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Anna Galiena porta in scena Diamoci del tu

Diamoci del tu debutta al Teatro Carcano di Milano il 3 novembre e rimarrà in scena per dieci gironi. Diamoci del tu è una commedia del 2012  di Norm Foster.  A dare corpo e anima ai due protagonisti di diamoci del tu sono Anna Galiena e Enzo Decaro guidati da Emanuela Giordano.

La scena di Diamoci del tu si apre con  un uomo e una donna che convivono da anni sotto lo stesso tetto senza dividere affetti e intimità. La vicenda si svolge nella casa di lui: elegante, fredda, formale, una casa di prestigio ma senza anima. Non si parla infatti di una coppia, ma di una domestica e del suo datore di lavoro. Lui, un romanziere famoso, fa quasi fatica a ricordare il nome della donna, preso com’è da se stesso. A sorpresa, all’improvviso pare interessarsi alla vita di lei, come se volesse recuperare il tempo perduto o avesse semplicemente tempo da perdere. Lei interloquisce in modo spiazzante, utilizzando un linguaggio ironico, colto e beffardo. Dopo decenni di “buongiorno” e “buonasera”, di incombenze e comandi quotidiani, tra i due si scatena un serratissimo dialogo e quello che non si dicono diventa altrettanto interessante …

Diamoci del tu – DOVE, COME E A QUANTO

Teatro Carcano di Milano da giovedì 3 a domenica 13 novembre 2016.
Biglietti da 25 euro




Antonello Fassari è in scena con L’HOTEL DEL LIBERO SCAMBIO

Antonello Fassari e Nicola Rignanese debuttano al Teatro Carcano di Milano con L’HOTEL DEL LIBERO SCAMBIO,  di Georges Feydeau per la regia di Roberto Valerio. L’adattamento dell’opera è firmato da Roberto Valerio e Umberto Orsini. L’HOTEL DEL LIBERO SCAMBIO è in scena nel teatro milenese dal 19 al 30 ottobre.

L’HOTEL DEL LIBERO SCAMBIO è una commedia amara che racconta di una società “malata” e attratta dall’erotismo, una società ipocrita che condanna in pubblico le stesse cose che si concede in privato. Le scene a cambio rapido e continuo ideate da Pietro Babina assecondano il ritmo dell’azione. Come d’uso negli allestimenti di Feydeau, l’elemento scenografico base è la porta, qui risolta con l’utilizzo di elementi modulari e componibili che permettono, grazie ad una serie di configurazioni multiple, di costruire, smontare e ricostruire a sipario aperto lo spazio scenico.

“In questi anni – spiega Roberto Valerio – un autore come Feydeau viene rappresentato spessissimo in Germania come archetipo di un teatro che pone il suo sguardo sull’imbarbarimento della media borghesia dell’Ottocento che ha portato a disastri sociali immensi. Questa ottica così moderna è la molla che ci ha spinti verso questo testo per svelare, attraverso la superficie dei meccanismi automatici di una comicità collaudata, lo scheletro di una struttura malata nel profondo. Una lunga amara risata che deve risuonare nell’animo dello spettatore come un allarme al degrado politico e sociale a cui stiamo assistendo anche nella nostra società”. Feydeau, conclude Valerio, racconta i vizi dei suoi contemporanei del 1894, che sono anche i nostri vizi. Anzi, a distanza di un secolo quei vizi si sono ingigantiti.  Clamorosamente.

L’HOTEL DEL LIBERO SCAMBIO – DOVE, COME E A QUANTO

Teatro Carcano di Milano 19-30 ottobre -da martedì a giovedì e sabato ore 20,30 – venerdì ore 19,30 – domenica ore 16,00

Biglietti a partire da  25 euro




“3 GENERATIONS”: UN’OTTIMA OCCASIONE PERDUTA

di Elisa Pedini – Arriva al cinema dal 24 novembre “3 GENERATIONS – UNA FAMIGLIA QUASI PERFETTA”, per la regia di Gaby Dellal. Una commedia tenera, delicata, ironica, piena di sentimento e buoni propositi, con una Susan Sarandon semplicemente divina e che da sola regge e vale tutto il film. Incantevole anche l’interpretazione di Elle Fanning e molto intensa quella di Naomi Watts. Nonostante questo, la commedia risulta incoerente e scricchiola. Peccato davvero.

Alcuni l’hanno apprezzata in sala; ma, a me, ha lasciato perplessa e non ha convinto. Troppe le contraddizioni per fare di “3 GENERATIONS” una pellicola solida. Sono andata a vedere questo film, piena di grandi aspettative, date dalla tematica trattata, decisamente coraggiosa e nuova, perché non si parla spesso dei transgender; ne sono uscita, infastidita. Una commedia dai toni troppo soffusi per far ridere, se non sporadicamente. Tuttavia, non la si può neppure definire “cinema impegnato”, nonostante la tematica, perché manca totalmente d’introspezione psicologica e del singolo e del sociale.

Ma, andiamo ad analizzare “3 GENERATIONS” per spiegare la mia posizione. Questa la trama: Ray, è un ragazzo bello, coraggioso, forte, deciso e vive con la sua mamma single, Maggie, a casa della nonna, Dolly, detta Dodo: donna eclettica, liberale, colta, raffinata e lesbica, che condivide amorevolmente la sua vita con la compagna di lunga data, Frances, detta Honey. Tuttavia, Ray, è nato Ramona e vuole intraprendere la terapia ormonale per essere, finalmente, se stesso: un ragazzo a tutti gli effetti. Per lui, è uno stop-and-go. Vuole cambiare scuola e accoglie con gran gioia l’evenienza di cambiare casa. Una nuova nascita, praticamente. Messaggio bellissimo. Si frappongono, fra lui e il suo desiderio, due cose: le remore della nonna e il fatto che la terapia richieda l’autorizzazione di entrambi i genitori, cosa che obbliga Maggie a dover fare i conti col suo passato.

Va premesso che la regista di “3 GENERATIONS” specifica: «Quando il film inizia, è già stata presa una decisione; si è già verificato un processo», pertanto, non ci si aspetta una particolare introspezione psicologica dei personaggi, perché, si presuppone, che tutti i traumi, le crisi, gli eventi drammatici, sia privati che sociali, siano stati già affrontati e superati. Difatti, all’inizio del film, vediamo Ray andare da un medico, con sua mamma e sua nonna, per parlare della cura ormonale che deve intraprendere. Ora, si presuppone, che se ne sia già parlato in casa.

Tuttavia, ecco, la prima contraddizione: Dolly non comprende. Susan Sarandon sente l’esigenza di giustificare il suo personaggio dicendo e cito: «Essere gay non significa approvare il cambiamento di sesso. Essere gay ha a che fare con l’orientamento sessuale, mentre essere transgender riguarda l’identità». È giusto e mi sta bene; ma, nel film, non trapela in modo così netto dai dialoghi post-incontro col medico. Inoltre, s’insiste molto sulla giovane età di Ray.

Da tutto ciò, mi domando: ma non era già stato tutto deciso? Se il film mette lo spettatore dentro una storia in cui «è già stata presa una decisione», allora, la posizione di Dolly, i dubbi sulla giovane età di Ray, le crisi di Maggie, sono fuori luogo. Se, invece, c’è ancora qualcosa da discutere, allora, non siamo dentro «una decisione già presa»; ma di fronte a una “decisione da prendere” e dunque, cadiamo nella mancanza d’introspezione psicologica. Cadiamo, altresì, nella superficialità d’una società che, senza colpo ferire, accetta Ray. Peccato che, la realtà sia ben altra. Certo, c’è una scena, di pochi secondi, in cui un ragazzotto infastidisce Ray, che reagisce proprio come un ragazzo, ovvero, attaccandolo al muro e cavandone un occhio nero. Peccato che, il ragazzotto in questione, sia il classico “bulletto”, che ha bisogno d’importunare la quiete altrui per trovare una misera giustificazione al suo inutile esistere e non rappresenta certo “la società”.

Volendo, comunque, passar sopra a quanto finora detto, invece, non posso ammettere la “gender inequality, potentemente professata. A mio avviso, questa, è l’unica vera rovina della nostra società, malata di preconcetti e luoghi comuni. Ad un certo punto, Ray parla di sé, affermando che s’è sempre sentito un ragazzo, che lo ha capito da quando aveva quattro anni, perché i suoi interessi non erano “da femmina, perché sognava di fare l’astronauta, o il cowboy e tante altre prese di posizione di questo tipo. Mi sembra ovvio: se avesse giocato a fare la mammina fasulla d’una qualche sorta di bambolotto, o la casalinga precoce col kit delle pulizie, o se avesse aspirato a fare la “moglie”, la “principessa”, o peggio, la soubrettina, sarebbe, naturalmente, cresciuto come la “femmina perfetta”. Tralascio ogni riferimento alla cronaca, ogni tipo d’esempio altisonante e qualunque invettiva, limitandomi a riflettere su di me. Da bimba, giocavo con le macchinine, i robot, a calcio e a “cowboys contro indiani”. A sedici anni, ero talmente allenata, che avevo le spalle d’un lottatore e ho fatto studi scientifici, eppure, sono femmina, fiera e convinta e pure etero. Io penso che, ognuno, è ciò che è, dentro di sé, a prescindere da ciò con cui gioca, da come si pettina, da come si veste, dallo sport che pratica, dagli studi che fa e dalla professione che sogna o sceglie. Nonostante il film sia basato su testimonianze dirette e sulla stretta cooperazione con transgender, purtroppo, non si riescono, neppure in questo contesto, a scardinare le ancestrali differenze sociali, basate sui “gender roles”. Concludo con altre due riflessioni. Dolly, si fa remore sul cambio di sesso di Ray, ma, non contesta e anzi sostiene, la condotta d’una figlia fragile, nevrotica, di facilissimi costumi e d’un’immoralità, che sta seconda solo alla Brooke di “Beautiful” e il paragone la dice già lunga. Ecco, personalmente, avrei accordato il massimo della fiducia a mio nipote, che, coi suoi sedici anni, dimostra idee chiare, profondità d’animo, coerenza morale e grandissimo coraggio, mentre, avrei pesantemente condannato mia figlia. Un’ultima cosa che mi ha infastidita, è il giudizio, mai esplicito, ma sottinteso, verso il padre di Ray.

Quest’uomo ha avuto la vita devastata da Maggie. Dopo dieci anni, se la vede ripiombare davanti, con la pretesa che firmi subito i documenti per la terapia del figlio. Personalmente, le avrei sbattuto la porta in faccia. Lui, invece, l’accoglie, nonostante abbia una nuova, fantastica famiglia, l’ascolta, nonostante lei sia psicopatica e giustamente, a mio avviso, chiede di capirci di più. A me, è sembrato un comportamento fin troppo responsabile.

In conclusione, l’impressione che ho avuto, di “3 GENERATIONS”  è quella d’un film senza coraggio: nel tentativo di restare politically correct e non turbare nessuno, finisce per restare superficiale, se non, addirittura, esporre il fianco ai detrattori della causa, che vuole, invece, difendere.

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Arlecchino torna a Milano

Arlecchino servitore di due padroni apre il 25  ottobre  la Stagione  del Teatro San Babila dove rimarrà in scena fino al 30 ottobre. Firma lo spettacolo Carlo Boso che ha trasposto la celebre commedia di Carlo Goldoni nella Milano del secondo dopoguerra. In scena la compagnia Cantina Rablé. Nella parte di Arlecchino, Davi Anzalone.

La scena di Arlecchino servitore di due padroni si apre nella Milano del 1947, dove le ferite della guerra sono ancora vive e l’Italia è tutta da ricostruire. La girandola di personaggi e di trame della commedia vedono al centro Arlecchino, un reduce della campagna di Russia, che per svincolarsi da situazioni critiche, non fa altro che creare guai su guai. Arlecchino soffre la fame, mente, corteggia, ama, serve contemporaneamente due padroni, pasticcia la trama e la risolve, in un carosello fatto di lazzi, trovate di spirito e colpi di scena.  ).

 “Per questa nuova edizione dell’Arlecchino servitore di due padroni ho tenuto conto di tre fattori: il primo rispettare la forma drammaturgica utilizzata da Carlo Goldoni, il secondo riattualizzare l’opera inscrivendo l’azione drammatica in un’epoca più contemporanea, terzo far sì che il ruolo del protagonista Arlecchino sia sostenuto da David Anzalone, un attore caratterizzato da particolari capacità motorie” spiega Boso che, per quanto riguarda la scelta di  far agire i personaggi in una Milano somigliante più a una Chicago degli anni ’30 che non all’attuale capoluogo lombardo, commenta: “è stata dettata dalla necessità di creare un particolare contesto per far agire quei personaggi rappresentanti del mondo dell’imprenditoria, della finanza e degli interessi pubblici e privati che caratterizzarono la fase della ricostruzione economica e morale del Bel Paese”. Solo una volta saziata la fame il “nostro “Arlecchino potrà finalmente pensare all’amore e partecipare anche alla ricostruzione del Paese.

DOVE, COME E A QUANTO

Teatro San Babila di Milano 25-30 ottobre
martedì, giovedì, venerdì e sabato ore 20.30. mercoledì – domenica ore 15.30
Biglietti da 15 euro




Le donne gelose in scena Teatro Studio Melato

Le donne gelose di Carlo Goldoni, con la regia di Giorgio Sangati, sono in scena al Teatro Studio Melato di Milano dal 13 al 29 ottobre. Le donne gelose, una produzione del Piccolo, si riaffacciano alla scena milanese dopo  essere stato ospite, agli inizi di ottobre, unica rappresentanza del teatro italiano, all’International Theatre Festival “Alexandrinskydi San Pietroburgo.
Prima commedia scritta da Goldoni interamente in veneziano, racconta la vita in un quartiere della Serenissima dove, negli ultimi giorni di Carnevale, un microcosmo decadente di bottegai e mercanti si rovina al tavolo da gioco, nelle penombre del Ridotto. In una Venezia scura, silenziosa, sullo sfondo di uno strano Carnevale, Goldoni, nel Le donne gelose, racconta la storia di due famiglie alle prese con la dipendenza dal gioco e di una vedova, che di quei giochi regge le fila. In un turbine di equivoci, gelosie, momenti di comicità alternati a pagine drammatiche, Goldoni dipinge il quadro di una borghesia corrotta e impoverita, in una Serenissima al tramonto.

“È un mondo chiuso – spiega Sangati – claustrofobico, senza contatti con l’esterno. I rapporti umani sono miseri, ipocriti; le relazioni corrose, ammuffite, perennemente condizionate da motivi economici; l’intimità è squallida, segnata da insulti e botte. Imperano il culto del denaro e una fiducia ossessiva nell’azzardo: solo la sorte infatti può alleviare l’angoscia di (ri)cadere nella miseria, ma si tratta di un sollievo temporaneo per un mondo dal destino ormai segnato. Nessuno lavora, ma le energie si sprecano, tutti si affannano, si inseguono, si consumano, senza trovare una via d’uscita, come in un labirinto in cui si gira a vuoto e si ritorna sempre al punto di partenza”.

Goldoni, ne le donne gelose, alterna in un montaggio compulsivo interni ed esterni, alto e basso, privato e pubblico: si avverte nel testo una sconnessione, un disordine, l’entropia di una cultura che ha perso definitivamente la sua centralità. Al campiello come luogo di incontro, di scontro, ma anche di festa, si sostituisce il mestissimo Ridotto dove ognuno, protetto dall’anonimato della maschera, può spiare gli altri sperando di non essere riconosciuto. In questa Venezia anomala, a tratti surreale, sulle note del ‘tema della follia’, gli intrighi della vedova Lugrezia scompaginano e ricompongono le esistenze di due nuclei familiari, in un vortice di equivoci grottesco, dove la risata ha il colore nero della farsa.

DOVE, COME E A QUANTO

 

Piccolo Teatro Studio Melato (via Rivoli 6 – M2 Lanza), dal 13 al 29 ottobre 2016- martedì, giovedì e sabato, 19.30; mercoledì e venerdì 20.30; domenica 16.
Biglietti da 26 euro

 

 




Il Sarto per Signora è Emilio Solfrizzi

Sarto per Signora inaugura la stagione del Teatro Manzoni di Milano. La commedia di Georges Feydeau , un capolavoro di leggerezza ma allo stesso tempo costruita su un meccanismo preciso, va in scena dal 13 al 30 ottobre con la regia di Valerio Binasco. Sul palco Emilio Solfrizzi.
Il Sarto per Signora è costruito attorno alla figura del dottor Molineaux, un libertino fresco di matrimonio, ma dai dubbi comportamenti coniugali. Scambi d’identità, sotterfugi, equivoci, amori segreti sono gli elementi di base del divertente vaudeville di Feydeau che nel sarto per Signora ritrae un’umanità assurda, stramba che si ficca in situazioni impossibili e ne esce all’ultimo secondo con un balzo ancora più assurdo.

Il dottor Molineaux, protagonista de Il sarto per Signora tradisce la moglie con un’avvenente signora e, per poter incontrare la sua amante senza destare alcun sospetto, si finge sarto, creando così una serie di gag che coinvolgono tutti i protagonisti della piéce. Una comicità amplificata dal virtuosismo tecnico dell’autore capace di assommare colpi di scena comici ed equivoci con la precisione di un chirurgo. I personaggi dell’ opera sono quelli tipici della commedia degli equivoci. E in effetti, in Sarto per signora le incomprensioni, casuali e volute, non mancano di certo. Feydeau preparava i suoi testi secondo schemi geometrici in cui le uscite e le entrate, gli incontri impossibili, le false scoperte, i rimandi e le coincidenze, disegnavano figure impeccabili che tuttavia sottendono una società borghese fondata solo sull’apparenza. La follia catastrofica senza senso rivela alla fine sulla scena un crollo totale dei valori. L’attualità di questo commediografo francese, sta nel fatto che il pubblico di oggi, rivedendo i suoi vaudevilles, non li considera affatto come figli di un’epoca determinata, passata e superata, ma coglie in essi una relazione con il presente e con la società attuale.  In Sarto per signora c’è già tutto l’estrodi Feydeau: la trama è basata sul classico triangolo adulterino: lui, lei, l’altro o l’altra, ma soprattutto, quello che non manca mai, è la concentrazione di tutti i personaggi in un solo luogo, dove si incontrano tutti quelli che non si sarebbero mai dovuti incontrare: mariti, mogli, amanti, amanti dei mariti, amanti delle mogli. La sua produzione di opere, tutte da ridere, è uno specchio deformato del suo tempo: la Bella Epoque, di quel periodo privo di preoccupazioni e che sfociò, poi, nella Grande Guerra.

DOVE, COME E A QUANTO

Teatro Manzoni di Milano 13-30 ottobre
Feriali ore 20,45 – Domenica ore 15,30
Biglietti da 23 euro




“Tutti vogliono qualcosa”: una commedia che parla anche di noi

di Elisa PediniDal 12 maggio sarà nelle sale italiane “Tutti vogliono qualcosa” del regista Richard Linklater. Appuntamento assolutamente da non perdere perché si tratta di una commedia spassosa che vi farà passare 116 minuti in allegria. La storia si basa sull’esperienza personale del regista del suo ingresso al college e per questa ragione la pellicola si discosta totalmente da quelle cui il cinema americano ci ha abituato su tale tematica e sulle abitudini degli studenti statunitensi.

Tutta la storia di “Tutti vogliono qualcosa”  si gioca nei tre giorni antecedenti l’inizio delle lezioni e ci mostra la vita di ragazzi normalissimi intenti a cominciare la loro nuova vita “da adulti”. Niente scene esacerbate o iperrealismi improbabili: qua, la comicità, è data proprio dalla vita quotidiana, quindi, dalle esperienze/inesperienze dei ragazzi, dalle diverse personalità, dalle scempiaggini che normalmente si fanno a quell’età. Questo taglio rende, forse, il ritmo un po’ lento in certi punti; ma, è proprio questo realismo di “vita quotidiana” che rende la pellicola originale. La trama di “Tutti vogliono qualcosa” , dunque, è, di suo, abbastanza semplice e lineare, mentre è il sottinteso che da profondità a quanto si sta guardando. Siamo nel 1981 e il protagonista, Jake Bradford, si trasferisce al college. È il classico bravo ragazzo: timido, faccino d’angelo e buone maniere. Arriva pieno d’entusiasmo nell’abitazione della squadra di baseball universitaria di cui entrerà a far parte. Si ritrova in una palazzina fatiscente con un manipolo di spostati. Insomma, l’approccio non è certo dei migliori e Jake è, evidentemente, spiazzato. Tuttavia, è proprio lì, già dai primi momenti del suo arrivo, che il protagonista comincia a crescere. Passo dopo passo, impara a conoscere le diverse personalità dei compagni e ad approcciarvisi. Tra cameratismi, attriti, competizione fortissima, che s’estrinseca in tutto: dalle garette più futili al campo da baseball, feste, notti folli, e “caccia” alle ragazze, Jake inizia il suo percorso verso “l’età adulta”.

Il concetto di base che viene fuori in “Tutti vogliono qualcosa” è proprio l’ostacolo che, nel nostro cammino, abbiamo incontrato tutti: al liceo si è dei grandi, i migliori, poi, s’arriva all’università e il mondo reale spalanca le sue porte e ci apre gli occhi sulla dura verità che, come noi, ce ne sono altri mille e altrettanti sono anche migliori di noi. Tutti i parametri, che valevano fino al giorno prima, vengono sovvertiti. Se si vuole restare i migliori, allora, bisogna eccellere, bisogna competere, bisogna distinguersi fra migliaia di altri, che, per nessuna ragione al mondo, sono disposti a cedere il passo. Un’età che sta a metà strada tra l’adolescenza, coi suoi sogni, le sue grandi aspettative, i suoi desideri e l’età adulta, che, invece, chiama al banco di prova e obbliga alla scelta e all’affermazione della propria volumetria. Jake, rappresenta tutto questo. Impara a difendere i suoi sogni e a lottare per loro. Impara a scegliere occasioni e persone, anche nell’amore.

“Tutti vogliono qualcosa” è un film molto dialogato, cosa che consente l’estrinsecarsi sia delle diverse psicologie, che delle differenti personalità. Esattamente come nella vita di tutti i giorni, è proprio dall’incontro e talvolta dallo scontro d’individualità molteplici, che scaturiscono gli avvenimenti comici, quando non esilaranti, o filosofici, o esistenziali. La forza di questa pellicola è proprio il nascere dalla vita reale, che consente allo spettatore di tornare indietro ai suoi vent’anni e al proprio vissuto, finendo per ridere non solo di ciò che accade davanti ai suoi occhi, ma anche dei propri ricordi, che, via via, riaffiorano. Sicuramente un film da ridere, da gustare, ma anche su cui riflettere.

Un giovane e già affermato cast ne completa la riuscita, essendo tutta la pellicola, basata, proprio, sull’esecuzione degli interpreti e sulla loro capacità d’incarnare e far emergere le diverse personalità: il protagonista, Jake Bradford, è reso con grande realismo dal giovane e talentuoso Blake Jenner, diventato famoso con la musical comedy “Glee”, affiancato da: Tyler Hoechlin, già apprezzato nel film “Era mio padre” del 2002 al fianco di Tom Hanks, che gli ha dato la gloria sul grande schermo; Wyatt Russell, figlio d’arte di Kurt Russell e Goldie Hawn, ha iniziato a recitare sin da piccolo e conta numerosi film di successo e la deliziosa Zoey Deutch, nota al pubblico per “Vampire Academy” del 2014. La sceneggiatura è curata dallo stesso regista, ovviamente, essendo autobiografica la materia di partenza. La fotografia è, invece, affidata alle sapienti mani di Shane F. Kelly, che, lo ricordo, aveva già curato quella di “Boyhood”, sempre per la regia di Linklater, film che, ai Golden Globes 2015, fece letteralmente incetta di premi.

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“La vita non è un film di Doris Day” in scena al Teatro San Babila

“La vita non è un film di Doris Day” si prepara a debuttare al Teatro San Babila di Milano. L’irriverente commedia, scritta da Mino Bellei  e diretta da Claudio Bellanti, andrà in scena dal 6 al 15 maggio. Protagoniste sul palco  tre grandi interpreti Paola Gassman, Mirella Mazzeranghi e Paola Roman. “La vita non è un film di Doris Day” è spettacolo i centrato su da tre amiche che, alla soglia dei 70 anni,  scelgono proprio il giorno di Natale, il giorno tradizionalmente dedicato alla famiglia e ai buoni sentimenti, per dirsi improvvisamente tutto quello che, per quieto vivere, hanno preferito tacere nei decenni di amicizia precedenti.  Quelli che vanno in scena sono  infatti degli auguri un po’ insoliti, che degenerano fino a diventare al vetriolo. Le tre amiche finiscono, infatti, per rivelarsi senza alcun pudore tutte le scomode verità a lungo celate.  E’ proprio qui che  “La vita non è un film di Doris Day” rivela tutta la sua provocatoria freschezza e la sua dissacrante energia.

“La scelta di mettere in scena “La vita non è un film di Doris Day”, nasce dal desiderio di rendere omaggio all’intelligenza con cui la drammaturgia italiana ha saputo e sa affrontare le questioni profonde dell’esistenza umana” sostiene Bellanti che poi aggiunge: “La commedia di Bellei, attraverso la divertente, dissacrante, provocatoria conversazione di tre vecchie amiche, affronta nodi esistenziali profondi, filtrati da un umorismo esilarante e una ironia feroce”.

DOVE E QUANDO
Teatro San Babila di Milano
martedì – giovedì – venerdì – sabato ore 20.30
mercoledì – domenica ore 15.30




“Il Metodo”, una commedia nera sulla crudeltà dei rapporti di lavoro

“Il Metodo” è in arrivo al Teatro Manzoni di Milano, una commedia nera di estrema attualità sui rapporti di lavoro e sui compromessi che si è disposti ad accettare in vista di carriera e professione, traguardi oggi sempre più fragili,  difficili da raggiungere ma, allo stesso tempo, necessari per raggiungere l’accettazione sociale. Lo spettacolo porta la firma di Lorenzo Lavia e vede in scena Giorgio Pasotto, Fiorella Rubino, Gigio Alberti  e Antonello Fassari.  Il debutto de “Il Metodo”  è fissato per il 5 maggio e lo spettacolo resterà in scena fino al 22 maggio. La commedia dell’autore catalano Jordi Galceran racconta la crudeltà dei rapporti lavorativi: quanto possa essere crudele lo stesso ambiente professionale, fino a che punto si possa permettere alle aziende di applicare gerarchie ingiuste e, indefinitiva, fin dove si arrivi a ritenere una simile rappresentazione teatrale verosimile?  È su questi temi, quanto mai attuali, che si sviluppa “Il metodo”.

“Il Metodo Gronholm, questo è il titolo originale, anche se ho preferito chiamarlo semplicemente “Il Metodo” per cercare di astrarre il più possibile ogni riferimento geografico o alla persona, come se questo “Metodo” di giudizio che servirà per scegliere uno dei quattro personaggi per un impiego, fosse anche un “Metodo” archetipo della società” spiega Lavia secondo cui  la società in cui viviamo è “una società che cerca sempre di sapere chi siamo, per poterci meglio controllare, una società pronta ad elevarci, per poi rigettarci verso il fondo. Uomini costretti ad umiliarsi per poter far parte della comunità globale in cui viviamo tutti quanti noi”. Nella commedia, viene usato il lavoro, come fondamento della  società, con tutti i suoi difetti di sessismo, razzismo, odio, menzogna, dove ci si deve velare per potersi svelare e una ipotetica multinazionale che qui diventa un simbolo religioso ed unico.

“Il metodo” si apre  in una sala riunioni asettica, si trovano, per l’ultimo colloquio “congiunto”, quattro candidati ad un incarico di manager per una importante multinazionale. I quattro personaggi de “Il metodo” si rivelano subito persone ciniche, disposte a tutto pur di ottenere il solo posto disponibile. In una busta chiusa arrivano delle prove e qui comincia il gioco, il thriller.

Galceran, nell’opera originale a cui si ispira “Il Metodo” chiama Dekia la fantomatica multinazionale svedese entro cui si svolge la storia. “E’ chiaro che il gioco di parole con L’Ikea non è casuale, perché viene presa come la multinazionale assoluta, simbolo unico della nostra collettività. … Ogni casa  in qualunque parte del mondo, anche se sono in guerra tra loro, ha almeno un oggetto dell’Ikea o “Dekia” ” ricorda Lavia che poi spiega: “Ecco perché ho scelto di far svolgere la storia in un luogo non luogo, che possa essere una stanza o il mondo intero e dove l’unico contatto con l’esterno, ovvero quello che non vediamo e non sentiamo, come tutte le cose di cui abbiamo fede o temiamo, viene dall’alto. Un luogo del profondo dove gli unici colori che esistono, arrivano dalle cose che noi usiamo ed indossiamo e consumiamo. A parte il colore di un cielo che ogni tanto ci ricorda cosa siamo veramente”.

La drammaturgia de “Il metodo” è scorrevole e permette un vivo coinvolgimento del pubblico che si trova continuamente a dover valutare ciò a cui assiste. Lo spettacolo ha il grande pregio di riprodurre in scena ambienti e situazioni comuni a tutti, che viviamo ripetutamente nella quotidianità e ritroviamo sul palco con tutta un’altra suspense. Un cinismo maieutico, che riesce a far risultare chiara, ma mai banale, la possibilità di rispondere “no” alle ingiustizie.

 

DOVE, COME E A QUANTO
Teatro Manzoni di Milano – 5-22 maggio
Orari: Feriali  ore 20.45 –  Domenica ore 15.30
Biglietti a partire da 23 euro

 




Debutta “Ciò che vide il maggiordomo”

“Ciò che vide il maggiordomo”, tra i testi più rappresentativi di Joe Orton, debutta al teatro san Babila di Miano. la commedia, diretta da Marco Vaccari, sarà in scena dall’8 al 17 aprile.

L’azione in “Ciò che vide il maggiordomo” di svolge  nello studio psichiatrico del Dottor Prentice il quale tenta di sedurre un’apprendista segretaria forse un po’ troppo ingenua. L’irruzione della moglie nevrotica, quella di un allucinante e irreprensibile ispettore sanitario, di un maldestro fattorino d’albergo e di un poliziotto con dubbie capacità investigative fanno il resto.

Imbarazzi, scambi d’identità, aggressioni ed inseguimenti, equivoci e diagnosi affrettate, travestimenti e scomparse improvvise. Quello proposto da Orton in “Ciò che vide il maggiordomo” è un meccanismo ad orologeria che fa saltare ogni certezza e travolge ogni logica utilizzando personaggi esasperatamente folli. Con un dialogo paradossale e arguto in parte influenzato da Oscar Wilde e dal teatro dell’assurdo il dissacrante autore inglese celebra l’apologia del caos.

DOVE, COME E A QUANTO
Teatro San Babila di Milano dall’8 al 17 aprile
Biglietti da 17 euro