A Verona torna il Nabucco risorgimentale
Un fil rouge unisce l’Arena di Verona e Teatro alla Scala di Milano nell’allestimento del Nabucco di Arnaud Bernard che, dopo aver inaugurato il festival de 2017, torna in scena per otto serate. Dopo il debutto del 25 giugno sono previste altre sette repliche dell’opera di Giuseppe Verdi ambientata in epoca risorgimentale: 1, 7, 10, 23, 29 luglio, 18 agosto, 3 settembre.
Uno spettacolo di ampio respiro storico e cinematografico che si rifà visivamente a Senso, capolavoro di Luchino Visconti, aiutato dall’imponente scenografia di Alessandro Camera che, fra barricate e saloni, ruota intorno al Teatro alla Scala di Milano, città al centro dei moti risorgimentali del 1848. Bernard ricolloca la vicenda biblica negli anni in cui Verdi compose l’opera, mentre gli italiani combattevano per la propria indipendenza e identità nazionale, eleggendo il Nabucco di Verdi, al debutto su libretto di Temistocle Solera, alla Teatro alla Scala di Milano nel 1842 icona di questa lotta. Ecco quindi il tripudio sul palco dell’Arena di bandiere tricolori e anche di un “Viva Verdi” (che, negli ultimi anni dell’occupazione austriaca del lombardo veneto, sottendendo Vittorio Emanuele Re d’Italia, permetteva ai patrioti di manifestare senza incorrere in repressioni) che travolgono il pubblico di emozioni. Efficace la rappresentazione del coro degli ebrei, il coro dei cori con “Va’, pensiero, sull’ale dorate…”, all’interno dell’allestimento del Nabucco nel Teatro alla Scala. Una rappresentazione nella rappresentazione, un teatro nel teatro” che, grazie a questo espediente è capace di raccontare la nostra storia
L’allestimento di Bernard legge quindi nel contrasto insito nella vicenda narrata nell’opera – il conflitto tra Babilonia e Gerusalemme – la storia d’Italia negli anni turbolenti del Risorgimento. Ed è questa visione profondamente risorgimentale suggerita da musica e libretto, e propria dei rivoluzionari italiani negli anni in cui Verdi componeva, che ha permesso a Nabucco di diventare nell’immaginario collettivo il titolo patriottico per eccellenza, con il suo Va’, pensiero che si eleva ad inno del riscatto nazionale. Bernard parte da questa interpretazione per rendere il dramma più storico, umano e verosimile.
Il collegamento tra Milano e Verona ha inoltre un doppio valore storico per due motivi: la collaborazione tra le due fondazioni e le stesse origini del teatro milanese che, inaugurato nel 1778, ha ereditato nome e sede dalla chiesa di Santa Maria alla Scala (così chiamata in onore di Regina della Scala, della dinastia degli Scaligeri, Signori di Verona, e moglie di Bernabò Visconti, Signore di Milano) demolita proprio per fargli posto, Poi, nel ‘900, si è stabilito un tradizionale stretto rapporto tra le due Fondazioni liriche (tanti anni fa l’Arena era definita la “Scala d’estate”).
Con il Nabucco sale sul podio il maestro Daniel Oren che dirige (richiamando anche il pubblico scatenato nella richiesta di bis dopo la prima esecuzione “Va’ pensiero”) Orchestra e Coro, preparato da Ulisse Trabacchin. Nel ruolo del titolo il baritono Amartuvshin Enkhbat che, acclamato in Arena fin dai suoi esordi, torna a Verona immediatamente dopo il successo personale riscosso come nuovo Rigoletto al Teatro alla Scala. Accanto a lui, il soprano uruguaiano Maria José Siri interpreta per la prima volta a Verona il difficilissimo ruolo di Abigaille, al suo debutto areniano il basso Abramo Rosalen nei panni di Zaccaria, mentre il tenore Samuele Simoncini e il mezzosoprano Francesca Di Sauro interpretano rispettivamente Ismaele e Fenena.
Balla come idea del femminile a Bottegantica
di Cristina T. Chiochia Dal 6 novembre 2021 al 30 aprile 2022, presso la sede di Milano di Banca d’Italia è stata esposta la propria collezione di opere di Giacomo Balla per una mostra piccola ma suggestiva dal titolo “Esistere per dare”. Un omaggio alle opere di Balla presenti nella collezione che hanno creato a Milano una sorta di percorso anche presso la Galleria Bottegantica (con la stessa curatrice della mostra ) e presentata dall’ 1 al 30 aprile con il titolo BALLA AL FEMMINILE | TRA INTIMISMO E RICERCA DEL VERO con cui la galleria , recita il comunicato stampa : “intende rendere omaggio a Giacomo Balla, uno dei più importanti e originali esponenti dell’arte italiana del XX secolo. Una “preview” speciale con una selezione di opere inaugurerà la mostra alla fiera MIART di Milano, dal 31 marzo al 3 aprile, dove la Galleria sarà presente nella sezione Decades allo stand A100. L’esposizione si sposterà dal 6 al 30 aprile negli spazi espositivi di Galleria Bottega Antica in via Manzoni 45.Dopo quattro anni dalla rassegna Giacomo Balla. Ricostruzione futurista dell’universo (2018), incentrata sull’esperienza futurista del pittore, Bottegantica dedica una mostra alle declinazioni della femminilità interpretate dall’artista in due periodi apparentemente lontani della sua produzione, quello divisionista di inizio Novecento e quella figurativo-realista degli anni Trenta e Quaranta”.
Una mostra curata nei minimi dettagli a cui a fatto da padrona la grande storica Elena Gigli che ha soddisfatto nella preview riservata alla stampa aneddoti e curiosità sul lavoro di questo grande artista. Opere incredibili. Dai colori lucidi e vivi che custodiscono quel senso di “stare accanto” in famiglia a cui Balla era tanto affezionato. Balla maturo e molto attento agli accostamenti con grande capacità di sviluppare temi come la quiete o la famiglia oltre alla figura femminile. Veri e propri primi piani d’artista. Dove ritrarre significa generare, in quella sorta di “generatività” che gli fu tanto cara nei ritratti dei primi del 900. Visibili quindi Quiete operosa (1898) e La famiglia Stiavelli (1905) ma anche grandi ritratti delle figlie, anche loro pittrici. ED è proprio quella casa dove nell’estate del 1929 Balla si trasferisce, che diventa il tutto. La misura di tutte le cose, insomma. Tanto che per tutto il 2022 a casa in via Oslavia 39/b sarà visibile al pubblico e visitabile grazie alla collaborazione del MAXXI e la Soprintendenza speciale di Roma oltre che al supporto della banca Finnat. Spazio. Percezione della realtà e luce ridente. Balla che forse, da lassù, sorride soddisfatto.
Rudy Profumi: 100 anni di storia e una lunga strada da percorrere
Fondata nel 1920 a Milano da Spiridione Calabrese che inizia l’avventura di profumiere nella sua piccola bottega di parrucchiere, partendo dalla miscelazione di tinture per capelli, Rudy Profumi guarda al futuro con la quarta generazione che si è succeduta in azienda e punta su sostenibilità, rispetto dell’ambiente e ricerca. L’azienda, nata dall’intuizione di un uomo dei primi del ‘900 è oggi un’impresa, presente in oltre 30 paesi con una distribuzione capillare che oltre alle profumerie e a 4.000 porte tra farmacie, parafarmacie ed erboristerie.
Ad oggi Rudy Profumi presenta un’ampia gamma di prodotti per la cura del corpo: bagnoschiuma, body cream e saponi liquidi, oltre alle iconiche acque di colonia, ad una linea di diffusori ambiente per la casa. I prossimi progetti del brand riguardano l’ampliamento di tutta la categoria dei prodotti legati all’Home Care, oltre ai già presenti emanatori, così da poter offrire una proposta completa con linee dedicate. La
partecipazione al prossimo Maison&Objet sarà, infatti, un’occasione per consolidare i rapporti con i partner e per aprire nuove possibili collaborazioni nel settore Home Decor.
Le formulazioni delicate e performanti caratterizzano fragranze piacevoli ed evocative che spaziano dal floreale, all’esotico fino alla dolcezza delle note fruttate. Profumazioni ricercate e packaging di design sono la peculiarità dei prodotti masstige di Rudy Profumi. Questo connubio si realizza, in particolare, nella collezione Maioliche: una linea caratterizzata da fragranze ispirate ai profumi tipici italiani e dedicate alle città che ne
rappresentano la storia. Gli agrumi di Sicilia, le erbe aromatiche mediterranee, le rose di Positano e di Amalfi sono solo alcune delle profumazioni racchiuse nelle ceramiche italiane dai disegni esclusivi realizzati a mano e riprodotti sulla confezione.
Tra le novità di Rudy Profumi la nuova collezione di fragranze per il bucato, profumi pensata per vuole personalizzare i propri capi con fragranze uniche. Rudy Profumi offre una gamma di 5 fragranze contraddistinte da diverse piramidi olfattive per evocare le più positive sensazioni: toni floreali, fruttati e aromatici.
GIADA: freschezza della primavera grazie alle note di Limone e Pesca. La nota olfattiva si apre con sentori di Limone e Pesca, con un cuore tenero e floreale di Rosa, Gelsomino e Orchidea Bianca per finire con aromi caldi e persistenti di Legni Preziosi, Vaniglia e Fava Tonka.
QUARZO: fragranza caratterizzata da un bouquet floreale seducente. Il profumo si annuncia con le note di Pesca e Limone con un cuore irresistibile di Rose e Fiori di Loto per finire con la freschezza e delicatezza di Muschio Verde.
ZAFFIRO: note verdi e fiorite di Neroli e Fiori Bianchi si combinano alla perfezione con le note calde e preziose di Legni Preziosi, Muschio e Spezie per creare un accordo intenso e persistente.
AMETISTA: fragranza fiorita e frizzante connotata da note verdi di Limone e delicati frutti. Il suo cuore fiorito di Rosa Bianca e Ylang Ylang unitamente alle note di fondo di Legni Preziosi e Muschio Bianco la completano, rendendola fresca e persistente.
TURCHESE: composizione fiorita e delicata. La nota olfattiva è caratterizzata da testa di Vaniglia e Talco su dolci e romantici sentori di Rosa e Geranio. Le note di fondo di Muschio e delicata Vaniglia conferiscono alla fragranza persistenza.
L’arte coltivata di Giorgio Riva
di Cristina T. Chiochia Un invito alla lettura quello de “L’antro di Efesto” di Giorgio Riva e presentato al Museo della Permanente a Milano in cui l’autore a voluto esprimere l’essenzialità del suo libro cercando di mettere in luce il suo essere architetto ma che “coltiva arte” con una tipica forma di “essenzialità che gli appartiene”. E nel libro ce ne sono molti esempi a partire dall’idea di “bontà del caso”, quando l’autore racconta del suo talento. Anche pittorico. “In quel periodo” racconta nel libro “avevo accanto cugini e amici già studenti di Lettere e filosofia con i quali trovavo le categorie necessarie per un primo passo: distinguere la veduta cosiddetta “dal vero” dalla “veduta della mente”. Poco dopo il distinguo ha rinnovato il suo abito verbale: imago (dal latino imitor – it. “imitare”) aut phàntasma (in greco “visione”, libera dall’obbligo di imitare)”. La pittura come prima grande sintesi espressiva.
Per Riva, insomma l’idea del progetto architettonico si colloca in una sorta di interregno. Che esemplifica con il suo modo di fare pittura fin dalla più tenera età e che poi lo ha portato addirittura alla pittura informatica fusa con il suono.
Sempre nel libro infatti dice ” tutti i progetti ritraggono ciò che non c’è, o almeno che non c’è ancora. Si annunciava così anche l’affascinante idea di utopia che in politica si candida a diventare ideologia. Contemporaneamente il mio dipingere si allontanava dall’imitazione veristica del soggetto ritratto per dare maggiore importanza al modo di condurre le pennellate sulla tela: cosa facevano macchiaioli e impressionisti? Ritraevano atmosfere di paesaggi o inseguivano da innamorati un loro nuovo modo di agitare il pennello? Stava insomma prendendo corpo un linguaggio pittorico in cui la realtà cessava di essere “rappresentata”, diventava per me molto più interessante “alluderla” o “citarla”: potevo semplicemente “usarla”, insomma, per ritrarre non più oggetti, ma “itinerari” del pensiero visivo. Contemporaneamente stavo preparandomi a rivedere anche i grandi ritratti dei realisti come specchi ingannevoli”.
Una realtà , quella che esprime Riva nel libro, che è sempre più interessante proprio perché da scoprire là, in quel “dentro” dove è il pensiero visivo. Che è proprio quanto la pittura insegna, da sempre. Dalla superficie di un “vero apparente” a qualcosa che con il talento cresce e si rafforza. Forse per questo, dice sempre l’autore “c’era sempre un velo da togliere, altrimenti si sarebbe perso ogni senso, spessore e, in definitiva, la profondità del dipinto”. La realtà, insomma si raggiunge al contrario in pittura, come in architettura. E poi l’esperienza della testimonianza. Dove la Casa-Museo I Tre tetti nel Parco Regionale di Montevecchia e della Valle del Curone a Lecco , mostra ai visitatori una raccolta privata delle opere di Giorgio Riva presso la sua residenza estiva e come si è aperta al pubblico con una prima mostra notturna di “sculture luminose” (visibili al tramonto) nel 2005.
Sempre in ascolto. Per saper vedere e saper guardare. Ecco in estrema sintesi il libro. E questa l’intuizione dell’autore ,oltremodo attuale che, come recita il comunicato stampa: “nella confusa temperie delle culture che regna attualmente è fondamentale essere vigili e pronti a navigare controvento. La mia rotta mi ha condotto su un dosso del Parco di Montevecchia a fare un luogo destinato all’intreccio delle arti”. Villa 3 Tetti di Sirtori non è tanto una raccolta di opere, è piuttosto un’opera complessiva dentro la quale si cammina. Arte del paesaggio, arte della luce, architettura, scultura, pittura vi s’intrecciano con poesia e musica: qui il vero protagonista è il metalinguaggio che le unisce”. E questo libro, edito da Skira ditore, sicuramente ne è un valido esempio.
L’opera donata da Emilio Isgrò “Cinque Maggio. Minuta cancellata”
La prima Beauty Week milanese, un nuovo mood tra bellezza e benessere
di Cristina T. Chiochia Ci sono eventi che entrano nella tradizione anche alla loro prima edizione. Pare questo il caso della settimana milanese dedicata alla cultura della bellezza e del benessere che si è svolta dal 3 all’8 maggio. La prima edizione della Milano Beauty Week sorprende per i numeri. oltre 10mila visitatori che , come recita il comunicato stampa “hanno partecipato a incontri di approfondimento, mostre, laboratori, esperienze di bellezza e iniziative di beneficenza”.
Sorolla: quando l’arte di un grande artista della pittura si tinge di sole spagnolo
Una mostra per chi ama la Spagna e ne ha fatto esperienza diretta, vissuto come “tempo prezioso”, o chi desidera farla. L’arte di un grande artista della pittura spagnola che si tinge di luce. Il progetto nato dalla collaborazione con molti musei, tra cui il Museo de Bellas Artes di Valencia, l’Hispanic Society di New York, la Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro di Venezia, i Civici Musei di Udine, Musei di Nervi Raccolte Frugone. Patrocinata dell’Ambasciata di Spagna in Italia, del Consolato Generale spagnolo a Milano, dell’Ente del Turismo spagnolo.
de Pisis: piccole riflessioni dopo la mostra al Museo del Novecento
di Silvia Ferrari Lilienau – Intanto: che sollievo visitare una mostra che sia tale, non un’esperienza immersiva in cui i dipinti siano manipolati per coinvolgere i sensi e la fantasia degli spettatori. Che sollievo che la mostra di Filippo de Pisis al Museo del Novecento non sia un piccolo Luna Park, ma la mostra di una novantina di opere in un crescendo cronologico, con pannelli esplicativi a introduzione delle sale.
Che poi una mostra così allestita non sia facile è pegno inevitabile da pagarsi all’arte, visto che sarebbe sensato – contro l’insensatezza di ogni banalizzazione – accettare che l’arte non sia facile. Che sia comunque lecito accostarvisi è fuor di dubbio, come pure che sia doveroso provare a renderla accostabile. Ma, appunto, lo spostamento dovrebbe essere del cultore verso l’arte, per tramite di studiosi tenuti a offrire strumenti interpretativi, e non, invece, dell’arte verso il cultore, perché in tal caso si rischia una spettacolarizzazione quasi mai rispettosa della natura dell’opera.
Certo rifuggono da ogni forma di spettacolarizzazione i dipinti di Filippo de Pisis. Tutti, nessuno escluso, dalle prime nature morte che testimoniano l’incontro a Ferrara con de Chirico e Savinio, ai paesaggi e alle figurette agili degli anni parigini, e poi oltre, nei soggetti che tornano uguali, ma sempre più segnati da un pennello rapido e leggero, in cui sosta infine anche il suo arretrare alla vita.
A parte le prove che sono esplicito omaggio allo spaesamento metafisico, se si pensa alla pittura di de Pisis la si rivede costruita con segni brevi e vibranti, che toccano la tela in velocità. Carattere questo da più parti considerato troppo lieve, benché le parole di Elio Vittorini – citato in catalogo nel saggio di Pier Giovanni Castagnoli – bastino a garantirne il pondus: nel 1933, ne “L’Italia Letteraria” Vittorini scriveva infatti di come i detrattori di de Pisis non si rendessero conto dei “novemila metri di profondità ch’egli raggiunge senza nemmeno indossare lo scafandro”.
A ben vedere, si ha l’impressione che dipingere fosse, per de Pisis, come scrivere, là dove la scrittura era stata la sua vocazione prima e precoce, nonché una prassi mai interrotta. Rimangono di lui lettere, articoli, scritti di storia dell’arte, prose, poesie, diari. Non aveva ancora venti anni quando conobbe de Chirico e Savinio, e però a casa di Corrado Govoni, che aveva scritto per lui la prefazione a I Canti de la Croara, pubblicati già nel 1915.
Solo che nella sua pittura, la polpa materica un po’ sfatta si carica di un silenzio invece difficile a tradursi in parola scritta.
Come ne La lepre del 1932, con l’animale morto allungato sul tavolo, la pelliccia stropicciata dai picchiettamenti del pennello e la piccola chiazza di sangue accanto al muso, quasi colore sgocciolato, quasi una dimenticanza.
Il silenzio che si fa tattile, alla fine, dentro alle nature morte dipinte nella casa di cura dove avrebbe concluso i suoi giorni. In Cielo a Villa Fiorita, del 1952, l’esterno diventa un piccolo quadro in un interno, un quadro nel quadro in cui de Pisis sembra ricordarsi di se stesso quando componeva nature morte su uno sfondo di mare e cielo, a dire – allora – lo spazio senza margini anche del suo pensiero.
de Pisis
Milano, Museo del Novecento, 4 ottobre 2019-1 marzo 2020
a cura di Pier Giovanni Castagnoli con Danka Giacon
Catalogo a cura di Pier Giovanni Castagnoli, Milano, Electa, 2019
Sostenibilità in cucina
La cucina “zero waste” ovvero che non produce alcun rifiuto è tra i nuovi trend nella cucina d’autore. Non solo quindi attenzione spasmodica al prodotto biologico e, ancora meglio, ai piccoli fornitori locali, ma anche focus sul riciclo, riutilizzo e riduzione di ogni scarto. Una ristorazione pienamente sostenibile passa infatti inevitabilmente dalla lotta agli sprechi alimentari.
Tra i pionieri di questa scelta innovativa di ristorazione ci sono il tre volte stellato Massimo Bottura a e Dan Barber. Lo chef alla guida de “L’Osteria Francescana” ha dato vita nel 2016 al progetto Food for Souls, una Ong che anche grazie all’esperienza maturata con i Refettori, combatte gli sprechi alimentari. Barber invece, tra Londra e New York, ha creato dei temporary restaurant “WastED” con l’obiettivo di mostrare la creatività della cucina del riciclo e allo stesso tempo far riflettere sull’enorme spreco alimentare che, quotidianamente, avviene sulle tavole dei ristoranti di tutto il mondo. Ma non sono i soli. La sostenibilità permea ormai ogni ambito della vita sociale e personale e l’applicazione più integrale di questo approccio ai fornelli porta appunto all’approccio “zero waste”.
È un po’ come tornare indietro alle tradizioni contadine quando non era ammissibile sprecare le già limitate risorse (la francese bouillabaisse è un tipico esempio di queste tradizioni, ma anche la ribollita tanto per “giocare in casa”). Nel nuovo Millennio tuttavia la ricerca del “no waste” si sposa con una maggiore consapevolezza e con la volontà di perseguire fino in fondo i valori sostenibilità ambientale, economica e sociale.
In questi ultimi anni stanno aumentando le sperimentazioni di nuovi modelli di ristorazione a zero rifiuti anche se spesso si ricorre al format “pop up restaurant” piuttosto che a un locale stabile, come è accaduto con il trendy Zero Waste Bistrot di New York, inaugurato nel corso della Design Week per invitare a riflettere sull’economia circolare. In parallelo sono in crescita anche le certificazioni rivolte all’eco ristorazione come le americane Green Restaurant 4.0 Standards e Green Seal Gs-46, la neozelandese The Better Cafè and Restaurant e l’europea Nordic Ecolabelling for Restaurants.
In Italia il trend è ancora agli albori, soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione creativa della cucina “no waste”. Ma la direzione è ben segnalata non solo dalle esperienze estere, ma anche dall’elevata sensibilità che le nuove generazioni mostrando sul tema. E a Milano la sperimentazione appare già ben a avviata.
Franco Aliberti ha impresso una svolta sostenibile nella cucina del ristorante Tre Cristi. La parola chiave è cucina attenta all’ambiente ed ecosostenibile: ogni piatto esalta le singole materie prime, presentate in diverse consistenze e utilizzando tutte le parti commestibili di frutta e verdura. Una innata curiosità e voglia di sperimentare: Franco Aliberti si avvale delle più moderne tecniche di cottura ma predilige un ritorno all’uso di cucina ancestrale, materica, come quella della griglia, che diviene garanzia di una cucina personale e decisamente creativa. “Sotto i riflettori il singolo ingrediente, bilanciato al massimo da altri due di supporto, perché amo colpire con la semplicità più che con la complessità, reinterpretando anche un semplice broccolo con una vena giocosa, senza perdere di vista la sostanza del piatto” racconta Franco Aliberti.
Tra le apertura più recenti il Røst porta invece in scena milanese un concetto di cucina circolare, con la riscoperta dei tagli poveri e una selezione di vini naturali di nicchia.
Massima attenzione alla materia prima e utilizzo degli ingredienti nella loro totalità caratterizzano la proposta gastronomica di una carta che ha due focus principali: i vegetali, dove la verdura di stagione è regina del piatto e i tagli poveri. Piatti della tradizione con gusti decisi, realizzati con delicatezza, pensati per tutti. Al numero 3 di Via Melzo, che sempre di più si distingue come la nuova food street del distretto di Porta Venezia. La carta del Røst abolisce le categorie di ordine (antipasti, primi, secondi, contorni), prediligendo un racconto orizzontale tra piccoli piatti da condividere liberamente, per favorire l’assaggio e la convivialità. Le proposte cambiano in relazione alla disponibilità di materie prime, aggiornandosi anche giorno per giorno per valorizzare gli ingredienti ed evitare gli sprechi. Una successione numerica caratterizza ogni menù, a testimonianza della freschezza di ogni selezione. La parete d’ingresso mette in scena i protagonisti con il Wall of Fame: 16 piatti in ceramica, ognuno raffigurante un produttore/fornitore di materie prime, disposti nello spazio a creare la ø di Røst.
Tra le esperienze all’estero più significative in evidenza quella d el Silo a Brighton nel Regno Unito a cura di Douglas McMaster. Porta in alto un concetto integrale di “zero waste”: i prodotti sono coltivati localmente e consegnati senza packaging, le bevande alcoliche (prodotte attraverso la fermentazione) o meno sono prodotte in casa utilizzando anche le erbe del territorio, i piatti sono di plastica riciclata, tavoli e sgabelli derivano dal processo di riciclo del legno, gli avanzi alimentari infine finiscono in una compostiera (messa a disposizione anche al resto della comunità) in grado di generare fino a 60 chili di compost in 24 ore. “Silo è nato dal desiderio di innovare l’industria alimentare dimostrando rispetto per l’ambiente, per la produzione del cibo e per il nutrimento dato al corpo. Questo significa che noi partiamo dalla forma originaria degli ingredienti, evitando gli sprechi nella preparazione dei piatti e preservando l’integrità e i valori nutrizionali degli alimenti” racconta McMaster. Una nuova etica in cucina che si sposa a menù strabilianti. Nei menù degustazione (quattro portate a 33 sterline a testa) troneggia, ad esempio un gelato ai semi di zucca con foglie di fisco, mentre tra gli snack si può scegliere per 3 sterline un piatto di spine di sgombro croccanti fermentate nel chili.
L’idea alla base dei locali Instock, nati ad Amsterdam e ora presenti anche a Utrecht e Anversa, oltre che con furgoncini attrezzati per lo street food, è quella di utilizzare cibi brutti ma buoni, ovvero quelli scartati dalla catena della grande distribuzione per problemi di standard di qualità o di sovrapproduzione, così da sensibilizzare gli utenti a una scelta sostenibile “Buttare via un prodotto alimentare non significa solo gettare via i soldi, ma non curarsi dell’enorme spreco di energia prodotto per la produzione e la conservazione di un alimento poi buttato” sostengono da Instock dove sono persino riusciti a creare due tipologie da patate e pane di scarto, la Pieper Bier e la Bammetjes Bier. L’utilizzo di prodotti invenduti o di scarto da parte degli chef di Instock significa anche che ogni giorno è diverso dall’altro nei locali della catena di ristorazione dove la creatività è, necessariamente, la parola d’ordine.
Nolla a Helsinki di Carlos Henriques, Luka Balac e Albert Franch Sunyer. Il Nolla è il primo ristorante a zero rifiuti della penisola scandinava, divenuto alla fine stabile dopo una serie di aperture temporanee (in ultima quella presso il Christmas Markets). In pochi mesi di vita è subito diventato una delle esperienze da non perdere per chi va a Helsinki grazie creatività ai fornelli e alla tecnologia utilizzare per render possibile il progetto. La scelta dei tre startupper, finanziati tramite una raccolta di crowdfunding, è stata integrale: non solo l’attenzione a evitare ogni spreco in cucina è totale, anche oggetti, utensili, energia e arredi per il locale sono stati accuratamente scelti seguendo il mantra “riduzione degli sprechi, riciclo e riutilizzo”. Il locale si è perfino dotato di una macchina da compostaggio per gli avanzi alimentari. Il percorso degustazione da due portate costa 45 euro, quello da tre invece 59 euro.
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