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“SING STREET” – UN INNO ALLA VITA

di Elisa Pedini – In sala da domani, 9 novembre, il film “SING STREET”, per la regia di John Carney. Pellicola veramente ben fatta: coinvolgente, commovente ed anche divertente, “romantica” nel senso più pieno del termine, ovvero, non solo dal punto di vista emotivo-sentimentale, ma anche di valori e ideali. Un film di formazione, costruito sulle fondamenta musicali delle band inglesi degli anni ’80 e sulla straordinaria rappresentazione tanto delle atmosfere, quanto delle ambientazioni, quanto delle mode di quegli anni. Lo spettatore viene, letteralmente, calato in quel periodo storico e lo vive, contemporaneamente, ai personaggi. “SING STREET” è ambientato nella Dublino degli anni ’80, quando, una profonda recessione socio-economica porta alla mancanza di lavoro, alla fuga dei giovani, a profondi cambiamenti nelle economie domestiche. «È una storia di contrasti» ci dice il regista «tra Irlanda e Inghilterra, tra Dublino e Londra, tra ricchezza e povertà, tra scuola privata e scuola pubblica (…) una storia di “prima e dopo”». Tutto questo, filtrato dagli occhi d’un adolescente, Conor, che si trova, da un lato, a dover fare i conti con quanto cambia nella sua vita relazionale e dall’altro, ad assistere allo sgretolarsi del matrimonio dei suoi genitori, in un’Irlanda che, in questo periodo, proibisce il divorzio e non ammette relazioni al di fuori d’un’unione regolare. La vita in famiglia ha, da molto tempo, forti tensioni, registrate in modo diverso dai tre figli. La bolla scoppia con il sopraggiungere dei problemi lavorativi del padre. Una mattina, viene comunicato a Conor che verrà tolto dalla scuola privata, che frequenta, per andare alla scuola pubblica: la “Synge Street”. Nonostante le rimostranze del ragazzo, tutto è stato già deciso. Mi piace, qui, sottolineare, ancora, le parole di Carney: «volevo fare qualcosa di musicale che fosse ancora più personale, qualcosa solidamente autobiografico». Difatti, John, come Conor, è passato da una scuola privata, raffinata ed elegante a quella di Synge Street, per un intero anno e ha subito le stesse trasformazioni del personaggio principale del film: da un’esperienza educativa benestante, a una popolare, più violenta e più rozza. Tuttavia, nonostante l’ambiente decisamente ostile, Conor ha una mente libera e usa proprio la sua intelligenza e il suo talento per emergere da quel contesto. L’occasione gli arriva, in realtà, del tutto casualmente, dal tentativo d’avvicinare una ragazza bellissima: Raphina. È assolutamente tangibile l’abisso, reale o apparente, che li separa; ma Conor ha un’idea, fulminea quanto folle, che mette immediatamente in atto: propone a Raphina di fare la protagonista femminile del video della sua band. Lei accetta e gli da il suo numero. Sembra tutto straordinariamente fantastico, se non fosse per il piccolo particolare che non c’è nessuna band e non c’è nessun video, almeno fino a quel momento. Tuttavia, questa è una meravigliosa storia d’un ragazzo forte, coraggioso, idealista, che, nonostante la sua giovane età, sa molto bene cosa vuole. “SING STREET” è un inno alla vita, è il percorso d’un ragazzo straordinario, che diventa uomo straordinario. È la storia d’un processo, d’una crescita. Un talento naturale, che non può che creare, attorno a sé, qualcosa di naturalmente talentuoso. Volutamente resto vaga per non rovinarvi il gusto e la sorpresa di quanto vedrete sullo schermo. Qualcosa di travolgente che vi entrerà dentro, come solo la musica e le anime “romantiche” possono essere capaci di fare. “SING STREET” fa ridere e in certi punti diventa proprio esilarante, fa sognare e vibrare di ideali, fa commuovere e riflettere malinconicamente, fa sorridere e intenerire. Una regia che intelligentemente e saggiamente accarezza i volti in primo piano per i sogni, delega al primo piano americano le decisioni, o le scelte, o le contrapposizioni e poi gioca, con lo spettatore e con le emozioni, fra soggettive e panoramiche. Ritroviamo tutta la freschezza e l’innocenza dell’adolescenza, ma anche tutta la sua forza nel credere, nel rischiare, nel desiderare. Una pellicola davvero vibrante, solida e ben costruita. Menzione d’onore va fatta per la musica, che è davvero straordinaria: autentici sensibilità e ritmo anni ’80. Va sottolineato che, John Carney ha voluto il supporto del brillante cantautore Gary Clark, sin dalle prime fasi di lavorazione, ben un mese prima dal fattivo inizio delle riprese e proprio per avere dei pezzi che riproducessero, esattamente, gli stili di quei tempi e raccontassero, dunque, anch’essi, la storia. Concludo con i personaggi, perfettamente definiti, sia nel carattere, che nell’evoluzione, seppur con semplici tratti essenziali. Veramente magistrale e altrettanto, si mostra l’interpretazione dei medesimi, decisamente naturale, coinvolgente e intensa da parte di tutto il cast, che, però, è anche molto nutrito, quindi, mi limiterò a citare i due soli attori principali: Fredia Walsh-Peelo, nel ruolo di Conor e Lucy Boynton, nella parte di Raphina.




A SPASSO CON BOB” – UNA MERAVIGLIOSA “FAVOLA” VERA

di Elisa Pedini – Dal 9 novembre al cinema, arriva il film “A SPASSO CON BOB”, per la regia di Roger Spottiswoode. Pellicola coinvolgente, empatica, toccante, delicata, che fa ritrovare il piacere d’andare al cinema. Una “favola”, che s’apprezza e s’assapora ancora di più, sapendo che è vita vera, vissuta, dall’inizio alla fine, da una persona reale e vivente. Tanto che il film è tratto dal romanzo autobiografico “A spasso con Bob”, uscito nelle librerie italiane il 18 ottobre, ma, in realtà, già un bestseller, con sette milioni di copie vendute in tutto il mondo e posizionatosi al 23° posto dei libri più venduti, in Inghilterra, negli ultimi quarant’anni. Spesso, ci sentiamo ripetere che nella vita può succedere di tutto, ma è una di quelle frasi fatte, talmente usurate, da non avere più alcun valore informativo. La vita di James Bowen, viene, all’improvviso, a portarci un arcobaleno nel cuore, a ricordarci che, davvero, nella vita, tutto può succedere, anche nei momenti più bui, anche quando s’è già toccato il fondo. “A SPASSO CON BOB” è la storia d’un’amicizia speciale, d’un rapporto profondo, che nasce per caso, come tante relazioni nella quotidianità, per diventare “il rapporto” della vita. È la storia d’un ragazzo di strada: James. Un tossico, che ha tentato mille volte d’uscire dal tunnel della droga senza riuscirci. Un barbone, che dorme per strada, fruga nei cassonetti e raccimola qualche spicciolo suonando la sua chitarra al Covent Garden Market. Insomma, James, è un outcast, è uno dei tanti “invisibili”, che popolano i bordi delle strade delle grandi città. Non ha una famiglia, o meglio, ce l’ha, ma è troppo impegnata nel suo perbenismo per occuparsi di lui e sceglie, che sia più opportuno fingere che il figlio non esista. Dal canto suo, James, ha iniziato a farsi molto giovane, ponendosi, lui per primo, al di fuori delle regole borghesi del suo entourage. Non ha un lavoro ed è abbastanza logico pensare che abbia impiegato le sue energie nel trovarsi una dose, piuttosto che nel cercarsi un impiego. Tirando le somme, questo ragazzo, ha fallito su tutta la linea. Tuttavia, ha toccato il fondo ed è stanco di tutto questo. Intraprende, di nuovo, la terapia col metadone per cercare d’uscire dalla tossicodipendenza; ma, vivendo in strada, continua ad inciampare nelle solite vecchie compagnie e ricaderci è facile. Talmente facile, che James sta a un passo dal morire. La sua assistente sociale vede in lui delle potenzialità e comprende perfettamente il problema, così, s’impegna in tutti i modi per fargli assegnare un alloggio popolare e levarlo dal pericolo numero uno: la strada. Non senza difficoltà, ci riesce. Ora, il ragazzo ha un tetto sulla testa. Lontano dalle insidie. Mentre si gode un bel bagno caldo, che per lui è una sorta di “ritorno alla vita”, sente dei rumori in casa. Pensa sia un ladro, ma quando va in cucina, vede lui: un bellissimo micione fulvo, entrato dalla finestra aperta e alla ricerca di cibo. Tenta di farlo uscire, ma ha già perso in partenza. Impossibile resistere allo sguardo implorante d’un gatto. Il giorno dopo, lo lascia fuori e va a suonare a Covent Garden. Di ritorno al suo alloggio, il micione, stremato e ferito, lo sta aspettando. Si narra che i gatti siano animali talmente empatici, da sentire quando un umano ha bisogno di loro e dunque, lo scelgano. Personalmente, condividendo, praticamente da sempre, la mia vita con dei felini, sono portata a dire che sia assolutamente vero. Tuttavia, a prescindere da questo, la vita di James è messa davanti a un bivio e cambia totalmente, nel momento in cui, decide che la vita del suo nuovo amico, cui da nome Bob, sia più importante di lui e del suo egoismo. È il primo passo verso il vero cambiamento. Da questo momento, il ragazzo di strada, che doveva occuparsi solo di se stesso, ha la pesante responsabilità della vita d’un altro esserino, randagio e solo, esattamente come lui. È il punto di rottura tra la vita di prima, fatta solo di “vorrei” e di “domani forse” e quella di oggi, fatta di scelte e decisioni da prendere, “hic et nunc”, perché in ballo c’è la vita d’un altro essere vivente. Non vi dico altro, perché la storia di questi due amici, che divengono un sinodo e dividono tutto, va davvero gustata, in prima persona, fino all’ultimo minuto del film. Momenti felici e momenti drammatici si alternano. La vita non è mai facile, ma “insieme” ci si può riuscire. “A SPASSO CON BOB” è un capolavoro di emozioni, proprio perché vita reale e c’insegna molto, anzi, meglio, ci fa ricordare molto. Menzione particolare va all’interpretazione del protagonista del film: Luke Treadway, nel ruolo, appunto, di James Bowen: una recitazione intensa, totalmente calata nella parte, che rende, con grande credibilità e naturalezza, lo spessore psicologico ed emotivo del suo personaggio, in ogni stadio della sua crescita evolutiva. Infine, non si può non citare lo straordinario Bob, nel ruolo di se stesso, potendo sostenere, con grande sicurezza, che se esistessero gli Oscar per i felini, lui, certamente, sarebbe il candidato favorito a quello per miglior gatto protagonista.




Oasis: Supersonic, dai sobborghi al mito

di Elisa Pedini – Arriva al cinema il 7, 8, 9 novembre, l’atteso film “Oasis: Supersonic” in cui si ripercorre l’ascesa degli Oasis. “Oasis: Supersonic” è diretto da Mat Whitecross, ben noto per aver girato la maggioranza dei videoclip dei Coldplay e film del calibro di “Sex & Drugs & Rock & Roll” su Ian Dury (2010), o “Spike Island” sugli Stone Roses (2012). A mio avviso, nessuno meglio di lui avrebbe potuto realizzare questo docu-film. Pellicola di forte impatto: coraggiosa, coinvolgente, graffiante, “belligerante”, ma anche incoraggiante e sognatrice. Il ritmo serrato e avvincente, con cui le immagini, tutte di repertorio, si susseguono, è proprio quello d’un videoclip. Le interviste, gestite come voci fuori campo, danno veramente l’impressione d’un racconto estemporaneo di vita vissuta. Sembra che i due fratelli parlino, lì, insieme, davanti agli spettatori, quando, in realtà, ad oggi, non si parlano più.

Il risultato di “Oasis: Supersonic” è qualcosa di spettacolare: due ore piacevoli ed emotivamente molto impattanti, che scorrono con grande fluidità. Uno specchio chiaro della vita, della storia e delle personalità dei due protagonisti: i fratelli Liam e Noel Gallagher, che hanno dato vita a un vero e proprio miracolo musicale: gli Oasis.

In soli tre anni sono arrivati a dominare totalmente le scene musicali, senza concorrenti, poi, la rottura. «Tutto troppo in fretta» dicono. Bellissimo, anche, il paragone che fanno tra il successo e una macchina da corsa potente: entrambi belli da vedere, belli da guidare, ma se non si sa gestirli, il rischio d’andare troppo veloci e perdere il controllo, è altamente probabile. La giovane età, il successo repentino e le pressioni pesanti dell’industria discografica, portano al collasso il già altalenante rapporto tra Liam e Noel. I fratelli Gallagher, tre in tutto, crescono nella realtà povera e desolante dei quartieri popolari della periferia di Manchester, con un padre assente e molto violento e una madre che deve fare tre lavori per sbarcare il lunario. È una vita difficile, una vita dura, soprattutto, quando si è piccoli e molte cose non si è in grado di spiegarsele. La violenza, poi, non ha mai una spiegazione, né una giustificazione. Mentre le botte svuotano l’anima, la rabbia la riempie. Da qui, da questa realtà, apparentemente senza scampo, Noel trova la sua evasione nella musica; Liam, il più piccolo, stenta a trovare un vero interesse e sarà una martellata in testa, racconta egli stesso, a fargli scoprire la sua passione per la musica e la successiva epiphany sarà un concerto degli Stone Roses a Manchester.

Veramente toccante e vivido il racconto delle loro vite, dalla viva voce dei due protagonisti e delle persone a loro vicine in quei momenti. Le emozioni scatenate sono vere e proprie “bombe”, che fanno accapponare la pelle. Due talenti innati e due leader naturali di altissima caratura, ma di personalità, totalmente, opposte. Un “gatto” e un “cane”, si descrivono. Da cui, le litigate, le rivalità.

Lascio a voi la sorpresa di scoprirle in modo approfondito, mentre salto direttamente a quell’aprile del 1994, quando, col singolo “Supersonic”, la band indie, proveniente dai sobborghi di Manchester, s’impone all’attenzione del panorama musicale. Sono solo esordienti, ma, nell’agosto del medesimo anno, il loro album “Definitely Maybe”, scala le classifiche e vince sette dischi di platino con oltre due milioni di copie vendute. Il titolo è un ossimoro, come i due fratelli Gallagher, direi. Dopo tanto tempo di lavoro durissimo e di gavetta nell’oscurità, finalmente, la svolta e diventano giganti della musica. Sta accadendo qualcosa di biblico, qualcosa di “supersonico”, destinato a cambiare, completamente, il panorama musicale e la vita di Liam e Noel.

Nell’agosto del 1996, gli Oasis, sono i protagonisti indiscussi della scena musicale mondiale. Hanno, letteralmente, dato vita a una realtà unica e mai vista prima, né dopo, vien da dire. I loro concerti a Knebworth raccolgono un pubblico di 250000 persone e con altri due milioni e mezzo di fans alla ricerca disperata di biglietti. Un evento storico, anzi, mitico. Per chi, come me, viveva in quel periodo i suoi vent’anni, non può non sentirsi compartecipe di quanto vede sul grande schermo e non solo, perché, oggettivamente, è un film straordinario, ma anche, per la forte carica empatica. Le emozioni suscitate dal film, si fondono e si confondono con i ricordi personali, che, sulle note delle canzoni e sulla voce, roca e graffiante, di Liam, si dipanano nella mente come un secondo, privatissimo, film. Inutile, sottolineare l’impatto interiore che, ovviamente, fa venire i lucciconi agli occhi.

Alla fine della proiezione, la sala esplode in un applauso che stenta a fermarsi. L’emozione è davvero tangibile. “Oasis: Supersonic” è un film da gustare dall’inizio alla fine. Una pellicola che, all’inizio, ho definito, anche, incoraggiante e sognatrice, perché, in questo mondo dominato dai social e dal business, di scene come quelle che vedrete nel film, non se ne vedono più. Di visionari folli e spericolati, non ce ne sono più. Questo film vuole essere, per un verso, un incoraggiamento per le nuove band di giovani a credere nei loro sogni, risvegliare la passione e saper, anche, rischiare per essa; per l’altro, un monito a prestare attenzione a non perdere il controllo e a non permettere all’industria musicale di limitare i propri orizzonti.




“BOTTICELLI. INFERNO”, il lato oscuro di Botticelli

di Elisa Pedini – Nelle sale solo per le date: 7, 8, 9 novembre, arriva il film “BOTTICELLI. INFERNO”, ad opera dello scrittore e regista Ralph Loop che ha dato alla luce una pellicola di rara bellezza.

“BOTTICELLI. INFERNO”  si rivela un viaggio avvincente e approfondito nei luoghi della vita e del lavoro di Sandro Botticelli, ben poco noti, soprattutto, sotto l’ottica d’indagine artistica e introspettiva con cui vengono proposti. Un docu-film curato e avvincente come un thriller, che consiglio vivamente, perché offre, tra le altre cose, l’opportunità di visionare un’opera, di cui non si potrebbe altrimenti godere.

A sole poche settimane dall’uscita del film di Ron Howard tratto da “Inferno” di Dan Brown, “BOTTICELLI. INFERNO”, ci mostra un aspetto, del pittore, nuovo, inquietante ed estremamente importante, di fatto, forse, il più significativo. A tutt’oggi, l’opera di Botticelli continua a coinvolgere ed emozionare. I suoi quadri più celebri portano, nei musei e nelle mostre di tutto il mondo, migliaia e migliaia di visitatori, ogni anno. Tuttavia, il Botticelli più noto e acclamato è quello della rappresentazione del mito, della leggenda, della bellezza ideale sulla terra, ben poco si sa dei suoi disegni più intimi, misteriosi, oscuri, che, forse, son quelli che, più di qualsiasi altra opera, consentono di conoscerlo nel profondo.

“BOTTICELLI. INFERNO”, trasporta lo spettatore proprio dentro la creazione d’un disegno: la “Mappa dell’Inferno” di Dante, rimasta a lungo custodita, al sicuro, nei depositi del Vaticano e che diventa, oggi, protagonista di questo film. Un vero e proprio viaggio nel mistero, attraverso i nove livelli dell’Inferno dantesco, nel Purgatorio e finalmente nel Paradiso. Mi limiterò a tratteggiare il contenuto avvincente ed inedito di questo film, “BOTTICELLI. INFERNO”, per lasciarvi tutto il gusto della suspense e della scoperta dei dettagli sulla vita e sul lavoro di questo grande Maestro.

Proprio in occasione del film, “BOTTICELLI. INFERNO”, la “Mappa dell’Inferno” è stata digitalizzata con uno scanner di grandi dimensioni e ad altissima definizione. Ciò ha consentito di portare alla luce dettagli fino a quel momento invisibili a occhio nudo. Grazie alla Mappa, minuziosa, particolareggiata, e ricchissima di dettagli, comprendiamo che essa è una sorta di “indice” d’un lavoro ben più vasto. In essa, troviamo riassunto tutto il lavoro che il Botticelli si prefiggeva di fare. Difatti, l’artista fece rivivere il capolavoro dantesco in 102 pergamene, tutte disegnate a mano libera, recanti, nel retro, la trascrizione del canto relativo. La maggioranza dei disegni, ben ottantacinque, si trova al museo di Berlino, solo sette al Vaticano e purtroppo, dieci sono andate perdute. Grazie alla Mappa, possiamo comprendere quali siano le dieci pergamene mancanti, ma non ci è dato sapere chi le abbia divise, né quando, né dove. La certezza è che questo immenso lavoro del Botticelli rappresenta un’opera importantissima a livello mondiale, trattandosi, di fatto, del punto d’incontro tra il più grande poeta italiano e il più grande pittore italiano.

Ma, voglio portarvi al momento della genesi di questo gioiello. Siamo nel 1480, siamo a Firenze, Botticelli è all’apice del successo e artista ufficiale dei Medici. Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici chiede a Sandro di rappresentare la “Divina Commedia”, ovvero, di dare un volto alle idee di Dante, di dare corpo e vita ai versi del Sommo Poeta. Così, Sandro Botticelli, principia la sua visualizzazione del viaggio dantesco. Un’ascesa neoplatonica dalla molteplicità dei peccati umani, all’unità beatifica. Con certezza, vi lavorò duramente fino al 1495, ma alcuni studiosi sostengono, addirittura, fino alla morte, che avvenne nel 1510. A supporto di tale teoria, ci sarebbe il sospetto che la maestosa opera del Botticelli sia, di fatto, rimasta incompiuta, come il film ci mostra, portandoci proprio dinanzi ai suoi disegni. Come abbiano fatto le pergamene a finire, dalla corte medicea a Firenze, fino a Berlino e quali e quanti segreti queste nascondano, lo lascio scoprire a voi, perché “BOTTICELLI. INFERNO” è, davvero, un film avvincente ed estremamente emozionante. Vi aggiungo soltanto che, le riprese sono state realizzate in Vaticano e a Firenze, ovviamente, ma anche a Londra, a Berlino e in Scozia.

La bellezza di quanto viene mostrato e la consapevolezza dell’esclusività delle opere, cui si assiste, mi hanno messa dinanzi a un impatto emotivo davvero forte. Sono uscita dalla sala estasiata e con gli occhi lucidi. Ho temuto, inizialmente, d’essere, io, un po’ troppo sensibile e invece, anche i miei colleghi avevano provato esattamente le stesse sensazioni. Dunque, è, decisamente, una pellicola, affascinante e magica, che merita d’essere vissuta e goduta appieno, lasciandosi guidare in questo viaggio.




“JACK REACHER – PUNTO DI NON RITORNO”: CAPOLAVORO D’AZIONE E D’INDAGINE

di Elisa Pedini – Arriva nelle sale, dal 20 ottobre, l’attesissimo sequel del duro Jack Reacher, col titolo “JACK REACHER – PUNTO DI NON RITORNO”, per la regia di Edward Zwick. Pellicola, semplicemente, straordinaria. Un connubio degno di nota tra l’“action movie” e il “crime thriller”. Un film coinvolgente, avvincente, emozionante, scandito da un ritmo incalzante, che cattura l’attenzione dalla prima all’ultima scena. Nella sua indubbia spettacolarità, il film scorre solido e coerente, coinvolgendo lo spettatore in un intrigo ben strutturato, che, in certi passaggi, richiama la figura dell’hysteron proteron applicata alla cinematografia, che si attua nell’inversione dell’ordine naturale d’un evento, mostrandone prima l’effetto e poi la causa. Questa struttura, non solo consente di tenere sempre alta l’attenzione dello spettatore, ma anche di creare un forte senso di suspense. “Jack Reacher – Punto di non ritorno” è tratto dal libro “Never go back”, diciottesimo volume della fortunatissima saga di Jack Reacher, eroe letterario nato, nel 1997, dalla penna di Lee Child e giunto ormai a ben venti romanzi. Com’è noto, questo personaggio, affascinò talmente Tom Cruise, che, nel 2012, decise di produrre e interpretare il primo film: “Jack Reacher – la prova decisiva”, basandolo su “One Shot”, in realtà, il nono libro della saga. Notevole caratteristica, infatti, dei romanzi su questo eroe, è che non seguono un ordine cronologico, non c’è una continuità con cui familiarizzare per apprezzare il protagonista e le sue gesta. Di fatto, gli unici punti fermi sono Jack e il suo spazzolino da denti. Non per altro, la figura di questo personaggio è proprio quella dello “straniero misterioso”, una sorta di “cavaliere errante” dei nostri tempi. La sua vita nomade, scevra da ogni attaccamento, ha, però, una struttura rigida, basata su regole morali e senso di giustizia. Jack si sposta in autostop, non si ferma mai a lungo in nessun luogo ed è un ex maggiore dell’esercito americano. Il film inizia mostrandoci quattro uomini stesi a terra e ridotti proprio male, sul selciato, fuori da una stazione di servizio. Ecco, appunto, l’“effetto” di cui parlavo prima. Arriva la polizia. I testimoni riportano che, a metterli tutti e quattro ko, è stato un solo uomo, lo stesso che se ne sta, pacifico, seduto al bancone del locale. Quell’uomo è Jack. Ancora s’ignora la “causa”. Forte il contrasto che viene trasmesso allo spettatore: fuori, la notte, i lamenti dei malmenati, il vociare dei testimoni e la sbruffoneria dello sceriffo; dentro, una forte luce al neon, un bianco accecante e un uomo solo, seduto di spalle alla porta, calmo. La spiegazione di tutto, la “causa”, arriva, puntuale e in modo a dir poco spettacolare. Si tratta di traffico di clandestini e Jack li fa arrestare tutti. Quindi, il nostro “giustiziere nomade” se ne va, di nuovo, in autostop. Scopriamo che ad aiutarlo è stato il Maggiore Susan Turner, che gli è succeduta quando lui ha lasciato l’esercito. Quando Jack va a Washington per conoscerla, scopre che è stata arrestata con l’accusa di spionaggio. È subito evidente, per il nostro eroe, che c’è qualcosa di molto strano e inizia a indagare. Qualcuno lo pedina. Jack va a parlare con l’avvocato del Maggiore Turner e così, scopre che Susan aveva inviato due sue unità in Afghanistan, per indagare su una questione poco chiara relativa alle armi. I due inviati vengono ammazzati in pieno stile esecuzione e guarda caso, un giorno dopo, il Maggiore Turner viene arrestata. L’avvocato di Susan viene assassinato e le accuse ricadono su Jack. Con un espediente viene arrestato come militare. Riesce a evadere e a far scappare anche il Maggiore Turner con lui. Da questo punto, non vi dico altro perché la trama si fa sempre più intrigante in un coerente climax di tensione e conduce lo spettatore dentro a una storia di indagini fitte e avvincenti, fra pedinamenti, ricerche, testimoni e rapidi spostamenti per non essere presi, fino a dare spiegazione e soluzione a ogni enigma. A complicare ancora di più la situazione, c’è la figlia di Jack, che va tutelata, perché è un facile bersaglio per colpire lui. Vi rammento, però, quanto detto al principio sulle caratteristiche di questo personaggio: un samurai del nuovo millennio, solitario, nomade, senza legami e scevro da attaccamenti. Appare strano che abbia, al dunque, una figlia. Chi sia questa fanciulla, lo lascio scoprire a voi. “Jack Reacher – Punto di non ritorno” è un film che va seguito e che si fa seguire, con grande attenzione. Di azione ce n’è davvero tanta, ma tutto è calibrato e realistico, evitando così i più classici, abominevoli, cliché degli action movie americani: primo fra tutti, i tipici inseguimenti eterni con dilatazioni spazio-temporali tanto improbabili, quanto ridicole. I personaggi sono ben costruiti e le loro personalità risultano solide e credibili. I dialoghi sono sottili, acuti e vanno ascoltati, apprezzati, perché, persino quelli che possono sembrare più personali e meno utili alla trama, in realtà, sono portatori di messaggi molto importanti su tematiche molto attuali. Mi piace concludere, ponendo l’accento sulla figura del Maggiore Susan Turner, interpretata in modo squisitamente naturale e intenso da una straordinaria Cobie Smulders: una donna molto bella, intelligente, attiva, dotata di profondità e sensibilità, ma anche di grande forza e coraggio. Finalmente, una protagonista femminile realistica. Infine, molto apprezzabile è la totale mancanza d’una futile love story tra i due protagonisti, che non avrebbe dato valore aggiunto alcuno ad un film d’azione e d’indagine qual è “Jack Reacher – Punto di non ritorno.”




“3 GENERATIONS”: UN’OTTIMA OCCASIONE PERDUTA

di Elisa Pedini – Arriva al cinema dal 24 novembre “3 GENERATIONS – UNA FAMIGLIA QUASI PERFETTA”, per la regia di Gaby Dellal. Una commedia tenera, delicata, ironica, piena di sentimento e buoni propositi, con una Susan Sarandon semplicemente divina e che da sola regge e vale tutto il film. Incantevole anche l’interpretazione di Elle Fanning e molto intensa quella di Naomi Watts. Nonostante questo, la commedia risulta incoerente e scricchiola. Peccato davvero.

Alcuni l’hanno apprezzata in sala; ma, a me, ha lasciato perplessa e non ha convinto. Troppe le contraddizioni per fare di “3 GENERATIONS” una pellicola solida. Sono andata a vedere questo film, piena di grandi aspettative, date dalla tematica trattata, decisamente coraggiosa e nuova, perché non si parla spesso dei transgender; ne sono uscita, infastidita. Una commedia dai toni troppo soffusi per far ridere, se non sporadicamente. Tuttavia, non la si può neppure definire “cinema impegnato”, nonostante la tematica, perché manca totalmente d’introspezione psicologica e del singolo e del sociale.

Ma, andiamo ad analizzare “3 GENERATIONS” per spiegare la mia posizione. Questa la trama: Ray, è un ragazzo bello, coraggioso, forte, deciso e vive con la sua mamma single, Maggie, a casa della nonna, Dolly, detta Dodo: donna eclettica, liberale, colta, raffinata e lesbica, che condivide amorevolmente la sua vita con la compagna di lunga data, Frances, detta Honey. Tuttavia, Ray, è nato Ramona e vuole intraprendere la terapia ormonale per essere, finalmente, se stesso: un ragazzo a tutti gli effetti. Per lui, è uno stop-and-go. Vuole cambiare scuola e accoglie con gran gioia l’evenienza di cambiare casa. Una nuova nascita, praticamente. Messaggio bellissimo. Si frappongono, fra lui e il suo desiderio, due cose: le remore della nonna e il fatto che la terapia richieda l’autorizzazione di entrambi i genitori, cosa che obbliga Maggie a dover fare i conti col suo passato.

Va premesso che la regista di “3 GENERATIONS” specifica: «Quando il film inizia, è già stata presa una decisione; si è già verificato un processo», pertanto, non ci si aspetta una particolare introspezione psicologica dei personaggi, perché, si presuppone, che tutti i traumi, le crisi, gli eventi drammatici, sia privati che sociali, siano stati già affrontati e superati. Difatti, all’inizio del film, vediamo Ray andare da un medico, con sua mamma e sua nonna, per parlare della cura ormonale che deve intraprendere. Ora, si presuppone, che se ne sia già parlato in casa.

Tuttavia, ecco, la prima contraddizione: Dolly non comprende. Susan Sarandon sente l’esigenza di giustificare il suo personaggio dicendo e cito: «Essere gay non significa approvare il cambiamento di sesso. Essere gay ha a che fare con l’orientamento sessuale, mentre essere transgender riguarda l’identità». È giusto e mi sta bene; ma, nel film, non trapela in modo così netto dai dialoghi post-incontro col medico. Inoltre, s’insiste molto sulla giovane età di Ray.

Da tutto ciò, mi domando: ma non era già stato tutto deciso? Se il film mette lo spettatore dentro una storia in cui «è già stata presa una decisione», allora, la posizione di Dolly, i dubbi sulla giovane età di Ray, le crisi di Maggie, sono fuori luogo. Se, invece, c’è ancora qualcosa da discutere, allora, non siamo dentro «una decisione già presa»; ma di fronte a una “decisione da prendere” e dunque, cadiamo nella mancanza d’introspezione psicologica. Cadiamo, altresì, nella superficialità d’una società che, senza colpo ferire, accetta Ray. Peccato che, la realtà sia ben altra. Certo, c’è una scena, di pochi secondi, in cui un ragazzotto infastidisce Ray, che reagisce proprio come un ragazzo, ovvero, attaccandolo al muro e cavandone un occhio nero. Peccato che, il ragazzotto in questione, sia il classico “bulletto”, che ha bisogno d’importunare la quiete altrui per trovare una misera giustificazione al suo inutile esistere e non rappresenta certo “la società”.

Volendo, comunque, passar sopra a quanto finora detto, invece, non posso ammettere la “gender inequality, potentemente professata. A mio avviso, questa, è l’unica vera rovina della nostra società, malata di preconcetti e luoghi comuni. Ad un certo punto, Ray parla di sé, affermando che s’è sempre sentito un ragazzo, che lo ha capito da quando aveva quattro anni, perché i suoi interessi non erano “da femmina, perché sognava di fare l’astronauta, o il cowboy e tante altre prese di posizione di questo tipo. Mi sembra ovvio: se avesse giocato a fare la mammina fasulla d’una qualche sorta di bambolotto, o la casalinga precoce col kit delle pulizie, o se avesse aspirato a fare la “moglie”, la “principessa”, o peggio, la soubrettina, sarebbe, naturalmente, cresciuto come la “femmina perfetta”. Tralascio ogni riferimento alla cronaca, ogni tipo d’esempio altisonante e qualunque invettiva, limitandomi a riflettere su di me. Da bimba, giocavo con le macchinine, i robot, a calcio e a “cowboys contro indiani”. A sedici anni, ero talmente allenata, che avevo le spalle d’un lottatore e ho fatto studi scientifici, eppure, sono femmina, fiera e convinta e pure etero. Io penso che, ognuno, è ciò che è, dentro di sé, a prescindere da ciò con cui gioca, da come si pettina, da come si veste, dallo sport che pratica, dagli studi che fa e dalla professione che sogna o sceglie. Nonostante il film sia basato su testimonianze dirette e sulla stretta cooperazione con transgender, purtroppo, non si riescono, neppure in questo contesto, a scardinare le ancestrali differenze sociali, basate sui “gender roles”. Concludo con altre due riflessioni. Dolly, si fa remore sul cambio di sesso di Ray, ma, non contesta e anzi sostiene, la condotta d’una figlia fragile, nevrotica, di facilissimi costumi e d’un’immoralità, che sta seconda solo alla Brooke di “Beautiful” e il paragone la dice già lunga. Ecco, personalmente, avrei accordato il massimo della fiducia a mio nipote, che, coi suoi sedici anni, dimostra idee chiare, profondità d’animo, coerenza morale e grandissimo coraggio, mentre, avrei pesantemente condannato mia figlia. Un’ultima cosa che mi ha infastidita, è il giudizio, mai esplicito, ma sottinteso, verso il padre di Ray.

Quest’uomo ha avuto la vita devastata da Maggie. Dopo dieci anni, se la vede ripiombare davanti, con la pretesa che firmi subito i documenti per la terapia del figlio. Personalmente, le avrei sbattuto la porta in faccia. Lui, invece, l’accoglie, nonostante abbia una nuova, fantastica famiglia, l’ascolta, nonostante lei sia psicopatica e giustamente, a mio avviso, chiede di capirci di più. A me, è sembrato un comportamento fin troppo responsabile.

In conclusione, l’impressione che ho avuto, di “3 GENERATIONS”  è quella d’un film senza coraggio: nel tentativo di restare politically correct e non turbare nessuno, finisce per restare superficiale, se non, addirittura, esporre il fianco ai detrattori della causa, che vuole, invece, difendere.

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“BAD MOMS – MAMME MOLTO CATTIVE”: QUANDO L’IMPERFEZIONE È LA VERA PERFEZIONE

di Elisa Pedini – Arriva al cinema dal 13 ottobreBAD MOMS – MAMME MOLTO CATTIVE”, scaturito dalla testa geniale e perversa dei registi di “Una notte da leoni” e “21&Over”: Jon Lucas e Scott Moore. Una pellicola esilarante, eccessiva, surreale, dissacrante, assolutamente psicopatica, insomma, da non perdere. Preparatevi a ridere fino alle lacrime dopo nemmeno dieci minuti dall’inizio del film. La trama è riassumibile in poche parole: Amy Mitchell è una donna bellissima, s’è sposata con Mike a vent’anni, ha due bambini: Jane e Dylan e lavora in un’azienda di caffè. Tutto sembra perfetto, se non fosse che: dovrebbe lavorare in part-time verticale e invece è sempre in ufficio, dovrebbe poter contare sul marito per la gestione della famiglia, mentre si ritrova al fianco una specie d’ameba, pantofolaia e indolente, vorrebbe avere una famiglia comunicativa e invece ha cresciuto due figli viziati, ansiosi e nevrotici. A tutto questo, si aggiungono le riunioni e gli impegni dell’Associazione Insegnanti-Genitori dell’idilliaca scuola elementare William McKinley, la di cui presidentessa, la perfettissima Gwendolyn James, supportata dalle sue amiche: Vicky e Stacy, tiranneggia tutte le altre madri, facendo un po’ il bello e il cattivo tempo come le pare. Tuttavia, proprio per il suo potere e il suo spirito altamente vendicativo, viene ubbidita e assecondata da tutte. Amy è sull’orlo di una crisi di nervi, ma non realizza quanto sia fasullo tutto quello che sta vivendo. Poi, nel giro di poche ore, si succedono una serie di, diciamo così, sfortunati eventi, sia interni alla famiglia, che esterni, culminanti in una magnifica riunione scolastica. Finalmente, Amy, trova il coraggio di dire “no”. Stringe amicizia con altre due mamme, Kiki e Carla e insieme, danno inizio alla loro rivoluzione di “mamme cattive”, riappropriandosi della loro identità e dei loro spazi. Ovviamente, la decisione, non sarà senza conseguenze e vedrà la triade delle “mamme cattive” contrapporsi a quella delle “mamme perfette”. Detto questo, va precisato che, “Bad moms” nasce dalle migliori intenzioni dei registi d’esaltare le loro mogli e tutto l’immenso, infaticabile, lavoro che, quotidianamente, svolgono. Pertanto, ci sono dei contenuti seri, sotto il paradossale aspetto del film. Primo fra tutti, il dilemma lacerante di qualsiasi genitore: “starò facendo bene?”; qui, parafraso una battuta proprio di “Bad moms” e dico: solo i figli potranno dirlo e quando saranno in grado di giudicare, sarà pure troppo tardi. Questa è una realtà, dura, forse spietata, ma fa parte del “contratto genitore” che si firma nel momento in cui si decide di mettere al mondo un figlio. Altra riflessione importante del film, è che lasciare i figli un po’ a se stessi, non significa abbandonarli, o amarli meno e anzi, non può far loro che bene. Spesso, nel tentativo di sentirsi “genitori perfetti”, si perde totalmente di vista il fatto che “crescere” significa, anche: tentare, sbagliare, migliorarsi e ritentare. Iper-proteggere, o, peggio ancora, risolvere costantemente i problemi ai figli, comporta, di fatto, non farli crescere mai. Questi sono i messaggi più importanti del film, per il resto, si muove su un sostrato di luoghi comuni: mamme iper-impegnate e padri indolenti o schiavisti. Tuttavia, essi sono necessari per costruire la solida, geniale, struttura su cui si basa questa spassosa commedia. Una maggiore aderenza al realismo, non avrebbe consentito le iperboli paradossali che rendono “Bad Moms” una commedia esilarante, che regala 80 minuti di sane, grasse, risate. Seguendo il più squisito e complesso metodo di “burlesco cinematografico”, i registi introducono “fratture” ben definite tra status del personaggio e il suo modo d’esprimersi, o tra modo di essere e modo di fare, o tra realtà percepita dal personaggio e realtà mostrata allo spettatore. Da qui, ne scaturisce un prodotto solido, sapiente e coerente, sia come regia, che come sceneggiatura. La commedia, di fatto, procede in modo, incredibilmente, compatto in un climax di “follia pura” e tale effetto è dato, proprio, dalle situazioni completamente surreali e da queste “fratture” operate ad arte. Ve ne descrivo una per tutte: il trio delle “mamme perfette” è davanti all’ingresso della scuola per distribuire i volantini della riunione. Sono ricche, ben vestite, impeccabilmente truccate e pettinate, quando, arriva lui, il papà dei sogni: bello, sexi, vedovo e dal sorriso smagliante. Bene, che le tre donne restino tutte compite e compunte, è abbastanza naturale, direi, che commentino tra loro, lo è altrettanto; ma, che lo facciano esprimendosi con un gergo che farebbe impallidire il Sergente Hartman, ecco, questo, è del tutto inatteso e crea una “frattura”. Oltre che risate a crepapelle, ovviamente. Questa particolare struttura del film, è supportata da un cast, semplicemente, superlativo: Mila Kunis (Il Cigno Nero), Kristen Bell (Frozen), Kathryn Hahn (Transparent), Christina Applegate (Anchorman), Annie Mumolo (Le amiche della sposa), Jada Pinkett Smith (Magic Mike XXL), Jay Hernandez (Siucide Squad), Clark Duke (Un tuffo nel passato), Emjay Anthony (Il libro della giungla), Oona Laurence (Il Drago invisibile) e David Walton (About a Boy).

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“BIANCONERI – JUVENTUS STORY”: LA PASSIONE DIVENTA UN FILM

di Elisa Pedini – Nelle sale cinematografiche italiane, solo nelle date: 10, 11 e 12 OTTOBRE, arriva “BIANCONERI – JUVENTUS STORY”, l’atteso film su una delle squadre più antiche e forti d’Italia, per la regia di Marco e Mauro La Villa. Sul sito: www.juvestory.it, potrete trovare le sale che lo avranno in programmazione. “Bianconeri-Juventus story” è stato ardentemente desiderato dai registi, non solo per il personale piacere di tifosi di raccontare la storia d’una squadra che ha vinto tutto quello che si potesse desiderare di vincere; ma anche, per onorare la memoria del loro padre, Rosindo, juventino sfegatato. La pellicola, dunque, nasce da una profonda, generazionale, passione calcistica, che spinge i due fratelli a contattare Lapo Elkann, proponendogli un film indipendente sulla Juventus. L’intento iniziale, però, si trasforma in qualcosa di più profondo, che si fonde con la storia stessa del calcio italiano e con quella della famiglia Agnelli, il cui legame con questa squadra risulta essere unico al mondo, anche in ambito sportivo. Un’unione forte e unica, dunque, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, FINO ALLA FINE! Si, la formula non dice, esattamente, così; ma, l’idea che si ha di questo legame, è proprio quella d’un matrimonio indissolubile, che nulla ha potuto scalfire. I registi hanno lavorato, per cinque anni, direttamente con la società, i giocatori e la famiglia Agnelli, andando così a raccontare la storia del Club, in quello che è un viaggio dalla sua nascita, fino alla conquista della terza stella. Vengono rievocati i momenti più emozionanti, intensi, drammatici e trionfali, ma «con un punto di vista nuovo, umano, familiare», come sottolinea Ginevra Elkann. È indubbio che, questo tipo di taglio, che i registi hanno cercato, sia stato pienamente raggiunto: l’emotività viene, decisamente, sollecitata. Sono passata dal sorriso, al groppo in gola, fino a sentire i brividi per l’emozione. Tutto questo diviene ancor più lodevole se pensiamo che stiamo parlando d’un film su una squadra di calcio. Ritengo che, questa carica emotiva, veicolata dal documentario, sia possibile solo grazie alla reale, fortissima, passione, che c’è, alla base di questo lavoro e non solo da parte dei registi, ma anche dei protagonisti del film. “Bianconeri-Juventus story” si mostra come un sapiente e solido montaggio di immagini esclusive, video di repertorio, materiali inediti e bellissime interviste a illustri nomi del calcio mondiale, tipo: Buffon, Del Piero, Pirlo, Nedvěd, Chiellini e solo per citarne alcuni; oltre, naturalmente, ai racconti di Andrea Agnelli e di John, Lapo e Ginevra Elkann. La voce calda fuoricampo di Giancarlo Giannini, ci accompagna in questo viaggio nella storia affascinante della Juventus F.C. La squadra fu fondata nel 1897 a Torino, per opera d’un gruppo di amici appassionati di Football, sport che era stato appena importato dall’Inghilterra. Nel 1923, la famiglia Agnelli acquista la Juventus e inizia, così, una lunga storia storia d’amore che, a tutt’oggi, continua. Ci tengo a sottolineare, di nuovo, quest’aspetto, perché il legame umano, fortissimo e tangibile nelle interviste stesse, è alla base della forza di questa squadra, che non è arrivata a vincere tutto per caso, ma proprio grazie a questa unità, a questo fortissimo senso d’appartenenza, che ha permesso di superare, anche, i momenti più tristi e buî. Concludo, mettendo l’accento su alcuni aspetti che mi sono piaciuti molto. Ho già accennato all’inizio che, attraverso la storia della Juventus, si va, ovviamente, a toccare la storia dello stesso calcio italiano e per me, è stato molto interessante scoprire, ad esempio, come e quando è cambiato il mercato del calcio in Italia. Ai tempi ero una ragazzina e non m’interessavo di queste cose, pertanto, mi ha fatto piacere imparare qualcosa di nuovo. Inoltre, ho trovato molto intrigante la storia dell’arrivo di Platini in squadra: Gianni Agnelli vede in lui un potenziale enorme e decide di prenderlo, ne seguono: la trattativa segreta, gli imprevisti, i dialoghi, l’ingresso in squadra, fino alla consacrazione del mito di “Le roi”. Preciso che, ai tempi, il regolamento per le squadre di serie A, imponeva la presenza di massimo due stranieri e la Juventus aveva appena acquistato Boniek, ne derivò la pesante scelta dell’Avvocato, di doversi privare d’un altro campione per scommettere sul giovane Michel. Un altro aspetto che ho molto apprezzato è che laffaire “Calciopoli” è trattato in modo fedele, quasi cronachistico, da parte dei registi, mentre la visione interna e l’impatto emotivo sono lasciati, esclusivamente, alla viva voce degli intervistati, ovvero, di coloro che l’hanno vissuta dal “di dentro”. Decisamente, un film ben fatto e molto interessante. Ovviamente, nasce come tributo ai tifosi juventini; ma non mi sento d’escludere che, anche chi fosse tifoso di altre squadre o, addirittura, chi fosse indifferente al calcio, non possa trovarvi spunti di riflessione profondi, che vanno ben oltre lo sport stesso. Infine, è importante ricordare che “Bianconeri – Juventus story” è anche un libro, già in vendita dal 6 ottobre, dove la storia della “Vecchia Signora” è narrata in maniera emozionante e di grande impatto visivo, naturalmente, aggiornata fino all’ultima straordinaria stagione.

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“LETTERE DA BERLINO”: UN CAPOLAVORO DI REGIA E INTEPRETAZIONE

di Elisa PediniDal 13 ottobre al cinema, “LETTERE DA BERLINO”, il toccante film dell’attore e regista svizzero Vincent Pérez. La pellicola è tratta dal libro “Ognuno muore solo”, di Hans Fallada, che, a sua volta, nasce da una storia vera: da un dossier della Gestapo su una coppia di coniugi come tanti, due operai, Otto ed Elise Hampel, giustiziati nel 1942 per aver diffuso materiale anti-nazista. Una regia, magistrale e sapiente, trasla in linguaggio cinematografico, la vita di questa famiglia berlinese e tutto quello che consegue dalle loro azioni. “Lettere da Berlino” è un film profondo, coinvolgente, intelligente, da non perdere e da gustare sin dalla prima inquadratura. La trama, purtroppo, è storia e sappiamo già come va a finire, inutile illudersi che dentro un regime ci sia spazio per le idee, per l’individuo, per il dolore. Tuttavia, tanto per il libro quanto per il film, è come il materiale viene trasmesso al pubblico che conta. Qui, la regia, gioca un ruolo fondamentale. Si prende sulle spalle la pesante responsabilità di farsi muta relatrice d’un nazismo, che non è quello dei lager e delle stragi di massa, ma è quello dello stillicidio quotidiano, giocato tra terrore, delatori, umanità e vita di tutti i giorni della gente comune. Caratteristica primaria e geniale di “Lettere da Berlino”, è che la telecamera è sempre l’occhio dello spettatore, sempre. Le emozioni inconsce, che si provano, guardando questo film, sono, esattamente, le stesse, che si provano di fronte alla Storia: dolore, rabbia e soprattutto, impotenza. Quello che sta davanti ai nostri occhi è già accaduto, in un passato, che non è remoto, ma, che, è comunque “stato” e come tale, è immutabile. La telecamera è l’occhio impotente di chi guarda. Sfruttando tutta la gamma delle inquadrature, il regista relega lo spettatore, lì, sulla sua poltroncina. Essere umano e testimone, muto, della stessa violenza umana, senza scampo e senza diritto di replica. Persino nei dialoghi tra i personaggi, il punto di vista è sempre quello dello spettatore. Un occhio che indaga, che scende nello sguardo dei protagonisti e da lì nell’anima, disperata e disperante, di chi ha perso il bene più caro; ma, proprio in questa perdita, ritrova la sua dignità, la sua identità d’individuo, la sua libertà. Tuttavia e qui subentra il tocco del genio, quella telecamera, rapida entra in soggettiva nei momenti cruciali, nei momenti interiori, quelli che, la Storia, non può raccontarci, ma l’anima, si. Ora, vi prendo per mano e vi porto nel film, proprio dal punto di vista tecnico, solo l’inizio, lo spazio non mi concede d’indulgere oltre, né posso stressare la vostra pazienza; ma, mi piace che, davanti al grande schermo, voi ritroviate queste parole e prestiate attenzione alle emozioni interiori e al lavoro della telecamera. Il film si apre con un bosco dalla vegetazione lussureggiante, d’un verde brillante. Una brezza, leggera e calma, accarezza gli arbusti. Quiete e un dolce stormir di fronde. Un sorriso affiora sulle labbra, perché è una sensazione di pace profonda, quella che il nostro cervello registra. Ma i tempi sono ben calibrati: nell’esatto istante in cui, questa emozione viene realizzata, la corsa disperata d’un soldato, giovane e bellissimo, squarcia quel silenzio, devasta quella quiete. Poi, uno sparo e un altro e quella vita, si spezza. Cade rivolto al cielo. Mentre la battaglia impazza, l’inquadratura “muore” sullo sguardo d’una giovane vita che finisce e che vola fra le cime degli alberi, che non sono più quiete, ma agitate e sbattute da un vento forte. È il vento della guerra, che si combatte ai loro piedi. Quegli alberi sono come noi: testimoni impotenti. Intanto, a Berlino, gli strilloni gridano alla vittoria. La Francia è stata battuta e il Reich impera. Festa per le strade. Euforia. Non per tutti. La postina Kluge sta andando a recapitare una lettera della posta militare, battuta a macchina. È per la famiglia Quangel. Lo spettatore è sempre lì, a fare da censore muto del dolore, che trascina la postina sulla sua bicicletta, verso la casa dei Quangel, persone che lei conosce e cui deve recapitare la peggiore delle notizie. Per lo spettatore è chiaro che ha a che fare con quel ragazzo morto. È qui, che si comincia a deglutire a fatica. Anna Quangel va ad aprire e ritira la lettera. Trema, ha già capito. Come noi, del resto. Noi, spettatori, che alla morte del figlio abbiamo assistito. Noi, che c’eravamo. Va in cucina, una stanza illuminata, ma i colori sono freddi. Non il maglione di lei, non il cuore d’una madre. Dal buio dell’altra stanza, arriva Otto, il marito. Dal buio alla luce. Dal silenzio al grido. La telecamera entra in soggettiva e diventa gli occhi di Anna, sulle sue mani tremanti di madre, che straccia la busta e legge. Hans, il loro unico figlio, è morto. Da eroe, dice la missiva, per il Führer. Ma questo, non può dare conforto a due genitori. Anna e Otto, non sono iscritti al partito, ma, come tutti, devono convivere col regime. Otto è capo officina in una fabbrica di bare, dove troneggia il poster propagandistico all’arruolamento. Il primo piano americano ci mostra un Otto, attonito e devastato, di fronte a quella scritta: «Auch du» (anche tu). Come la Fenice rinasce dalle sue ceneri, così, Otto e Anna, dalla morte interiore, riaffermano il loro diritto alla vita, alla libertà. Per Otto e Anna, è giunto il tempo della verità. La trasformazione interiore di quest’uomo è scandita magistralmente. Le soggettive, che v’invito a notare con particolare cura, come, per esempio, quella di Otto sul libro del figlio e sulla cartolina del Führer, che diventa «Der Lügner» (il bugiardo), servono proprio a portarci dentro l’anima dei due protagonisti, ad andare oltre la Storia. Otto e Anna cominciano la loro rivoluzione silenziosa. La rivoluzione più temuta da qualsiasi regime: quella delle idee. In due anni, dal 1940 al 1942, scrivono 285 cartoline, la loro «Freie Presse» (stampa libera), che disseminano per Berlino, dapprima negli uffici e poi, ovunque nella città. Quasi tutte, però, finiscono nelle mani dell’ispettore Escherich. Non vi dico altro, ma ci sarebbe tantissimo da dire su questo film. “Lettere da Berlino” è un capolavoro che va visto. Il finale simbolico, ci passa un messaggio forte e preciso: le idee non muoiono mai e scavano solchi profondi. Il pensiero è l’unica caratteristica, squisitamente umana, che può volare. Infatti, proprio come gabbiani, le idee turbinano nel loro volo libero.

La fotografia, affidata al maestro Christophe Beaucarne (Tournée, Coco avant Chanel-l’amore prima del mito, Dio esiste e vive a Bruxelles), incanta come sempre. Semplicemente impeccabile e non avrebbe potuto essere diversamente, l’interpretazione d’un grande cast: Emma Thompson nel ruolo di Anna Quangel, Brendan Gleeson in quello di Otto Quangel e Daniel Brühl nella parte dell’ispettore Escherich.

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“DOMANI”: il futuro è possibile

di Elisa PediniDal 6 ottobre nelle sale cinematografiche italiane, “DOMANI”, l’importante film sul nostro futuro, per la regia dello scrittore francese Cyril Dion e dell’attrice e regista Mélanie Laurent. Pellicola intelligente, coinvolgente, comprensibile, incisiva. “Domani” va visto, assolutamente. Ci chiama in ballo tutti e ci mostra in modo, a dir poco, inequivocabile, che tutti noi, ma proprio tutti, possiamo e dobbiamo, fare qualcosa. Il nostro pianeta è la nostra casa. Saremmo l’unica specie animale, con pretese di superiorità, tra l’altro, che si auto-estingue. In tanti anni di carriera, non mi era mai successo che, alla fine d’una programmazione per la stampa, la platea esplodesse in un applauso spontaneo e unanime. Eppure, tant’è. Questa è una pagina di critica cinematografica, dunque, non indulgerò in commenti che esulino da tale contesto, ma, fedele a me stessa, non vi lesinerò la verità, per cruda ch’essa sia. Sono lieta d’avere lettori intelligenti, che sapranno trarre le loro conclusioni e andranno a vedersi il film per iniziare, da oggi, a costruire il “Domani”. Dagli ultimi studi scientifici, la situazione del nostro pianeta è apparsa inquietante. L’uomo sta giungendo all’autodistruzione di se stesso. Quello che ha preoccupato maggiormente gli studiosi e che ha spinto i registi a dar vita a questo incredibile prodotto cinematografico, è la totale indifferenza della gente. Se, fino a ieri, la scusa era quella di dire che mancava l’informazione, bene, oggi, ve la stiamo dando: i miei colleghi ed io, in prima persona e i registi per mezzo di questo film. Vi avviso subito che non è un film per ambientalisti, ma per “cittadini”, che è molto diverso. “Domani” è una pellicola intelligente, che ci obbliga a prenderci le nostre responsabilità sulle spalle, senza alibi e con coraggio. I cambiamenti che stanno avvenendo alla nostra terra sono rapidi e preoccupanti. Il messaggio di “Domani” è chiaro: se non agiamo subito, tra un paio di decenni, ci ritroveremo come i dinosauri. Mi piace far riflettere sul fatto che, mentre i dinosauri si sono estinti per mutazioni naturali e climatiche del tutto indipendenti dalla loro volontà, noi, ce la saremo andata a cercare. La crescita demografica ha fatto triplicare la popolazione. Siamo in troppi. Il nostro pianeta è stato sfruttato eccessivamente e le risorse naturali sono finite. Mi dispiace informarvi che non è uno di quei film catastrofici da botteghino, è la realtà dei fatti. Mi dispiace, anche, dirvi che gli alieni non c’entrano niente e che sterminarsi tra di noi, non è la soluzione. “Domani” analizza tutti i settori della nostra vita: agricoltura, energia, economia, politica, o meglio, democrazia e istruzione. Dopo aver presentato la situazione attuale del nostro pianeta, il film ci propone, con lucidità e obiettività, le soluzioni, che ci sono e che sono già state adottate. Basta ascoltare e applicare. Personalmente, l’ho fatto, nel mio piccolo, il giorno dopo aver visto il film. Vi porterò solo alcuni esempi tratti dal film, ma le frasi le riporterò fedelmente. Cominciamo, per esempio, riflettendo su quanto possiamo fare in campo “agricolo”. Ammetto che ignoravo che il 70% del cibo fresco ci provenisse dai piccoli agricoltori, perché, in realtà, l’agricoltura industriale non è assolutamente in grado di rispondere ai fabbisogni poiché depaupera il suolo e dunque, le colture non possono essere variegate. A Detroit, hanno dato una svolta. I cittadini, piuttosto che andarsene e abbandonare la città, si sono rimboccati le maniche, dando così vita all’«agricoltura urbana». Hanno cominciato a coltivare le aree abbandonate, i giardini tra le case, le aiuole. I terreni incolti sono stati dati in gestione alla popolazione, che, con amore e dedizione, se li coltiva. «Bisogna cominciare da dove si è: dalle proprie case, dalle proprie strade. Solo così si può cambiare.», ci dice una signora. Oggi, hanno tutti i cibi freschi in tavola, a disposizione gratuitamente di tutti e a km0. Certo, «ci vuole una gran forza di volontà, non è un lavoro facile, è duro, ci si sporca e va conciliato con la vita di tutti i giorni.», afferma un ragazzo. Magnifico, ho pensato, basterebbe un po’ di senso civico in più e si potrebbe fare anche qua. Posso dirvi che io ho un piccolo balconcino, fino a ieri del tutto inutile, che è diventato la sede del mio piccolo “orto urbano”, perché nel film spiegano i principi e danno le fonti per approfondire. Parliamo, ora, di energia. Il cambiamento climatico dovuto all’inquinamento, sta mutando radicalmente il ciclo dell’acqua, con conseguenze catastrofiche. «Sole, acqua, vento, geotermia sono tutte fonti d’energia gratuita e inesauribile» per questo «Bastano piccoli operatori per gestire, non servono certo colossi. Basta volere e attivarsi.» Di nuovo, torna il concetto, su cui mi piace insistere: «volere e attivarsi». L’Islanda ha già centrato l’obiettivo: indipendente al 100%. Molti altri sono gli esempi prodotti di chi ce la sta già facendo, o di chi, per esempio, potrebbe farcela benissimo. V’invito a fare molta attenzione a ogni singolo intervento. Le riflessioni che solleva il film, fotogramma dopo fotogramma, sono innumerevoli e davvero importanti. Soprattutto, per noi, per la nostra realtà nazionale. Molto interessanti e istruttivi anche gli aspetti dell’economia e dell’imprenditoria, che vi lascio scoprire; mentre, mi piace attirare la vostra attenzione su quanto vedrete relativamente al concetto di “democrazia” e agli esempi apportati. Vi cito solo due frasi: «Dobbiamo tutelare l’unico potere che abbiamo: quello popolare» e «Troppi soldi e troppo potere sono deleteri e portano alla corruzione». Qui, una riflessione in nome del popolo sovrano, direi, che sia piuttosto obbligatoria. V’invito, in particolare, a prestare attenzione alla realtà islandese. Concludo, con un altro aspetto d’estrema d’importanza: l’istruzione. «Non siamo un paese ricco, la nostra forza è l’istruzione». Ecco, è su questa frase che vi lascio riflettere e che rinnovo l’invito a non perdere, assolutamente, questo film. Lasciatevi prendere da una fotografia decisamente seducente, ridete delle battute, fatevi sedurre dalle idee, ma soprattutto, riflettete e laddove possiate, agite. Mi piace pensare un “Domani” per i nostri figli, che comincia dal nostro «volere e attivarsi», oggi.

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