demenza senile; ma organizza anche un pranzo con tutti i suoi tre figli. Quella tavola, imbandita con amore dalla mamma, diviene, però, una specie d’arena, dove i tre “gladiatori” combattono le loro personalissime guerre. Trapelano gelosie, vecchi rancori e soprattutto una sorta di fastidio verso la nuova situazione che s’è venuta a creare. Anche qui, però, il regista non s’inoltra nell’introspezione psicologica dei personaggi e non va oltre il mostrare tre personalità con grandissimi problemi relazionali, se non psichici, come nel caso di Carole, la sorella di Stéphanie. La reazione, giusta e coerente di Jacqueline, pone fine alla “corrida familiare”. Da questo momento, il film si concentra maggiormente sulle vicende personali della madre e del suo “segreto”, lasciando un po’ in secondo piano tutto il resto. Neppure nel momento di pathos della rivelazione ai figli della “grande notizia” si raggiunge una profondità introspettiva. La reazione dei tre, per quanto, forse, abbastanza probabile e realistica, resta sempre superficiale. L’impressione è che, Lavaine, abbia desiderato produrre una commedia “vera”, ma poi abbia avuto remore nel mostrare la durezza della verità. I toni stemperati e comici della commedia scorrono, comunque, gradevoli, con vicissitudini divertenti e alle volte, persino esilaranti, fino a garantire il lieto fine. Una “favola” piacevole, che lascia sereni. Ambientazioni bellissime e una fotografia molto curata danno il tocco finale. Un’altra cosa che mi ha colpita è l’estrema luminosità: questa pellicola è dominata dalla solarità e dai colori caldi, che trasmettono un senso di grande pace allo spettatore. Da sottolineare anche l’interpretazione sia di Alexandra Lamy, nel ruolo di Stéphanie, che risulta molto credibile e riesce a trasmettere il senso di disagio del suo personaggio, sia dell’eccellente Josiane Balasko, nella parte di mamma Jacqueline, che, non solo, risulta essere l’unica figura, in sceneggiatura, con una vita vera e ben vissuta e con un carattere ben definito, ma viene anche interpretata in modo profondamente “sentito” e sfaccettato.




“LA GRANDE BELLEZZA” IN VERSIONE INTEGRALE

di Elisa Pedini – Il pluripremiato film di Paolo SorrentinoLa grande bellezza”, torna nelle sale in versione integrale, con 30 minuti di scene inedite in più, solamente per tre giorni: 27, 28 e 29 giugno. L’elenco dei cinema che lo trasmetteranno è disponibile sul sito: www.nexodigital.it. La pellicola fu presentata al Festival di Cannes nel 2013, vinse il Premio Oscar come Miglior Film Straniero, il Golden Globe e il BAFTA, oltre a quattro European Film Awards, nove David di Donatello, cinque Nastri d’Argento e numerosi altri premi internazionali. Decisamente, non è un film che necessita di presentazioni e non solo per l’incetta di premi, ma anche per il gran parlare che se ne fece, suscitando fazioni completamente opposte: critiche e ovazioni, amore e odio. Non è la prima volta che una pellicola viene riproposta in versione integrale dopo un po’ di anni; ma, qui, è diverso, perché, non solo da un lato rinforza la filosofia stessa del film: ovvero, replicare il divenire della vita col suo estenuante dipanarsi in digressioni continue; ma anche, completa e definisce il personaggio principale. Lo stesso regista afferma: «Sono molto felice che la versione integrale de La grande bellezza possa arrivare per tre giorni al cinema. Durante il montaggio è stato necessario sacrificare alcune scene, fare delle scelte. Questa versione restituisce il film nella sua interezza, permettendo di apprezzare a pieno il lavoro di tutti gli attori, in particolar modo le interpretazioni di Giulio Brogi e Fiammetta Baralla che hanno impreziosito il film con il loro talento e la loro sensibilità.». Infatti, tra le nuove scene, troviamo quella in cui Jep Gambardella, disilluso scrittore e giornalista interpretato da Toni Servillo, incontra Giulio Brogi, nel ruolo di un anziano regista che immagina di poter girare un ultimo film. E quella con Fiammetta Baralla, nella parte della madre di Ramona (Sabrina Ferilli).

Ricordiamo lo straordinario cast che, accanto a Toni Servillo, fa vivere questo film: Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Anna Della Rosa, Giovanna Vignola, Roberto Herlitzka, Massimo De Francovich, Giusi Merli, Giorgio Pasotti, Massimo Popolizio, Isabella Ferrari, Franco Graziosi, Sonia Gessner, Luca Marinelli, Dario Cantarelli, Ivan Franek, Anita Kravos, Luciano Virgilio, Vernon Dobtcheff, Serena Grandi, Lillo Petrolo. Per l’occasione è stato creato un hashtag: #LaGrandissimaBellezza per seguire la discussione su twitter e facebook.

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“KISS ROCKS VEGAS” – EVENTO UNICO PER GLI AMANTI DEL ROCK

di Elisa Pedini – Da non perdere, data unica il 31 maggio per le sale italiane: i magici, ineguagliabili, mitici KISS conquistano anche il grande schermo, con “KISS ROCKS VEGAS”. Un film che promette e mantiene uno spettacolo psichedelico e coinvolgente. E allora, pronti a gridarlo forte, perché la data è unica e irripetibile. Potete trovare la sala più vicina a voi sul sito: www.nexodigital.it. Immaginate cosa può succedere se il gruppo icona mondiale del rock atterra nella città del peccato: come spesso accade, la realtà supera la fantasia, in un’iperbole di effetti speciali e grandi classici della band più premiata al mondo. Se gli amanti del rock pensano che ci sia poco da sapere sui KISS e sui loro concerti, debbono ricredersi perché, questo di Las Vegas, è davvero uno spettacolo unico al mondo e vado a spiegarvi il perché. Innanzi tutto, introduco brevemente i tratti salienti. I Kiss si formano nel 1973 a New York, per volontà di Gene Simmons, al basso e Paul Stanley, lead vocal e chitarra ritmica, che resteranno sempre i due pilastri della band. Per gli altri due membri, invece, ci saranno diverse sostituzioni nel tempo, dovute a motivi differenti. Il gruppo si caratterizza, fin da subito, con alcune peculiarità: prima fra tutte, il look. Ispirandosi al teatro Kabuki, ogni membro si pittura la faccia di bianco e quindi si dipinge con i tratti che più lo caratterizzano. Si creano dei veri e propri personaggi, con trucco, costume e “personalità” ben definite. Resterà per sempre così. In effetti, a tutt’oggi, i Kiss sono uno dei pochi gruppi dove ogni elemento è riconoscibile immediatamente e proprio per questo, ognuno di loro ha il suo “seguito” anche al di fuori della band. Altra particolarità è la scelta d’una musicalità ben precisa: un rock duro, incisivo e fortemente caratterizzato, seppur i testi parlano, per lo più, d’amore e di sesso. Ultima nota di spicco è costituita dagli effetti speciali, legati non solo ai personaggi come possono essere le lingue di fuoco e il sangue sintetico di Gene-“The Demon”, o le seducenti movenze di Paul-“The Starchild”; ma anche quanto accade tutto intorno a loro sul palco: scenografie colossali, fuochi d’artificio, chitarre che sparano razzi e fumo, giochi di luci, video, piattaforme mobili e molto altro ancora. Ad oggi, la band ha all’attivo più di 100 milioni di dischi venduti, 30 album d’oro e 14 di platino. Nel 2014 sono stati inseriti nella Rock and Roll Hall of Fame. Nel 2015 hanno ricevuto anche l’illustre ASCAP Award. Oltre 40 anni di tour mondiali e l’ultimo, avvenuto sempre nel 2015, con cinque spettacoli in Giappone e un singolo che ha rapidamente raggiunto la prima posizione: “Samurai Son”, composto insieme al gruppo pop Momoiro Clover Z. Ecco, riassunta, molto brevemente, l’identità del gruppo, ora, vi chiedo d’immaginare la spettacolarità classica dei Kiss, che, tengo a precisare, generalmente s’esibiscono in stadi ove fanno registrare il tutto esaurito, trasposta su un palcoscenico, al chiuso. Detta così, sembra proprio un’impresa impossibile. Ma, qui, è col perfezionismo e la determinazione dei Kiss che ci si confronta. “Kiss rocks Vegas” vi mostra proprio il “dietro le quinte” e poi, il concerto stesso che la band ha tenuto nel novembre 2014 all’Hard Rock Hotel & Casino di Las Vegas. Collezionando ben nove repliche. Interviste esclusive a Gene Simmons, Paul Stanley, Tommy Thayer, che è anche il produttore del film, v’illustreranno proprio le difficoltà, le sfide e le soluzioni che la band ha affrontato per allestire uno spettacolo che, non solo fosse rappresentativo dei Kiss in tutto e per tutto, ma che potesse, anche, competere con i concerti che, usualmente, la band fa e che i fans si aspettano. Lo spettacolo ha letteralmente spopolato. Inoltre, il fatto che le interviste precedano il concerto, rende il film ancor più realistico, perché, non solo mette lo spettatore in prima fila a un concerto dei Kiss, pur restando dentro l’ovattata comodità d’un cinema; ma, consente di guardare le scenografie e gli effetti speciali con una profonda consapevolezza delle scelte e delle prove che ci stanno dietro. Aspetto, questo, che fa gustare ancora di più la performance. La sensazione è quella d’aver preso attivamente parte alla creazione dello spettacolo. Sul palco dell’Hard Rock Hotel, insieme a Gene e Paul, ammiriamo e ascoltiamo anche Tommy Thayer-“The Spaceman”, alla chitarra solista ed Eric Singer-“The Catman” alle percussioni. Mi sento di non restringere il target del film ai soli appassionati di hard rock, perché potrebbe rivelarsi una bella esperienza anche per chi non sia esattamente un fan del genere. A mia opinione, “Kiss rocks Vegas” rappresenta, invece, un’opportunità unica, non solo per gli amanti del genere di gustarsi un vero concerto dei Kiss, ma anche per chi fosse soltanto curioso e volesse “sperimentare” l’hard-rock, in versione cinematografica.




“COLONIA” – LA FORZA DELL’AMORE, L’ATROCITÁ D’UN REGIME

di Elisa Pedini – Nelle sale italiane dal 26 maggio, il film “Colonia”, ad opera del regista tedesco Florian Gallenberger, che ne è anche sceneggiatore. Regista versatile che nella sua carriera ha dimostrato di sapersi confrontare con generi diversi e sempre con successo. Vincitore del Premio Oscar per il miglior cortometraggio nel 2001 con “Quiero ser”, è poi passato al lungometraggio. Già col suo precedente film, “John Rabe”, il regista s’è incanalato sul filone delle storie ispirate a eventi realmente accaduti. “Colonia” è un film drammatico, severo, crudele. La tematica trattata è molto pesante, ma vera e la pellicola ne mostra in modo lucido tutta l’atrocità. Forse, un po’ troppo romanzata la sceneggiatura in certi punti, ma rientra, senza forzature, nei canoni della trasposizione degli eventi in linguaggio cinematografico. La trama è complessa e profonda perché, seppur sostenuta da due binari molto chiari: l’amore da un lato, la dittatura dall’altro, di fatto sottende e mostra tutta una serie di riflessioni ad ampio spettro. Vi accennerò i punti salienti, ma è un film che va visto perché sono molti, troppi, i pensieri suscitati, le emozioni evocate, da poter essere trasposti; vanno provati in prima persona. La storia è ambientata a Santiago del Cile nel 1973. Siamo in piena guerra fredda e questa terra ne diviene uno specchio, un terreno di disputa. Il traffico d’armi passa per il territorio cileno e gli interessi, sia politici che economici, sono troppi. Salvador Allende è Presidente del Cile in quel momento. Il primo Capo di Stato marxista, eletto democraticamente dal popolo nell’America del Sud. Gli USA ne contrastano la presidenza, ma il popolo, invece, è in piazza per appoggiarlo. Il clima è teso e le manifestazioni si susseguono. Il mondo tiene gli occhi puntati sul Cile. Si teme una guerra civile. Daniel, giovane foto-reporter tedesco, s’è trasferito a Santiago da quattro mesi per motivi di lavoro. Vuole documentare quanto sta avvenendo in Cile. È attivo nel movimento a sostegno di Allende e quindi costantemente in piazza insieme al comitato socialista. La sua fidanzata, Lena, è una hostess e si fa assegnare sulla tratta per Santiago per fargli visita. In teoria, deve restare solo quattro giorni, fino al volo di rientro. Una mattina, invece, arriva una telefonata a Daniel. È la mattina dell’11 settembre 1973. C’è stato un golpe. Salvador Allende è stato assassinato. Augusto Pinochet ha preso il potere. I sostenitori e i simpatizzanti di Allende e del socialismo vengono arrestati. È iniziata la dittatura. I due ragazzi scappano immediatamente dalla casa, primo posto dove, eventualmente, verrebbero a cercare Daniel. Corrono in strada. Il ragazzo si porta dietro la macchina fotografica e s’attarda a scattare fotografie ai soldati che reprimono la folla. Lena lo chiama, lo sprona a correre. Tardi. I soldati s’accorgono, lo picchiano, gli sequestrano la macchina fotografica e li arrestano. Tutte le persone “rastrellate” vengono riunite allo Estadio Nacional de Chile”. È notte ormai. Arriva un elicottero della Fuerza Aérea de Chile, ne scendono dei militari e un uomo a volto coperto. Quest’ultimo, passa in rassegna la schiera di persone e indica, uno per uno, i sostenitori, i simpatizzanti, i sindacalisti. Daniel, ovviamente, viene segnalato come tedesco attivista. Il ragazzo viene caricato su un pulmino, che sembra un’autoambulanza e portato via. Lena, invece, viene liberata. La ragazza rientra a casa e trova tutto a soqquadro. Si reca alla sede del comitato socialista, ma non ne riceve l’aiuto sperato. Descrive il mezzo con cui è stato portato via Daniel e le spiegano che quello è il pulmino per “Colonia Dignitad”, un posto che si trova nel sud e dal quale nessuno ha mai fatto ritorno. Lena decide di non fare rientro in patria e di cercare Daniel, ad ogni costo. Si reca alla sede di Amnesty International, dove viene a scoprire che “Colonia Dignitad” è una setta, guidata da tale Schäfer e che gode della protezione del regime. Le viene, anche, confermato che nessuno ne è mai uscito. Ma, l’amore, si sa, è il più potente motore del mondo. È l’unica passione che può dare la forza di superare qualunque ostacolo, anche la morte. Lena decide che, se Daniel non può uscire, allora, sarà lei a entrare. Avvisa al lavoro che ci sono problemi grossi in Cile e che lei non può rientrare. Si veste da pudica educanda, prende una piccola borsa di effetti personali e parte. Destinazione: Colonia Dignitad. Quando arriva, è ben chiaro, da subito, che c’è qualcosa di strano: il posto sembra una zona militare con tanto di filo spinato e torrette di controllo. Lena entra. Subito le vengono sequestrati passaporto ed effetti personali, quindi, incontra Schäfer, o, come si fa chiamare lui, “Pius, il buon pastore”. La ragazza non ci mette molto a capire che, in realtà, è un luogo di prigionia dove regnano terrore e atroce violenza. Il luogo è triste, l’oppressione è tangibile, le camerate sono squallide, le persone totalmente spersonalizzate e costrette a lavori estenuanti. Contestualmente, Daniel viene torturato crudelmente e ridotto in fin di vita. Trasportato in infermeria, dove lo credono totalmente privo di coscienza, sente dire che con altissima probabilità non sopravvivrà e quand’anche vivesse, non si riprenderà. I danni cerebrali subiti potrebbero essere irreversibili. In tutto questo, lo spettatore sente il peso dell’oppressione: la vive coi protagonisti e soprattutto vive lo strazio di Lena, dovuto alle violenze ignominiose che vede, a quelle che vive, ma, soprattutto, al suo più grosso, intimo, personale problema: Daniel non sa che lei è lì, né lei è in grado di scoprire dove lui sia e questo perché, a “Colonia Dignitad”, uomini, donne e bambini vivono totalmente separati senza avere contatto alcuno tra loro. Non siamo molto distanti dalle tristi realtà dei lager. Lena è prostrata. Lo sdegno, il dolore e l’impotenza la devastano. Tutto quello che succede attorno a lei è allucinante. Una notte, scopre un modo per farsi vedere da Daniel, è pericoloso, potrebbe costarle la vita, ma lei deve rivederlo, deve sapere, almeno, se è vivo. Il folle piano della ragazza non da l’esito cercato. È, in verità, la parata organizzata per l’arrivo di Pinochet a “Colonia Dignitad” a offrire ai due ragazzi l’opportunità di vedersi. È in questa occasione che veniamo a scoprire che la colonia non serve solo da campo di tortura e prigionia per dissidenti, ma anche da centro di reperimento armi per il regime e di test per le armi chimiche sui prigionieri. Daniel, ritenuto inutile nella colonia per i suoi apparenti problemi neurologici, è la vittima designata per il test del gas asfissiante. Non resta che tentare una fuga disperata, ma, è noto a tutti che, da “Colonia Dignitad”, nessuno ha mai fatto ritorno. Inoltre, vi ricordo, che uomini e donne sono separati e senza possibilità alcuna d’incontrarsi. Da qui non vi dico altro perché se cominciassi a descrivervi tutto quello che succede, tutto quello che passano i due protagonisti, ma anche le stesse persone che vivono nella colonia, finirei per raccontarvi tutto il film. Quello che, invece, voglio sottolineare ancora, è che si tratta di una pellicola che va vissuta, fino in fondo. Il bagaglio emotivo, così forte da essere stordente, con cui sono uscita dalla sala s’è tradotto in un silenzio profondissimo, non trasponibile in parole. “Colonia” è un film che ha centrato in pieno l’obiettivo di Florian Gallenberger: mettere in luce quanto accadeva aColonia Dignitad realmente e le torture di cui era capace il regime di Pinochet per punire quelli che a lui erano contrari. Sublime l’interpretazione dei protagonisti. Un’intensa e superlativa Emma Watson, nel ruolo di Lena, trasmette la sensazione che la parte le sia stata cucita addosso come una seconda pelle. Sarà perché ella stessa è davvero un’attivista impegnata nella vita, ma, veramente, in questa parte, riesce a oltrepassare la soglia dell’“ottima interpretazione”, va decisamente oltre. Emma è Lena. Impeccabile anche Daniel Brühl, nel ruolo di Daniel, che si mostra fortemente intenso e versatile, rendendo con grande naturalezza e realismo ogni azione del protagonista.

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“PELÉ”: COME SI DIVENTA UN MITO

di Elisa Pedini – Arriva nelle sale italiane dal 26 maggio, l’attesissimo film “Pelé” per la regia dei giovani registi Jeffrey e Michael Zimbalist. Il loro successo nel campo documentaristico, dove hanno esplorato sia il Brasile che la cultura brasiliana, ha assicurato al film una prospettiva unica e un tono profondo di veridicità. Hanno curato anche la sceneggiatura, basandosi su mesi d’interviste a Pelé, ai suoi amici più stretti e ai suoi parenti. Una pellicola intensa, potente e carismatica come l’anima del grande campione di cui ci narra la storia: Edson Arantes do Nascimento, “O Rei” (trad: “Il Re”) come lo chiameranno i brasiliani, o Pelé, come lo chiamerà tutto il mondo. Un uomo che, dal nulla e dalla profonda povertà, s’è fatto “leggenda”, grazie a un talento innato, ereditato forse dal papà, ma soprattutto e ci tengo a sottolinearlo, grazie alla determinazione e a un lavoro durissimo. Questo immortale “campione del calcio”, è, prima di tutto, un “campione nella vita”: esempio di sportività pura, di “fair play” all’ennesima potenza, di passione, di determinazione e di sacrificio. Sono le sue doti umane, i suoi «tre cuori», come lui stesso ha più volte affermato, giocando sul nome del paese natìo: Três Corações, unite a quelle agonistiche, che hanno fatto di lui un idolo. Inoltre, prima d’introdurvi al film, mi piace sottolineare alcuni aspetti. Il Brasile è una terra bellissima e gravata da pesantissimi problemi sociali, laddove la maggioranza della popolazione vive in una miseria straziante. Ma, caratteristiche, indomabili e basilari, del popolo brasiliano sono: la voglia di vivere e il senso di profondissime identità e appartenenza, che, questo film, delinea magistralmente. Una pellicola, dunque, che non è solo un omaggio a un mito umano, a un campione che, a tutt’oggi, resta “Il Re” e che ha cambiato per sempre la storia del calcio, ma è anche e soprattutto un atto d’amore verso un popolo: quello brasiliano. Edson Arantes do Nascimento nasce a Três Corações il 23 ottobre del 1940, ma quando ha cinque anni la sua famiglia si trasferisce a Bauru. Suo padre è João Ramos do Nascimento, meglio noto come Dondinho, calciatore professionista di talento, che, però, termina prematuramente la propria carriera a causa di un infortunio al ginocchio e sua madre è Maria Celeste Arantes. Il film inizia che Edson, detto “Dico” da amici e parenti, ha nove anni. Gioca a pallone a piedi nudi per le vie del villaggio coi suoi compagni. La passione del calcio e il talento, per lui, sono ereditari. Il 1950 vede lo svolgersi della quarta edizione del Campionato Mondiale di Calcio, dopo una pausa di ben dodici anni, causata dalla guerra, e il paese ospitante è proprio il Brasile. C’è grande aspettativa. C’è voglia di vittoria. Il padre di Dico segue fremente le partite. Il Brasile, però, subisce una cocente sconfitta, che viene vissuta in modo molto pesante dal popolo. Il piccolo Dico fa, allora, una promessa al suo papà, che suona audace e improbabile come tutti i sogni dei bambini: lui porterà il Brasile alla vittoria del Campionato del Mondo. Il tempo passa fra scuola e piccoli lavori per aiutare l’economia domestica. La mamma di Dico fa le pulizie a casa d’una famiglia benestante e un giorno porta Dico con sé. Il figlio dei proprietari, José, rientra con dei suoi amici. Stanno parlando d’un torneo giovanile di calcio che faranno lì a Bauru. Il piccolo Dico interviene, con tutta l’ingenuità dei bambini e pronuncia male il nome del portiere Bilé, chiamandolo Pilé. Ovviamente, s’attira la derisione e lo scherno della comitiva, che gli affibbia il nomignolo di Pelé, da cui l’odio di Dico verso quel soprannome, che, però, lo accompagnerà, per sempre, verso la gloria. Decide d’iscriversi al match con i suoi compagni. Perdono per un soffio, ma un talent scout nota le sorprendenti capacità di Dico e soprattutto il suo modo di giocare: la Ginga, orgoglio e spirito del popolo brasiliano. Personalmente ignoravo la storia del gioco spettacolare di Pelé e quindi, lascio il gusto di scoprirla anche a voi. Pelé andrà a giocare al Santos FC, prima nelle giovanili, poi nelle riserve, fino ad approdare in prima squadra. Fra competizione, dissidi con l’allenatore e duri allenamenti, arriva la convocazione per il Campionato Mondiale di Calcio. Pelé ha solo sedici anni. La competizione per essere scelti ed entrare in squadra è molto alta, oltre alla spiacevole evenienza di reincontrarsi con un altro fenomeno del calcio, ma sicuramente non suo amico: José. Quando scende in campo con la maglia della nazionale brasiliana, Pelé, ha 17 anni, è il 1958 e il Mondiale si gioca in Svezia. Il Brasile è dato totalmente perdente da tutti. Invece, giocando con questo stile unico e straordinario, che farà affermare in tutto il mondo il calcio come “il gioco più bello del mondo”, il Brasile, guidato da Pelé, vince il suo primo mondiale, diventando la prima nazione ad aver mai vinto un Campionato Mondiale fuori dal proprio paese. Il suo goal, realizzato nella finale con la Svezia, è considerato il terzo più grande goal nella storia della Coppa del mondo FIFA e il primo, tra quelli realizzati in una finale di un mondiale.
“Pelé” è un film davvero avvincente e poetico ad un tempo, anche per l’esecuzione molto realistica. A tale proposito trovo interessante accennarvi come siano giunti a scegliere gli attori protagonisti. Per il ruolo di Pelé è stato necessario avere due attori: uno che impersonasse il giocatore all’età di 9 anni e l’atro all’età di 16-17. Questo significava che, non solo dovevano avere caratteristiche fisiche simili al campione, ma anche, un talento naturale nel calcio e nella recitazione, oltre, a dover conoscere l’inglese. Si può comprendere come la selezione sia stata decisamente difficile e sfidante, tanto che ha comportato l’organizzazione del più ampio casting della storia del cinema contemporaneo. Sono state visionate persone d’ogni estrazione sociale e professione, attori professionisti, neofiti, giocatori esperti, studenti. Il primo a essere stato inserito nel cast è stato un bambino brasiliano che avrebbe interpretato Pelé all’età di nove anni: Leonardo Lima Carvalho, scelto per la sua grande spontaneità davanti alla cinepresa e il suo carisma. La ricerca del “Pelé sedicenne” è stata ben più disperata. Non riuscivano a trovare nessuno che soddisfacesse tutti i parametri necessari. Hanno iniziato a cercare per strada e anche sulle spiagge di Rio. Fino a trovare, finalmente, un candidato: Kevin de Paula, il quale s’è mostrato strepitoso, nonostante non avesse alcuna esperienza nella recitazione. Al fine di mantenere intatte l’integrità e l’autenticità della storia, i registi hanno deciso che il film sarebbe stato girato interamente in Brasile.

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“DA MONET A MATISSE. L’ARTE DI DIPINGERE IL GIARDINO MODERNO”: IL MONDO INCANTATO DELLA NATURA E DELL’ARTE

di Elisa PediniEsce nelle sale italiane solo per due date: il 24 e il 25 maggio, il film-documentarioDa Monet a Matisse. L’arte di dipingere il giardino moderno”, della Royal Academy of Arts, che, partendo dalla sua imponente e magnifica mostra, ci porta dentro un tour cinematografico per raccontare la passione che lega alcuni dei più grandi artisti moderni, come Monet, Matisse, Bonnard, Renoir, Kandinskij, Pissarro, Sorolla, Nolde, Libermann, ai loro giardini prediletti. Per trovare la sala più vicina a voi che avrà questo film in programmazione consultate il sito: www.nexodigital.it. Pellicola delicata, che fa sognare e rilassare, passeggiando nell’arte e in alcuni dei giardini più belli del mondo. Non è un documentario sulla storia dell’arte, per nulla, è il racconto d’una storia d’amore: quella tra gli artisti e la natura che li ha ispirati. Il film rientra nel progetto della “Grande Arte al Cinema” di Nexo Digital ed è un’occasione, unica e irripetibile, per visitare la coinvolgente mostra, allestita dall’Accademia londinese, per raccontare l’evoluzione del tema del giardino nell’arte moderna: dalle bellissime e colorate visioni degli Impressionisti fino alle sperimentazioni più audaci, oniriche e simboliche dei movimenti d’avanguardia. Il film si apre trasportando lo spettatore dentro una natura meravigliosa e colorata. Una musica rilassante accompagna questo spettacolo di luce e colore. Si entra in una dimensione parallela, soave e incantevole: quella della natura e dell’arte. Come l’uomo abbia sempre e costantemente tratto ispirazione dalla natura è assai noto e non è difficile comprenderne il perché. Impossibile sottrarsi alla bellezza d’un fiore, ai suoi colori, al suo profumo, a quella tecnica perfetta rappresentata dalla sua stessa conformazione. Distese di fiori di altezze diverse, colori diversi. L’incanto che una persona normale subisce dall’osservare certi capolavori della natura, viene portato all’ennesima potenza dallo sguardo e dalla sensibilità dell’artista. Monet, forse il più noto ed importante pittore di giardini nella storia dell’arte, è il punto di partenza della mostra e quindi del nostro film. Personalità affascinante, nonché appassionato ed esperto orticoltore. «Se sono diventato pittore lo devo ai fiori» diceva Claude Monet. Pensate che, per cogliere le diverse inclinazioni di luce e tutte le sfumature di colore, si svegliava all’alba e dipingeva. Dipingeva sotto il sole cocente e sotto la pioggia battente. Intorno alla sua casa rosa a Giverny aveva creato un giardino con uno stagno e un ponte giapponese, che ancor oggi accoglie migliaia di visitatori con le sue tinte e i suoi avvolgenti profumi. Dalle passeggiate sulle colline intorno alla proprietà, Monet tornava con semi di fiori selvatici per coltivarli nelle sue aiuole. È così che lo spettatore viene preso per mano e visita i più bei giardini del mondo, raffigurati, poi, all’interno di opere d’arte: oltre alle ninfee di Monet a Giverny, visita il giardino di Bonnard a Vernonnet, in Normandia, o quello di Kandinskij a Murnau, in Alta Baviera, luogo dincontro di musicisti e artisti provenienti da tutto il mondo. Ma non è tutto: questo film è anche ricco d’interventi di studiosi e artisti che spiegano, anche da un punto di vista storico e sociale, l’importanza dei giardini e per conseguenza il perché di questo tanto ricercato ritorno alla natura, che caratterizzò il periodo tra la l’Ottocento e il Novecento. Quello che la natura, attraverso i giardini, inizialmente va a dimostrare è la magnificenza dei nobili, poi diviene specchio d’intimità familiare ed ecco che, allora, vi si colgono scene più private, fino a divenire una vera e propria oasi di pace, una fuga personalissima e protetta dal rumore e dal caos. Una pellicola davvero unica per tantissime ragioni. Prima fra tutte, perché rappresenta un’occasione imperdibile di vedere una mostra che, altrimenti, bisognerebbe andare a Londra per poter visitare. Inoltre, perché consente di vedere giardini incantevoli, veri e propri gioielli d’architettura, in giro per tutto il mondo. In più, perché si parla di arte in modo molto intrigante e interessante: infatti, come ho detto all’inizio, si tratta di un “tour”, sia dentro la storia, l’arte e le opere, sia “dietro le quinte” dei magnifici paesaggi, di cui lo spettatore gode sullo schermo. Arricchito, dagli interventi e dalle intuizioni di esperti internazionali di giardinaggio e critici d’arte per svelare il rapporto tra l’arte e i giardini. Impreziosito, dalle interviste ad artisti moderni, come Lachlan Goudie e Tania Kovats, che rivelano come il rapporto tra l’artista e il mondo naturale sia tema di grande attualità. Infine e soprattutto, perché è uno degli aspetti che, davvero, mi ha colpito di più, per come mi sono sentita alla fine del film: incredibilmente bene. Rinnovata d’energia. Mi sento d’affermare che questo film andrebbe visto proprio per fare un regalo a se stessi: ovvero, donarsi la gioia di lasciare il mondo fuori e passare un’ora e mezza nella serenità e nella pace che soltanto la natura e l’arte sono in grado di dare.

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“Tutti vogliono qualcosa”: una commedia che parla anche di noi

di Elisa PediniDal 12 maggio sarà nelle sale italiane “Tutti vogliono qualcosa” del regista Richard Linklater. Appuntamento assolutamente da non perdere perché si tratta di una commedia spassosa che vi farà passare 116 minuti in allegria. La storia si basa sull’esperienza personale del regista del suo ingresso al college e per questa ragione la pellicola si discosta totalmente da quelle cui il cinema americano ci ha abituato su tale tematica e sulle abitudini degli studenti statunitensi.

Tutta la storia di “Tutti vogliono qualcosa”  si gioca nei tre giorni antecedenti l’inizio delle lezioni e ci mostra la vita di ragazzi normalissimi intenti a cominciare la loro nuova vita “da adulti”. Niente scene esacerbate o iperrealismi improbabili: qua, la comicità, è data proprio dalla vita quotidiana, quindi, dalle esperienze/inesperienze dei ragazzi, dalle diverse personalità, dalle scempiaggini che normalmente si fanno a quell’età. Questo taglio rende, forse, il ritmo un po’ lento in certi punti; ma, è proprio questo realismo di “vita quotidiana” che rende la pellicola originale. La trama di “Tutti vogliono qualcosa” , dunque, è, di suo, abbastanza semplice e lineare, mentre è il sottinteso che da profondità a quanto si sta guardando. Siamo nel 1981 e il protagonista, Jake Bradford, si trasferisce al college. È il classico bravo ragazzo: timido, faccino d’angelo e buone maniere. Arriva pieno d’entusiasmo nell’abitazione della squadra di baseball universitaria di cui entrerà a far parte. Si ritrova in una palazzina fatiscente con un manipolo di spostati. Insomma, l’approccio non è certo dei migliori e Jake è, evidentemente, spiazzato. Tuttavia, è proprio lì, già dai primi momenti del suo arrivo, che il protagonista comincia a crescere. Passo dopo passo, impara a conoscere le diverse personalità dei compagni e ad approcciarvisi. Tra cameratismi, attriti, competizione fortissima, che s’estrinseca in tutto: dalle garette più futili al campo da baseball, feste, notti folli, e “caccia” alle ragazze, Jake inizia il suo percorso verso “l’età adulta”.

Il concetto di base che viene fuori in “Tutti vogliono qualcosa” è proprio l’ostacolo che, nel nostro cammino, abbiamo incontrato tutti: al liceo si è dei grandi, i migliori, poi, s’arriva all’università e il mondo reale spalanca le sue porte e ci apre gli occhi sulla dura verità che, come noi, ce ne sono altri mille e altrettanti sono anche migliori di noi. Tutti i parametri, che valevano fino al giorno prima, vengono sovvertiti. Se si vuole restare i migliori, allora, bisogna eccellere, bisogna competere, bisogna distinguersi fra migliaia di altri, che, per nessuna ragione al mondo, sono disposti a cedere il passo. Un’età che sta a metà strada tra l’adolescenza, coi suoi sogni, le sue grandi aspettative, i suoi desideri e l’età adulta, che, invece, chiama al banco di prova e obbliga alla scelta e all’affermazione della propria volumetria. Jake, rappresenta tutto questo. Impara a difendere i suoi sogni e a lottare per loro. Impara a scegliere occasioni e persone, anche nell’amore.

“Tutti vogliono qualcosa” è un film molto dialogato, cosa che consente l’estrinsecarsi sia delle diverse psicologie, che delle differenti personalità. Esattamente come nella vita di tutti i giorni, è proprio dall’incontro e talvolta dallo scontro d’individualità molteplici, che scaturiscono gli avvenimenti comici, quando non esilaranti, o filosofici, o esistenziali. La forza di questa pellicola è proprio il nascere dalla vita reale, che consente allo spettatore di tornare indietro ai suoi vent’anni e al proprio vissuto, finendo per ridere non solo di ciò che accade davanti ai suoi occhi, ma anche dei propri ricordi, che, via via, riaffiorano. Sicuramente un film da ridere, da gustare, ma anche su cui riflettere.

Un giovane e già affermato cast ne completa la riuscita, essendo tutta la pellicola, basata, proprio, sull’esecuzione degli interpreti e sulla loro capacità d’incarnare e far emergere le diverse personalità: il protagonista, Jake Bradford, è reso con grande realismo dal giovane e talentuoso Blake Jenner, diventato famoso con la musical comedy “Glee”, affiancato da: Tyler Hoechlin, già apprezzato nel film “Era mio padre” del 2002 al fianco di Tom Hanks, che gli ha dato la gloria sul grande schermo; Wyatt Russell, figlio d’arte di Kurt Russell e Goldie Hawn, ha iniziato a recitare sin da piccolo e conta numerosi film di successo e la deliziosa Zoey Deutch, nota al pubblico per “Vampire Academy” del 2014. La sceneggiatura è curata dallo stesso regista, ovviamente, essendo autobiografica la materia di partenza. La fotografia è, invece, affidata alle sapienti mani di Shane F. Kelly, che, lo ricordo, aveva già curato quella di “Boyhood”, sempre per la regia di Linklater, film che, ai Golden Globes 2015, fece letteralmente incetta di premi.

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