di Emanuele Domenico Vicini – Dal 2 settembre 2015 al 10 gennaio 2016 Palazzo reale di Milano ospita una mostra dedicata a Giotto (Vespignano, 1267 circa – Firenze, 1337), piccola nelle dimensioni, selezionatissima nei pezzi, ma di una qualità sorprendente, perché raccoglie capolavori giotteschi mai proposti in un solo contesto espositivo.
Quando la mostra fu annunciata, come gran finale delle esposizioni nate intorno ad Expo, molte furono le perplessità e i dubbi, non solo perché Giotto, maestro indiscusso della pittura italiana del Medioevo, star senza rivali della prima pagina della nostra storia figurativa, è un pittore paradossalmente ancora molto sfuggente, le cui opere di sicura attribuzione su supporto mobile sono davvero poche, ma anche per la complessità tecnica, essendo esposti pezzi assolutamente preziosi, come il polittico Stefaneschi, mai uscito dal Vaticano negli ultimi settecento anni.
La mostra rimane composta solo di 13 pezzi: pochi apparentemente, ma frutto di una precisa scelta dei curatori, Pietro Petraroia e Serena Romano, che non hanno battuto la strada più agevole di esporre, oltre ai capolavori giotteschi, altri pezzi coevi o in qualche modo connessi, per irrobustire il percorso, ma hanno preferito proporre solo il Giotto autentico, su cui non vi siano dubbi attributivi particolari.
In questo modo emerge la grandezza assoluta del maestro, la sua sperimentazione e la sua capacità di vivere una tradizione pittorica molto ben consolidata, aggiornandola attraverso ricerche stilistiche del tutto inedite.
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Le opere di datazione più antica sono il
Polittico di Badia e il
Polittico di Santa Reparata. Se il primo presenta ancora una serie di soluzioni di tradizione, più vicine alle consuetudini compositive del tempo (siamo tra il 1295 e il 1300), con i santi ben inquadrati nelle loro cornici, lo sguardo rivolto allo spettatore, e la Madonna al centro che regge il Bambino con i tratti del piccolo adulto, il Polittico realizzato per Santa Reparata, l’antica cattedrale fiorentina, sostituita poi dalla attuale Basilica di Santa Maria del Fiore, anche se ha la stessa struttura a comparti separati da cornici, dai quali si affacciano i santi e al centro la Madonna col Bambino, mostra già un forte senso di unità, di coesione narrativa: i santi guardano il bambino, lo benedicono, nel dialogo muto con lui, fuori di simbolo, traggono la forza della loro santità. E il bambino è finalmente nelle fattezze infantili che gli sono proprie: volge gli occhi alla madre, la accarezza, ne riceve uno sguardo colmo di tenerezza. Giotto sta traghettando la pittura sacra celebrativa di più alto profilo (perché destinata a pala d’altare di una delle principali cattedrali italiane) verso un immaginario di familiarità naturale e colma di dolcezza che non spegne la spiritualità dell’opera, ma la cala nella realtà dei sentimenti umani.
In tutte le tavole giottesche le figure si stagliano solide e precise, panneggiate con chiarezza e con un chiaroscuro molto evoluto, capace di costruire corpi solidi, evidenti, con un volume preciso che occupa spazi precisi. Anche se stagliati su fondi dorati che continuano una tradizione di gusto orientale bizantino, amatissima in Italia fino al Quattrocento per tutta la pittura su supporto mobile, i santi giotteschi sono veri nei loro gesti e nelle loro posture.
Il pezzo forte della mostra è sicuramente il
Polittico Stefaneschi, realizzato dal maestro intorno al 1320, per l’altare maggiore della Basilica di San Pietro cosiddetta “costantiniana”, quella cioè voluta e fondata dall’imperatore Costantino all’indomani dell’Editto di Milano (313 d.C.) con il quale la religione cristiana veniva resa libera in tutto il territorio dell’Impero Romano. Quell’edificio oggi non esiste più, sostituito dall’attuale Basilica di San Pietro, costruita su ordine di papa Giulio II, a partire dal 1506 e progettata da Donato Bramante. Per questo motivo il Polittico si trova ora conservato nella Pinacoteca Vaticana.
Il dipinto, commissionato dal cardinale Iacopo Stefaneschi per l’altare maggiore della basilica costantiniana, sta prima di tutto a dimostrare la posizione raggiunta dal maestro nel panorama italiano. Autore alcuni anni prima – come si è detto – di un’opera simile per Firenze, è lui a ricevere la commissione per la pala che avrebbe decorato la basilica più importante della cristianità, il fulcro della fede di Pietro, colma di capolavori di ogni epoca che testimoniano lo sforzo di ogni pontefice di celebrare e onorare la Roma cristiana.
Il polittico, che celebra i santi romani per eccellenza, Pietro e Paolo, è dipinto su entrambi i lati perché la sua collocazione prevedeva una faccia rivolta all’assemblea (quella con San Pietro in trono circondato da angeli e nei pannelli laterali San Giacomo, San Paolo, Sant’Andrea e San Giovanni Evangelista) e una rivolta ai canonici seduti nel presbiterio (quella con il Cristo in trono al centro e ai lati il martirio di San Pietro, crocifisso a testa in giù, e quello di san Paolo, decollato).
Questo lato soprattutto porta un esempio di modernità stupefacente. Il trono che ospita il Cristo ha uno impianto prospettico a punto di fuga centrale perfetto, con le sue arcate gotiche in scorcio, che rende molto credibile la parata di angeli festanti a corona del Cristo, intorno al trono. Seduto con il braccio alzato nella posa benedicente, il Cristo è panneggiato in blu e oro, le ombre sono attentamente chiaroscurate per garantire la piena percezione del corpo, delle gambe che avanzano, del bracco che regge il testo sacro. Tutto diventa credibile in senso naturale, ogni gesto si riempie di una sobrietà umana che da qui in avanti sarà la cifra della pittura centro italiana e che Giotto ha già ampiamente sperimentato nei grandi cicli di affreschi cui ha dato vita, fra tutti quello padovano per la Cappella della famiglia Scrovegni.
I volti dei personaggi non sono più bloccati in un’astratta dimensione di sacralità sovrannaturale, ma sono calati nel tormento delle emozioni umane. Basti guardare le due scene di martirio, a sinistra Pietro è crocifisso, come tradizione vuole, tra la cosiddetta Piramide Vaticana (demolita a partire dal 1499 per aprire la nuova Via Alessandrina) e la Piramide Cestia, due sepolture romane databili circa al I secolo dopo Cristo, che erano state per secoli ritenute le tombe rispettivamente di Romolo e Remo (venivano chiamate infatti Meta Romuli e Meta Remi). Così Pietro più chiaramente che mai diventava il simbolo della nuova Roma Cristiana che superava quella pagana.
Fedela a questa tradizione iconografica, che obbliga ad acrobazie prospettiche e proporzionali notevoli, Giotto recupera la sua piena umanità e modernità nelle espressioni di dolore, a volte violento, a volte muto e rassegnato, dipinte sul volto degli astanti.
Così anche intorno a San Paolo decapitato troviamo la stessa cura per dare una credibilità tutta umana alla scena. Più libero da vincoli di tradizione, Giotto qui inventa un frammento di scorcio naturale, composto da due colline che si muovono dolcemente dietro i protagonisti. Certamente più vincolato dalla destinazione del Polittico, e quindi meno libero di inventare perfette geometrie e solidissime architetture nelle quali far vivere le scene, come invece succede nei già citati affreschi padovani, Giotto, anche nella rigorosissima e controllatissima solennità dei polittici per le grandi basiliche italiane del Trecento, offre quelle ricerche stilistiche e quelle sperimentazioni pittoriche che ne faranno il punto di riferimento per gli artisti italiani di due secoli a venire.