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LA COPPIA DEI CAMPIONI”: UNA STORIA D’AMICIZIA E DOLCEZZA

di Elisa Pedini – Presentato oggi alla stampa il film “La coppia dei campioni”, in uscita domani, 28 aprile, del regista Giulio Base, che, per la seconda volta, si cimenta in una commedia tutta all’italiana. La prima, lo ricordo, era stata “La bomba”, commedia del 1999, ultima interpretazione di Vittorio Gassman. Base è uomo di cultura e spessore molto profondi, nonché professionista poliedrico ed eclettico: attore, sceneggiatore, regista, produttore. La sua regia e per conseguenza, la sua cinepresa, non sono mai né superficiali, né scontate e la commedia “La coppia dei campioni” rappresenta queste sue caratteristiche. Pellicola simpatica, comica, ironica, onesta, ma, soprattutto, come afferma lo stesso regista in conferenza stampa, un film «d’amicizia e dolcezza» e aggiunge che «è la storia di due anime che, nel cercare un posto, diventano quasi amici». Non immaginatevi, dunque, la solita commedia e non immaginatevi un film sul calcio. I protagonisti principali sono Massimo Boldi, nel ruolo del dottor Fumagalli e Max Tortora, che interpreta Zotta. Un nuovo “tandem” del cinema, perché sono per la prima volta insieme sul grande schermo. Eppure, sembrano fare coppia da sempre. Il loro affiatamento è fortissimo. Boldi definisce questo film «una novità, una sfida» perché «i miei film sono sempre usciti a Natale o a metà novembre – afferma – quindi è una novità quest’uscita a tarda primavera». La trama è già divertente di suo: due impiegati della stessa multinazionale vincono in premio i biglietti e il relativo viaggio, per andare a vedere la finale di Champions League a Praga. L’uno, dirigente di Milano, tale dottor Piero Fumagalli, in realtà, non lo vince, lo estorce al suo subordinato e così, da subito, si delinea la personalità del primo protagonista. L’altro, magazziniere di Roma, Remo Ricci, detto Zotta, invece, lo vince. Due anime opposte, due mondi agli antipodi. Spocchioso, pieno di soldi e convinto che tutto si possa comprare, il primo; persona normale il secondo, con un lavoro normale e tutti i problemi della vita quotidiana che ha un’altrettanto normale famiglia italiana di questi tempi. Lo spettatore non ci mette che qualche scena a comprendere che il primo, in realtà, deve tutto, nonché il posto di lavoro, al matrimonio che ha contratto con una contessa; mentre il secondo, sarà anche umile, ma ha studiato e ha una cultura: cita Wagner, Beckett, parla inglese. I due s’incontrano all’imbarco in aeroporto. L’antipatia è immediata. Il viaggio inizia, ma non tutto va come dovrebbe: causa maltempo, l’aereo deve effettuare un atterraggio di fortuna in Slovenia. Per Fumagalli e Zotta comincia una “frequentazione” forzata, che si dipana in tutta una serie di comici aneddoti per riuscire a raggiungere Praga. La commedia è decisamente riuscita e non vi dico altro, lascio a voi il piacere di gustarvela. Mi piace, però, sottolineare le parole di Giulio Base in conferenza stampa, che, con l’umiltà che caratterizza le grandi menti, dice del suo film: «Volevo raccontare solo una storia d’amicizia. Il film non ha pretese d’essere diverso da quello che si vede. È un film onesto. Una storia d’amicizia e di dolcezza.» In realtà, secondo me, il film è condotto con grande delicatezza e maestria ed è ricco di citazioni importanti. L’ho premesso: non è la solita commedia. In particolare, è curata la nascita di questa amicizia, nonostante le differenze e le opposizioni. Ci sono profonde umanità e dolcezza nella premura con cui Zotta corre in soccorso di Fumagalli dopo la sua “notte brava” e anche in quello “scusa”, che, quest’ultimo, grida al suo compagno, quando si rende conto che, di fatto, il suo “quasi amico” è un amico. Ritengo sia superfluo parlare dell’esecuzione dei due protagonisti. Massimo Boldi è un “must”, ormai, del cinema italiano. Che piacciano o no i suoi film, è un dato di fatto ch’egli sia invitto sul grande schermo dal 1975. Eppure, quando gli chiedo il segreto del suo successo, abbassa lo sguardo e risponde: «Non lo so! Avevo una grande passione e ne ho fatto la mia professione. Ma, mai avrei pensato… È capitato. È capitato e basta!». Da questa risposta, non stupisce come gli riesca bene interpretare la dolcezza di questo film. Max Tortora, non è certo da meno essendo sugli schermi, televisivi prima e cinematografici poi, dal 1990. Sopra ogni cosa, però, non si può non ammettere che il connubio Boldi-Tortora non funzioni all’unisono e non dia seriamente quel “quid” in più a una pellicola, di per sé, già molto apprezzabile. Interrogati a riguardo, i due attori s’esprimono così: «Lavorando con Massimo – afferma Max Tortora – ho potuto constatare di persona e quindi, scoprire, tutti i registri di cui è capace. A seconda di quello che serve, lui è in grado di tirare fuori il meccanismo giusto. Sarà che io sono musicista autodidatta e lui è un ex batterista, ma definirei la nostra intesa: musicale». Boldi annuisce e aggiunge: «Si c’è forte intesa, anzi, c’è musicalità perfetta. (ride) Siamo malati di Dallarite! (si riferisce a Toni Dallara, n.d.r.) E partiamo a cantare, ovunque!» Ed è vero, perché partono a cantare anche in conferenza stampa, suscitando l’ilarità di noi giornalisti presenti. Un binomio che funziona davvero e che fa sperare in una prolifica collaborazione futura.




“TRUMAN”: QUANDO UN AMICO È PER SEMPRE

di Elisa Pedini – Dal 21 aprile sarà nelle sale italiane “Truman” del regista catalano Cesc Gay. La particolarità della sua regia è proprio quella di mettere in risalto, in modo molto naturale e realistico, le sfumature e l’introspezione dei rapporti umani con delicatezza e humour. Già in “Una pistola en cada mano” del 2012, dove peraltro ritroviamo la triade Gay-Darin-Cámara, questo regista s’era fatto apprezzare proprio per la sua grande capacità di descrivere plurime realtà attraverso la molteplicità delle relazioni umane. “Truman” è una pellicola intelligente, toccante, profonda. Una perla di maestria, sia dal punto di vista della regia che dell’esecuzione, pronta a ribaltare l’anima anche del pubblico più esigente e duro. Amo definire questo regista un “impressionista del grande schermo” perché  riproduce le sensazioni e le percezioni umane, con tocchi veloci e delicati, ma precisi come un bisturi, “disegnando” una tela perfetta giocata tra i contrasti di luci e ombre dei colori puri, forti e vividi dell’anima umana. Cesc Gay analizza i fili che reggono le relazioni umane, proponendo dialoghi e situazioni molto reali sia nelle parole, che nelle dinamiche, che nella gestione delle inquadrature. Ogni dettaglio non è casuale, ma riproduce, esattamente, le conversazioni tra congiunti, amici o parenti che siano: i timori, il detto e il non-detto, i silenzi, gli sguardi, le sospensioni: ovvero, quegli istanti in cui si sta parlando con una persona cui si tiene, ma l’emozione blocca le parole in gola, ma l’altro, che ci conosce, capisce comunque. Nella regia di Cesc Gay, persino i pensieri parlano. La sua telecamera è una mano delicata e rispettosa che raccoglie il cuore dei protagonisti per metterne a nudo l’anima. È delicata come cristallo la materia che manipola e proprio per questo non tralascia mai la levità, l’ironia e lo humour. D’altronde, nei rapporti umani è così: mai e poi mai si vorrebbe far del male a chi si ama e allora si cerca di dire le cose, anche le più dure, in modo sincero, ma dolce e gentile. Si entra in punta di piedi dentro l’anima di qualcuno. Proprio questa è la delicatezza che usa Cesc Gay e che ritroviamo in modo potente in questo film. La trama di “Truman” è impegnativa: tocca tasti gravi come la malattia e la morte; ma, sopra tutto e tutti, resta la capacità umana di provare emozioni, resta la forza dell’amicizia, resta il rispetto profondo per l’anima umana. Julián è un affermato attore argentino che vive a Madrid: estroso, bohémien, separato, con un figlio che studia ad Amsterdam. Vive la sua vita da single “Don Giovanni” in compagnia del suo amatissimo Truman: un bullmastiff che lui considera il suo secondo figlio. Qualcosa, però, cambia nella vita patinata di Julián: un verdetto nefando e un futuro che svanisce. Sua cugina Paula ne avvisa il migliore amico di Julián, Tomas, professore madrileno che si è trasferito a vivere in Canada. Posato, responsabile, pragmatico, Tomás ha formato la sua famiglia, solida e stabile, e insegna all’università. Non esita a volare dall’amico. Nel suo cuore cova la speranza che la sua vicinanza possa cambiare la situazione, ma, ben presto, comprende che tutto è, invece, segnato. Tutto è deciso. Il grande cruccio di Julián è trovare una famiglia che si prenda cura di Truman, con amore e dedizione, quando lui non ci sarà più. Non vi dico altro sulla trama, perché è un film da vedere, da vivere e da gustare. Aggiungo solo che i due amici passano quattro intensi giorni insieme vivendo tante situazioni e incontrando le possibili famiglie adottive per Truman. I dialoghi sono la vera chiave portante. La comunicazione è un dono squisitamente umano ed è proprio comunicando che le persone attivano le interrelazioni tra loro, scambiandosi emozioni, idee, intese, disaccordi. In particolare, fra battute, scherni, scambi d’opinione, silenzi d’una profondità sconcertante, lo spettatore viene portato dentro l’anima dei protagonisti. Non si sfugge alla regia di Cesc Gay. Mi sono ritrovata a sentire dentro le vibrazioni delle paure, degli abissi, dei protagonisti, anche quando le medesime venivano solo sottintese e non esplicitate. Senza neppure accorgermene, mentre ridevo delle battute che normalmente si scambiano due grandi amici, le lacrime mi scendevano. Potevo sentire, attraverso quei dialoghi e quegli sguardi, i sentimenti interiori dei protagonisti, i loro diversi modi di vedere e d’approcciare la drammaticità degli eventi. La delicatezza e il rispetto tipici della regia di Cesc Gay, in “Truman” trovano il loro compimento perfetto. Pellicola preziosa, intensa, significativa che tiene lo spettatore con gli occhi incollati allo schermo fino all’ultimo secondo. Fino all’ultimo struggente saluto all’amico Truman. Magistrale e penetrante l’interpretazione di due colossi della cinematografia spagnola come Ricardo Darin, che interpreta, con incredibile naturalezza, la drammaticità del personaggio di Julián e Javier Cámara, nel ruolo del grande amico Tomás. Non per altro, entrambi vincitori del premio Goya per “migliore attore”. Parlando d’interpretazione magistrale non posso certo non menzionare un attore davvero speciale: Troilo, lo splendido bullmastiff nella ineguagliabile parte di Truman, che da il nome al film.

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“NEMICHE PER LA PELLE”: IL CONNUBIO DEGLI OPPOSTI

di Elisa Pedini – In uscita nelle sale italiane da oggi, 14 aprile, il film “Nemiche per la pelle” del regista Luca Lucini. Commedia brillante, divertente e ironica da non perdere assolutamente per passare 92 minuti in allegria. La sapiente regia di Lucini ci ripropone la contrapposizione di due personaggi, che sono, in verità, più dei caratteri molierianamente intesi, incarnando ed esasperando un aspetto ben preciso della società moderna. Proprio dalla contrapposizione di due esacerbate personalità, improbabili proprio perché eccessive, scaturisce l’umorismo e la comicità di questa pellicola. Di per sé la trama non ha nulla di particolarmente comico, anzi: due donne, Lucia e Fabiola, si conoscono da anni e si odiano profondamente. La prima è la ex moglie dell’attuale marito della seconda: Paolo. Sono totalmente agli antipodi: tanto è pragmatica, realista e donna d’affari Fabiola, quanto è idealista, sentimentale e sognatrice, Lucia. Da sempre si contendono l’affetto e le attenzioni di Paolo, che, però, muore, lasciandole entrambe. Questo avvenimento drammatico porta alla luce un grande segreto dell’uomo: un figlio, avuto con una terza donna. Inoltre, Paolo, che, con loro due, di figli non ne aveva mai voluti, forse, colto da un sentore di quanto sarebbe potuto accadergli, ha lasciato al suo amico e avvocato Stefano, nonché gestore delle ingenti finanze di Fabiola, una lettera con le sue volontà. Le due donne dovranno prendersi cura, congiuntamente, del bambino: Paolo Junior. Lucia e Fabiola, ambedue inadeguate alla maternità, animate, inizialmente, sia dall’antico astio che da questioni ereditarie, quindi, economiche, iniziano, così, un viaggio dentro se stesse e dentro questa maternità tardiva e inattesa. Entrambe assorbite dalle loro vite: Fabiola ha i suoi affari, mentre Lucia ha le sue “crociate” e il suo amore con l’immaturo e artista fallito,Giacomo, si troveranno a dover fare i conti con una realtà nuova, che le spiazza e le terrorizza. Proprio quando il bambino comincia a far breccia nei loro cuori, ecco che accade qualcosa di totalmente imprevisto, scombussolando ancora di più la vita e i sentimenti delle protagoniste. Lucia e Fabiola saranno allora costrette, per la prima volta, ad unire le forze, passare del tempo insieme; diventare, piacenti o no, alleate. Scopriranno così, oltre tutte le evidenti e buffe differenze, che c’è qualcosa che, forse, in fondo, le accomuna. In questa fase entra in gioco un’altra caratteristica di Lucini: il suo tatto delicato. La telecamera quasi accarezza i volti e le vite dei suoi “caratteri”, facendo loro cadere la maschera e portandoli, totalmente, quanto inesorabilmente, sul piano della realtà. Dove nulla è sempre tutto bianco, o tutto nero; ma al contrario esistono tante sfumature di colori, di toni, di personalità, di sentimenti. Sempre tipico della sua regia è il non tralasciare mai lo humour, che consente di mantenere i toni molto leggeri, anche nei momenti di maggiore tensione. Tra battute, battibecchi, situazioni improbabili, “Nemiche per la pelle” scorre via in modo davvero rapido e piacevole. La semplicità degli eventi raccontati, trova il suo ritmo scandito e perfetto proprio nelle dinamiche d’incontro e scontro degli opposti, che, a loro volta, trovano il loro connubio perfetto nello sguardo ironico e bonario della telecamera di Lucini. Merito sicuramente anche dell’interpretazione, che ci mostra una Margherita Buy, nel ruolo di Lucia e una Claudia Gerini, nella parte di Fabiola, squisitamente calate nell’incarnazione esacerbata dei loro personaggi e che riescono a rendere, con altrettanta forza, il cambiamento. Supportate da Paolo Calabresi, che interpreta l’avvocato Stefano e di Giampaolo Morelli, nel ruolo di Giacomo, ricalcando il suo personaggio tipico: del ragazzo bravo, ma immaturo e pieno di sé, che se combina qualcosa nella vita è più per caso che per volontà sua.

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CODICE 999 – BELLO MA SENZA TROPPI ENTUSIASMI

di Elisa PediniDal 21 aprile nelle sale italiane l’atteso film “Codice 999” del regista John Hillcoat, che torna, dopo qualche anno, dietro alla telecamera. Pellicola feroce, cruda, serrata, ricca d’azione, di sparatorie e di violenza. Sicuramente concepita e votata ad alti incassi, ma, francamente, non mi convince e vi spiego perché: nonostante certi aspetti mostrino delle varianti su tema, essi, non sono sufficienti a uscire dai cliché del genere, che il film ricalca in pieno. Ne riconosco i lati innovativi, primo fra tutti, l’ambientazione che, questa volta, è Atlanta: città sicuramente poco sfruttata a livello cinematografico. Inoltre, un’altra scelta coraggiosa, è costituita dal portare in scena una realtà malavitosa ben poco nota: ovvero quella della criminalità ebreo-russa, la cosiddetta “mafia kosher”, gruppi criminali, molto potenti negli Stati Uniti, che si sono fatti strada col traffico d’armi. Una “cupola” così terribile, che, nel film si sentenzia, lo stesso Putin teme. Infine, l’aver coinvolto nel film veri membri delle gang di latinos che governano interi quartieri della città. Nonostante tutto questo, la trama ci propone, per l’ennesima volta, il solito manipolo di poliziotti ed ex membri dell’esercito, corrotti e avidi, il di cui capo, Michael Atwood, è tenuto in pugno da Irina Vlaslov, spietata boss della mafia russo-israeliana, con il solito bambino, usato come oggetto di ricatto. Questo è il mezzo primario utilizzato per far leva sull’uomo, al fine di fargli fare tutti i lavori sporchi di cui la mafia necessita. Oltre, naturalmente, a tutta una serie di violentissime iniziative volte a convincere il manipolo di corrotti a restare compatto. Il film si apre con un’audace rapina in banca che termina in una cruenta sparatoria in autostrada. Il sergente Jeffrey Allen è incaricato d’indagare sul caso, mentre il suo nipote prediletto, onesto e ingenuo, finisce per diventare il nuovo partner di uno dei poliziotti corrotti. Quella, doveva essere l’ultima impresa sporca e invece, al manipolo di corrotti, viene imposta un’ulteriore missione, solo che, stavolta, è impossibile da portare a termine: una rapina al dipartimento di sicurezza interna. L’unico modo per tentare d’eseguirla è provocare un codice 999: ovvero, l’omicidio d’un poliziotto. Tale atto comporterebbe il convergere di tutte le pattuglie sul luogo del delitto con assoluta priorità, aprendo una contestuale caccia all’assassino. Tutto questo caos, consentirebbe un tempo maggiore per la rapina, che passerebbe in secondo piano, con conseguente ritardo d‘intervento delle forze dell’ordine. Da questa decisione si dipana tutta l’azione del film, fra solite bande, soliti quartieri malfamati e solite prostitute da trivio. Fra casualità, avidità, tradimenti e drastiche soluzioni per togliere di mezzo chi diventa scomodo. Quella che, a mio avviso, potrebbe essere la parte interessante della trama e cioè l’indagine sull’identità di questa banda, che imperversa facendo crimini e mostrando un’elevata preparazione tecnico-tattica, è messa, in verità, troppo in secondo piano per dare un reale valore aggiunto. Quelli che seguono le indagini sono poliziotti onesti, ma indolenti, lenti, alcolizzati e non danno vera linfa vitale, né un quadro tanto positivo, al dunque. In conclusione, a me, che i cliché lasciano del tutto indifferente, questo film, non convince. Certamente, nulla va tolto al ritmo, spettacolarmente serrato, all’ambientazione realistica, né alla dose di crudeltà ben gestita e che da corpo alla tematica più che rispondente al genere cui la pellicola appartiene. Nulla va tolto alla regia sapiente e straordinaria di Hillcoat, che si conferma maestro delle riprese, laddove cieli plumbei e luoghi cupi accompagnano l’atmosfera di congiura e corruzione. Nulla da dire neppure dal punto di vista dell’esecuzione, semplicemente ineccepibile, potendo contare su straordinari interpreti come: Casey Affleck, Chiwetel Ejiofor , Woody Harrelson, Aaron Paul, Norman Reedus, Gal Gadot, Teresa Palmer, Anthony Mackie e un’eccezionale Kate Winslet. La mia perplessità è puramente “tematica” e non certo tecnica. Gli amanti del genere saranno assolutamente soddisfatti e non ho remore nel consigliare loro di gustarsi il film dall’inizio alla fine. Quelli che, invece, fossero stanchi delle solite trame trite e ritrite, sappiano che non vedranno nulla di particolarmente innovativo. Una pellicola “da cassetta” assolutamente ben fatta; ma che, a mio parere, non porta alcun valore aggiunto al panorama cinematografico contemporaneo.

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CRIMINAL: UN FILM CHE VI RIMARRÀ NELLA MEMORIA

di Elisa PediniDal 13 aprile al cinema, “Criminal” il nuovo film del giovane regista israeliano Ariel Vromen. Dopo aver raccontato in “The Iceman”, del 2012, la storia vera d’un efferato serial-killer, che lo ha imposto agli onori della critica, Vromen torna, dietro alla cinepresa, con un action-thriller davvero notevole. Pellicola assolutamente da vedere: coinvolgente, originale, anticonformista e provocatoria. “Criminal” è un film che mi sento di definire: impressionante. La scienza e la ricerca scientifica sono, di fatto, il tema portante. Due le capacità umane esaltate: quella d’inventare e quella di ricordare. Sublime.

Siccome voglio accompagnarvi nella mia lettura del film e di ciò che ho molto apprezzato, mi è necessario, innanzi tutto, introdurvelo e dunque, raccontarvi la trama. La storia narrata è semplice e lineare: Heimbahl, un anarchico fanatico e folle, vuole appropriarsi di un wormhole in grado di forzare il sistema di difesa americano comandandone le armi a piacimento. Tale programma è stato ideato dal giovane e geniale hacker Jan Strook, detto “l’olandese”, il quale, però, non ha alcuna intenzione di farlo cadere nelle mani dello psicopatico Heimbahl, essendo ben cosciente delle conseguenze nefande che ciò comporterebbe. Fa, dunque, un accordo con la CIA. Il suo tramite è William Pope, l’unico perfettamente al corrente di tutti i dettagli della situazione e che nasconde “l’olandese” per proteggerlo. Heimbahl trova Pope. Lo tortura, nel tentativo d’avere informazioni, ma, l’agente, non parla, cosa che gli costerà la vita. È qui che entra in gioco la scienza, nella persona del dottor Franks, neurochirurgo che sta conducendo esperimenti sul passaggio di memoria da un essere vivente all’altro. La ricerca è in fase sperimentale e per ora è stata solo condotta su cavie. Mancano, ancora, almeno cinque anni di lavoro perché si possa passare alla sperimentazione sugli umani. Tuttavia, il capo di Pope, Quaker Wells, non vuol sentire ragioni. La posta in gioco è la salvezza del mondo. Si deve rischiare. Serve un altro essere umano che ospiti la memoria di Pope per trovare “l’olandese” prima di Heimbahl. La CIA non ha candidati, ma il dottor Franks, si. Ha individuato in Jerico Stewart, un detenuto nel braccio della morte, il candidato ideale. Un uomo violento, pericoloso, sociopatico, totalmente privo di empatia, di sentimenti, di sensi di colpa. L’unica emozione che Jerico è in grado di provare è la rabbia, che sfoga nella violenza più bestiale e brutale. Ciò nonostante, quest’uomo, così immondo, ha le caratteristiche cerebrali idonee. L’intervento chirurgico si fa. Inizialmente, sembra non aver funzionato; ma, lentamente, Jerico comincia ad avere dei flash di una vita non sua, sempre più nitidi. Con i ricordi, affiorano in lui anche le capacità di Pope. Tuttavia, avvisa il dottor Franks, non sarà per sempre. Molto presto, tutto svanirà nella sua mente. Ricordi frammentari, insufficienti, che, però, danno il via a un doppio percorso: da un lato, il cammino interiore di Jerico che scopre affetti, emozioni e situazioni a lui totalmente ignoti; dall’altro, il tentativo di fermare Heimbahl. “Criminal” mescola alle atmosfere e ai ritmi del thriller, i passi e i marosi dell’anima, dosandoli con sapienza. Come e dove portino questi due percorsi lo lascio scoprire a voi, gustandovi il film. Ciò che mi ha colpita e su cui mi piace riflettere è, invece, l’aspetto scientifico per un verso e quello umano per l’altro. Certo, la ricerca del dottor Franks è fiction, invenzione pura. L’idea da cui, però, Vromen parte, su cui si è documentato e su cui ha costruito “Criminal” non è così infondata. Infatti, non sono pochi gli studi che trattano di “memoria”. «Mi hanno incasinato il cervello», così apre il film Jerico. È noto che, a restare impressi, siano gli eventi più significativi, quelli che hanno coinvolto le emozioni più forti ed è proprio questo che, sapientemente, Vromen ci mostra. La memoria che Jerico eredita da Pope è, esattamente, quella a lungo termine, ovvero, quella che si fissa grazie alle emozioni e alle percezioni sensoriali a essa legate. I suoi ricordi sono frammentari e privi di consequenzialità, perché sono più rievocazioni di istanti. Inoltre, è risaputo che il cervello umano non sia in grado di distinguere tra emozione provata ed emozione allucinata. Per parte mia, trovo affascinante l’idea che un giorno la scienza sia in grado di trovare un modo per “trasportare memoria”. Recenti studi scientifici condotti dall’Università di Harvard, hanno dimostrato che gli atomi hanno memoria, ovvero possono “ricordare” con precisione quello che hanno fatto in precedenza e che, pertanto, sono in grado di trattenere e trasportare informazioni. Tale ricerca si sta, a tutt’oggi, sviluppando, seppur, ben evidentemente, in campo quantistico. Da questi dati, a vedere in Vromen un precursore avveniristico del futuro scientifico ne corre, ovvio. La sua, è fiction. Sognare, invece, è lecito. Vedendo “Criminal” non si può non essere affascinati da questo “sogno”. Il secondo aspetto che mi ha colpita, come ho anticipato sopra, è quello umano. La cinematografia ci ha abituato ad avere a che fare con scienziati o ricercatori pazzi, o privi di scrupoli, o avulsi dalla realtà. In “Criminal”, Vromen ci presenta, invece, due esseri umani, geniali; ma con una coscienza e un’anima. Un hacker e un neurochirurgo, che inventano, entrambi, qualcosa di straordinario, ma che restano due persone “normali”, totalmente calati nella loro realtà. Non sono folli, né spregiudicati, anzi, si pongono delle questioni morali ben precise. L’originalità di “Criminal” trova, poi, l’apice del compimento nell’esecuzione degli interpreti, che, più che recitare, sembrano realmente vivere gli eventi. Un ritrovato e straordinario Kevin Costner, che si scrolla di dosso il grigio di parti, ultimamente, poco riuscite, divenendo interprete intenso di Jerico Stewart, affiancato da un superbo Tommy Lee Jones nei panni del dottor Franks e da un potente Gary Oldman nel ruolo di Quaker Wells. Un realistico Jordi Mollà ci coinvolge nei vaneggiamenti dello psicopatico Heimbahl, mentre Michael Pitt rende, con notevole veridicità, l’angoscia dell’hacker Jan Strook. Non sono da meno le interpretazioni di Ryan Reynolds, nella parte dell’eroico William Pope e di Alice Eve nel ruolo della giovane e bella vedova.

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“Ustica”: un dramma che vuole giustizia

di Elisa Pedini – Dal 31 marzo al cinema: il film-denuncia “Ustica” del regista Renzo Martinelli. Un film da vedere senza alcun dubbio, con la cosciente consapevolezza che quello che si vedrà, potrà essere scomodo, tagliente e per nulla compiacente. Renzo Martinelli non cerca la simpatia, cerca la verità, che non veste mai con abiti sfarzosi e falsi sorrisi; bensì, con quelli semplici, scarni e spesso cupi, della realtà. La pellicola si basa su una tragedia reale e si attiene ai fatti. Nulla viene romanzato, quello che si distanzia dai dati di fatto è dovuto solo a due aspetti: protezione della privacy di qualcuno, funzionalità cinematografica. Entrambi questi punti li spiega al pubblico direttamente il regista, Renzo Martinelli, con grande generosità e in ogni dettaglio, nell’intervista che vi propongo e che v’invito a leggere perché è davvero intensa e molto significativa. In questa mia recensione critica, mi limito al mio lavoro e vi parlerò, invece, dei fatti storici, dell’impatto emotivo durante la visione e di quello che a livello tecnico mi ha colpito.

È il 27 giugno del 1980, un velivolo Douglas DC-9 della compagnia aerea ITAVIA, parte dall’aeroporto di Bologna con quasi due ore di ritardo. Destinazione: Palermo. Visibilità ottima, viaggio tranquillo e regolare, aereo stabilizzato a 7600 metri in quota lungo la rotta assegnata: aerovia “AMBRA 13”. Tutto sembra tranquillo. L’ultimo contatto radio è con Roma controllo e la situazione è ancora regolare. Sono le 20:56, il comandante annuncia che non ci sono ritardi su Palermo e che pertanto il successivo contatto sarà con Raisi. Poi, alle 20:59:45, all’improvviso, senza lanciare alcun segnale d’allarme, il volo IH870 scompare dai radar e non risponde più ai contatti. Invano la torre di controllo dell’aeroporto di Palermo, dov’era atteso per le 21:13, reitera le chiamate. Altrettanto fa Roma. Invano. L’aereo DC-9 della compagnia ITAVIA è precipitato tra le isole di Ponza e Ustica, il punto “CONDOR”, inabissandosi nella cosiddetta “Fossa del Tirreno”, ove il fondale giunge a una profondità di oltre 3500 metri. Vi muoiono 81 persone. L’aereo è esploso in volo spaccandosi in due tronconi. Sull’accaduto furono date diverse versioni: prima fra tutte, quella del cedimento strutturale dando la colpa alla compagnia. L’ITAVIA era si in condizione di forte indebitamento e chiuse i battenti il dicembre dello stesso anno, ma, questa versione risultò da subito flebile, proprio a causa degli occultamenti e della movimentazione immediata delle alte cariche militari, che, non avrebbero proprio avuto ragion d’essere, se la causa fosse stata la cattiva manutenzione del velivolo. La seconda, fu un attentato terroristico, ovvero, una bomba a bordo, probabilmente situata nella toilette in coda dell’aereo. È indubbio che nel 1980 siamo in piena guerra fredda e che l’ipotesi d’un attentato sia plausibile. Ma, pur trovando tracce d’esplosivo, i rilevamenti porterebbero altrove, in particolare, perché gli indizi non porterebbero affatto a supportare un’esplosione dall’interno. La terza ipotesi fu un missile aria-aria, che, per errore, colpì l’aereo civile. Ma, anche qui, non furono mai ritrovati relitti d’un’arma simile. Sicuramente, l’attività aerea militare quel giorno era piuttosto intensa. Il DC-9 non volava solo. Un’intensa presenza di traffico aereo militare che fra silenzi e smentite, viene, però, inconfutabilmente confermata dai tangibili ritrovamenti che vennero alla luce anni dopo il tragico evento: tra il ’92 e il ’94. Questo metteva in evidenza, sempre più certa, la possibilità della collisione aerea. Numerosi gli articoli del periodo, molto interessanti, che v’invito a ricercare negli archivi on line.

È proprio quest’ultima versione che, il regista Renzo Martinelli prende in considerazione. Tre anni di lungo e meticoloso lavoro, a stretto contatto con due ingegneri aeronautici, durante i quali ha recuperato perizie, raccolto testimonianze, studiato le 5000 pagine dell’istruttoria del magistrato Rosario Priore, considerata chiusa nel 1999, ove, peraltro, vengono totalmente escluse le cause per cedimento strutturale e per esplosione interna. Per tre anni, Renzo Martinelli, ha disperatamente cercato, in giro per l’Europa, qualcuno che fosse disposto a produrre il suo film.

Con passione, determinazione e desiderio di verità, Renzo Martinelli, ce l’ha fatta. Nonostante le difficoltà e il budget limitato ha dato vita a una pellicola che è insieme denuncia e umanità, verità e “pietas”. Nella crudezza degli avvenimenti, riportati con lucidità quasi cronachistica, ritroviamo il pulsare delle emozioni delle vite vissute. Ero troppo piccola nel 1980 per ricordare gli avvenimenti, ne porto memoria per quello che accadde e si disse nei decenni successivi, ma sono uscita veramente scossa dalla sala. Piena d’interrogativi e con una gran voglia di sapere. Mi sono messa on line e ho cercato quello che i colleghi scrivevano nel 1980 e quello che successivamente fu scritto. V’invito, ancora, a informarvi, perché l’informazione rende liberi. V’invito a leggere, di nuovo, l’intervista al regista. V’invito, soprattutto, a non perdervi questo film, che non è fiction, neppure nel “privato”. Vi coinvolgerà, all’interno d’una cornice da favola di una fotografia che ci regala i panorami d’una natura straordinaria che vi commuoverà. Tutte riprese reali e forse per questo così pregnanti. Vi trascinerà dentro una delle realtà più oscure della storia italiana. Le scene di volo mi hanno particolarmente presa. Ho quasi potuto sentire la pressione della gravità. Una regia che veramente cura tutto, nei minimi dettagli.

A tutt’oggi, comunque, la strage di Ustica, resta uno dei grandi misteri italiani. Furono occultate e distrutte prove, come, peraltro, confermato dalla sentenza del procedimento penale che ne seguì. Innumerevoli le testimonianze date, poi confuse e poi ritrattate completamente. Due suicidi, sono stati correlati alla strage e appaiono sospetti: quello del maresciallo Dettori, presumibilmente in servizio, la notte del disastro aereo, al radar di Poggio Ballone in provincia di Grosseto e quello del maresciallo Parisi, che sarebbe stato di turno, invece, il giorno del 18 luglio 1980, data del presunto “incidente” del MIG libico a Timpa delle Magare sulla Sila. Sono moltissime le morti che Rosario Priore indicò come sospette, ma mai furono trovate prove a supporto. A tutt’oggi, sono molti gli interrogativi che restano aperti. A tutt’oggi, le vittime aspettano giustizia.

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Intervista a Renzo Martinelli. “Ustica: vi racconto cosa ho scoperto”

di Elisa Pedini – L’idea dell’intervista diretta al regista nasce dalla volontà di dare al pubblico una visione completa d’un film, dunque, non solo con l’occhio della critica, che riporta certi aspetti tecnici e le impressioni emotive che ho ricevuto nel momento in cui ho assistito alla proiezione; ma anche dal punto di vista di chi lo ha pensato e realizzato. Renzo Martinelli è un regista italiano, profondamente impegnato nella realtà della nostra terra e dei misteri, che, purtroppo, costellano le nostre cronache. Renzo Martinelli è un uomo di grande sensibilità e cultura, che non si ferma alle apparenze e usa la telecamera come strumento per vivisezionare la verità e il cinema come mezzo di divulgazione. Il suo desiderio di verità, il suo occhio clinico e la sua mente indagatrice li avevamo già apprezzati in film del valore di “Vajont”, o “Piazza delle Cinque Lune”. Ma, ora, lascio a lui, Renzo Martinelli, la parola, per parlarci di “Ustica”:

D: “Interessante la tematica scelta, che, peraltro, è tornata fortemente in auge proprio ultimamente. Hai affrontato: una mole di materiale informativo immensa e frammentaria, le migliaia di pagine dell’istruttoria, problemi economici e di produzione e tutto per realizzare questo film. Cosa ha determinato la scelta del soggetto? Qual è stato il fattore scatenante?”

R: “È il film che sceglie il regista e non il contrario, secondo me. Per esempio, mi trovavo a Erto per dei sopralluoghi per fare un film sui partigiani, quando arrivò un uomo in canottiera e bandana, era Mauro Corona. Mi parlò del disastro del Vajont. Mi portò nella sua bottega e mi diede anche un libro “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont.” (scritto nel 1963, solo nel 1983 un editore fu disposto a pubblicarlo, n.d.r.) di Tina Merlin, una giornalista che pubblicò moltissimi articoli per avvisare che la diga era pericolosa e che avrebbe causato la frana del monte Toc. Restò inascoltata (fu addirittura denunciata e processata per falso allarmismo, n.d.r.). Il monte franò. Perirono circa duemila persone. Così nacque il film “Vajont”. Per “Ustica” è accaduta la stessa cosa: il film ha trovato me. Due miei amici, ingegneri aeronautici, che sono poi quelli che mi hanno supportato per tutta la produzione, mi dissero che avevano molto materiale su Ustica. Lessi anche tutti i quotidiani che, a ridosso della strage, parlarono di collisione in volo. Ma, quattro giorni dopo, i servizi segreti erano già intervenuti mettendo in moto la cosiddetta “macchina della disinformazione”: ovvero, vennero avanzate tali e tante altre ipotesi che le acque si confusero completamente. Approfondii leggendomi tutti gli atti. Il film si basa su tutte testimonianze reali e spero che lo spunto venga raccolto da qualche magistrato per riaprire il caso.

D: “Tra fiction e realtà. Tutte le vicende private dei personaggi sono fiction?

R: “Il personaggio di Caterina Murino, Roberta Bellodi, è tratto da una persona esistente. Nella realtà è un papà, che ha perso la sua bambina nella tragedia. La sua piccola nuotava molto bene e lui s’è recato ogni giorno alla spiaggia, sperando di vederla tornare. Per tutela della sua privacy, ovviamente, il personaggio è stato cambiato. Il ruolo che interpreta Lubna Azbal, Valja, è totalmente inventato, serviva un testimone che andasse sul posto e vedesse cos’era accaduto. Il personaggio di Marco Leonardi, l’onorevole Corrado di Acquaformosa, è ugualmente di fantasia: serviva un uomo delle istituzioni che facesse da tramite tra Roma e il testimone.

D: “Relativamente al MIG-23: la fiction mette il ritrovamento del relitto e la ricerca della verità nelle mani d’una donna albanese. Come mai questa scelta?”

R: “Come si dice in gergo cinematografico, Valja nasconde dentro di sé un “fantasma”: ovvero, è il personaggio che da la motivazione personale. Lei ha avuto un’esperienza forte nella sua vita che l’ha condizionata, da cui, la sua reazione davanti alla strage. Relativamente alla scelta della nazionalità non c’è un motivo particolare. Semplicemente, a quei tempi, c’erano molte colonie albanesi in Calabria di gente che veniva a lavorare, quindi, la presenza della popolazione era molto alta.

D: “Il messaggio che viene ritrovato nel film: da dove nasce?”

R: “Dagli atti dell’istruttoria. Il messaggio è vero. Rosario Priore mette agli atti che venne ritrovata una carta aeronautica, tutta bruciacchiata, sulla quale si trovava un messaggio in arabo. Sempre agli atti viene riportata la convocazione d’un siriano nell’ufficio del generale Zeno Tascio (all’epoca dei fatti a capo del SIOS, i servizi segreti dell’aeronautica militare italiana, articoli reperibili on line n.d.r.) proprio per tradurre questo messaggio. Le parole che riporto nel film sono quelle degli atti. Il generale Tascio ritrattò tutto e il messaggio andò perduto. Infatti, all’estero, il film uscirà come “The missing paper” proprio perché, per il pubblico non-italiano, dare per titolo “Ustica” non avrebbe senso.

D: “Nella fiction abbiamo da un lato una Ragion di Stato, o meglio, una “ragion d’interesse” e dei militari sprezzanti e anche violenti, basti pensare alla reazione del soldato all’arrivo di Valja a Timpa delle Magare; dall’altro lato un militare libico con una coscienza e un’albanese che mette in gioco la sua vita per cercare la verità. Gli italiani, o tacciono, o intimano al silenzio, o agiscono su sprone esterno; ma di fatto, mai su iniziativa personale. Che lettura sottende tutto questo?”

R: “Si, Ustica è stata tutta una questione di ragion di stato. Due erano le grandi vergogne da tacere: la prima che, nonostante l’embargo americano, l’Italia permetteva il passaggio degli aerei libici usando aerei di linea italiani come scudo, la seconda che era accidentalmente implicato un aereo americano nella caduta del DC-9.
Relativamente agli italiani la visione è realistica. Oggi, il nostro, è divenuto un popolo d’opportunisti. Non c’è più indignazione. Non c’è più il senso della memoria. Si vive un hic et nunc che blocca l’azione. S’è perduto il passato e per conseguenza anche il futuro. A tal proposito è molto significativo un proverbio arabo, che cito: «Gli uomini somigliano più al loro tempo, che ai loro padri».

D: “Passiamo alla regia pura: veramente intensa, realistica, pregnante. Le scene di volo, in particolare, mi hanno davvero affascinata e so che hanno richiesto tre anni di duro lavoro in stretta collaborazione con due ingegneri aeronautici. Puoi spiegare al pubblico questo lavoro?”

R: “Certamente! Tutto il materiale doveva essere convertito in linguaggio cinematografico e soprattutto, doveva restare dentro tempi tollerabili dal pubblico. In questo caso abbiamo contenuto tutto in 104 minuti. Inoltre, il budget, già scarno, doveva essere rispettato. Le immagini digitali costano tantissimo e sono minime nel film. Le riprese sono tutte reali: del mare, delle montagne, delle nuvole e dei paesaggi. Le riprese nei velivoli sono tutte fatte dentro aerei veri, incluso un vero MIG-23. Quello che ho ricreato è una visione in soggettiva che desse allo spettatore gli occhi del pilota. Il sonoro, poi, amo curarlo moltissimo e gioca la sua parte nel dare il senso della verosimiglianza. Il suono deve essere avvolgente e totalizzante. Inoltre, distribuisco i suoni in maniera tale che seguano esattamente quello che avviene nella scena che lo spettatore sta guardando. Infine, la sceneggiatura poggia su tre passi fondamentali: il “set-up”, dove vengono presentati il protagonista, l’antagonista e la posta in gioco; la “zona centrale”, dove si sviluppano le vicende e la “conclusione”. La forza di “Ustica” è che ha un set-up molto rapido: in pochi minuti lo spettatore è completamente dentro alla storia.




“LAND OF MINE – SOTTO LA SABBIA”: NON GUARDERETE PIÙ UNA SPIAGGIA CON GLI STESSI OCCHI

di Elisa Pedini – In uscita nelle sale italiane dal 24 marzo, il film “Land of mine – Sotto la sabbia” del regista danese Martin Zandvliet, che ci riporta nel 1945, in uno spaccato storico di pochi mesi, da maggio a ottobre, ma che, emotivamente, sembrano anni. Pellicola dura, cruda, potente, detonante in ogni senso. Dopo questo film, non guarderete più una spiaggia con gli stessi occhi.

Gli eventi narrati in “Land of mine” sono decisamente poco noti e sono considerati tabù nella storia moderna danese. È il maggio del 1945, la Danimarca è appena diventata una terra libera, dopo 5 lunghissimi anni di dominazione nazista. Anni che hanno spezzato gli animi di tutti e spento milioni di vite. Il Reich, di fatto, vacilla da un pezzo, non ha praticamente più risorse umane e pur d’avere soldati, è arrivato a mandare in guerra tutti i maschi dai tredici ai novant’anni. Il regime sente il fiato delle Forze Alleate sul collo e temendo l’invasione da nord, dissemina le coste occidentali danesi con più di due milioni di mine anticarro e antiuomo. Dopo la caduta della Germania nazista, le autorità britanniche offrono al governo danese la possibilità di arruolare prigionieri di guerra tedeschi per bonificare la costa. L’amministrazione danese accoglie subito l’idea e la mette in pratica. La Brigata danese dirige e gestisce l’operazione. Peccato che, tutta la dinamica contravvenisse la Convenzione di Ginevra del 1929, secondo cui, è vietato obbligare i prigionieri di guerra a svolgere lavori forzati o pericolosi. Tuttavia, le regole vengono deliberatamente eluse, correggendo il testo da “prigionieri di guerra” a “persone volontariamente arrese al nemico”. Seppur ci sono discrepanze tra i dati danesi e quelli tedeschi, si stima che circa 2600 uomini, d’un’età compresa tra i 15 e i 18 anni, furono costretti a quel lavoro. Almeno la metà di loro rimase uccisa o gravemente lesa. “Land of mine” è tutto questo.

Ma, i dati storici sono vicende volute e provocate dall’uomo e allora non si può non tenere conto del “fattore umano” e di tutte le implicazioni interiori ed esteriori che ne conseguono. Qualsiasi tipo di regime totalitario è basato sulla violenza e sull’oppressione, concependo soltanto due posizioni: o a favore, o contro. I popoli invasi, macerati in uno stato di terrore costante e reale, vessati dalla violenza, prostrati dalla morte, covano in loro rabbia, desiderio di vendetta e sete di rivalsa. La furia di chi ha troppo a lungo vissuto e visto orrori indescrivibili, porta alla violenza più cieca nei confronti di qualsiasi persona o cosa divenga in quel momento il simbolo del nefando regime. “Land of mine” è, particolarmente, tutto questo.

È facile comprendere, dunque, come i tedeschi siano profondamente odiati. Poco importa che i soldati siano ragazzini, a loro volta mandati totalmente allo sbando e che poco abbiano capito delle disgrazie umane. Loro, con le loro divise e la loro lingua, sono solo l’emblema dell’oppressore, del nemico. Lasciati senza cibo e in alloggi, a dir poco, inadeguati. In quest’ottica va interpretato “Land of mine” ed è questo stato d’animo che, dalla prima scena del film, il Sergente Rasmussen comunica. Al grido di “questa è la mia terra”, sfoga tutta la sua cieca furia, in cui sono racchiusi tutto il dolore, la frustrazione e l’impotenza, patiti per anni. E allora mi domando se “Land of mine” non sia un pun, dove “mine” gioca il suo senso tra “mia” e “mina”, ma è un interrogativo che non so svelarvi poiché il regista non concede intervista. Di certo, c’è lo strazio dell’animo di Rasmussen che accoglie quel camion di disgraziati soldati-bambini con tutto l’odio di cui è capace. Che muoiano di fame o dilaniati da una mina non importa a lui, ancor meno alla Brigata danese e meno ancora alla popolazione. Ma, quei prigionieri, restano ragazzini e nei loro cuori portano ancora la capacità di sognare e d’immaginare un futuro quando saranno di nuovo a casa. È proprio quella parte d’innocenza, che si portano dentro, che finisce per spezzare lo “scudo” di Rasmussen, che passa dall’insultarli senza tregua, al chiamarli “ragazzi”, al parlare con loro, all’avvicinarsi, fino ad affezionarsi. Sono tutti nella stessa landa desolata, in mezzo al nulla, ognuno coi suoi mostri, le sue paure, il suo dolore. È un film che non lascia scampo. Ho sentito l’angoscia, ho patito la fame, ho avuto paura insieme ai protagonisti. Ho provato lo strazio dei ragazzi e la dicotomia interiore di Rasmussen tra l’odio per quei tedeschi e la pietà per quei giovani. “Land of mine” è un film sul dolore in tutte le sue sfumature. È un viaggio nell’anima umana. Pellicola talmente aspra che non ho retto e ho dovuto abbassare lo sguardo a ogni mina disinnescata, perché potevo sentire il terrore, tangibile, della morte. Sapientemente, una sublime fotografia supporta, per contrasto, i sentimenti evocati. Da un lato, una natura incontaminata, spiagge bianche, sabbia impalpabile, la luce del sole. Dall’altro, la cupezza della paura, del dolore, della solitudine, della morte. L’esecuzione è strabiliante: Roland Møller, che interpreta il Sergente Carl Leopold Rasmussen, si cimenta per la prima volta nel ruolo del protagonista e si mostra attore carismatico, espressivo e vibrante, in grado di comunicare chiaramente pensieri e sentimenti anche attraverso uno sguardo. Il cast dei ragazzi è davvero eccezionale, soprattutto se si considera che sono tutti dilettanti.

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