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Festival della Valle d’Itria: intervista al direttore artistico Alberto Triola

Dal 13 luglio al 4 agosto 2018 torna uno degli eventi estivi più attesi per gli amanti dell’opera e della musica classica: il Festival della Valle d’Itria. Nella suggestiva e affascinante cornice di Martina Franca vanno in scena quattro secoli di teatro musicale, con grande attenzione al barocco, e la partecipazione di artisti di fama internazionale.

Abbiamo incontrato il direttore artistico del Festival, Alberto Triola, per scoprire tutte le peculiarità di questo grande evento e le novità che ha in serbo questa edizione.

Presentiamo questo Festival, giunto alla sua 44^ edizione.

Il Festival Valle d’Itria è un unicum nel suo genere in Italia. L’ambito di repertorio e il baricentro delle proposte culturali su cui il Festival si concentra è quello del belcanto italiano, riallacciandosi alle ricerche, alle proposte, agli studi fatti da Rodolfo Celletti a partire dagli anni ‘70 e proseguiti poi anche negli anni ‘80. Oggi quando si parla di “belcanto renaissance” si parla di Martina Franca come laboratorio di incubazione di quel tipo di ricerca e di riproposta, con opere e produzioni e messe in scena che oggi sembrano normali ma che negli anni Settanta erano poco praticate. Alberto Zedda, che fu legato al Festival di Martina Franca, ricoprendo anche la carica di direttore musicale nei primi anni del Festival, ricordava sempre che non sarebbe nato il Rossini Opera Festival, monografico su Rossini, senza l’esperienza di Martina Franca. Nel corso dei decenni questo Festival ha ampliato i propri ambiti. Pur mantenendo come baricentro il belcanto italiano, ha aperto dei filoni di approfondimento sul teatro musicale del ‘600 e sul ‘900. Questo soprattutto negli ultimi dieci anni, partendo dalla convinzione che un festival di ricerca non può considerarsi completo se non accende un interesse particolare nei confronti della creatività contemporanea. Entriamo subito in medias res, col Festival di quest’anno, con questa proposta, assolutamente inedita, trasversale e multistrato, del Barbiere di Siviglia rivisitato. Nell’anno di Rossini, il Festival ha scelto, piuttosto che mettere in scena un’opera di Rossini così come scritta, di mantenersi fedele alla propria identità di luogo di ricerca, di proposta e di laboratorio. Il Festival ha deciso di intraprendere la strada di una riscrittura drammaturgico-musicale del grande capolavoro rossiniano, cogliendo una serie di occasioni. Prima fra tutte la collaborazione con la Festa della Taranta, che è l’altro grande festival del Mezzogiorno italiano, salentino, naturalmente con potenzialità di pubblico molto più elevate e molto più ampie. In Rossini c’è questo elemento dionisiaco molto risonante rispetto a certi moduli che il tarantismo propone. Ci siamo imposti di scavare in questo punto di incontro. Abbiamo pertanto affidato alla Festa della Taranta la realizzazione della parte musicale. In buca invece di un’orchestra tradizionale ci sarà l’ensemble di musica popolare della taranta, insieme a strumenti tradizionali, più classici, con una riscrittura della musica di Rossini in questa chiave. La seconda occasione presa è quella di potersi avvalere sul palco di un talento teatrale e musicale in grado di intercettare anche il cosiddetto “grande pubblico”, quello di Elio (di Elio e le storie tese), che da una vita ha messo Rossini al centro di suoi lavori, di sue ricerche, della sua passione personale ma che non aveva ancora mai affrontato un’opera nel suo complesso. Avremo uno spettacolo sorprendente, inedito, in grado di chiamare un pubblico molto vasto ma non soltanto per un’occasione di facile fruizione. Il festival infatti darà un piccolo contributo di approfondimento, per una chiave di lettura della musica rossiniana diversa e inesplorata.

Una domanda nasce spontanea sul rapporto tra il Festival e Martina Franca. Perché è stata scelta Martina Franca e come si è radicato il Festival in questa città?

I nomi associati alla nascita del Festival sono tanti, parliamo soprattutto di personalità del mondo politico, culturale, sociale e imprenditoriale di quel territorio negli anni ’70, ma c’è un nome a cui credo si debba far risalire l’origine del Festival: Paolo Grassi. Grassi, che è stato sovrintendente della Scala, presidente della Rai, fondatore nonché direttore del Piccolo Teatro di Milano, era originario di Martina Franca. Immaginiamoci cosa poteva essere il Mezzogiorno, l’interno della Puglia, nei primi anni 70. Paolo Grassi partì dalla constatazione di una realtà ambientale e architettonica che sapeva unire il contesto della Valle d’Itria, di valore unico, senza paragone nel nostro Paese, con quello di un centro urbano, storicamente molto vitale, strategico. Il nome stesso Martina Franca racconta di un centro urbano che godeva in passato di privilegi unici, un crocevia straordinario per la via che collegava Adriatico e Ionio, nord e sud della penisola pugliese, e un contesto architettonico urbano di centro storico che era ed è oggi più che mai un esempio sorprendente di barocchetto napoletano, pugliese. Paolo Grassi ebbe l’intuizione di un cosiddetto “teatro diffuso”, cioè che la città stessa potesse diventare palcoscenico e potesse offrire diversi palcoscenici a delle proposte che fossero di teatro di ricerca. L’ulteriore intuizione di Paolo Grassi, che condivise subito con Rodolfo Celletti e con il sindaco di allora Franco Punzi, che è tuttora il presidente del Festival, fu quella di trovare una specificità. E fu trovata quella del belcanto italiano, riallacciandosi anche naturalmente alla grande scuola pugliese e napoletana che per tutto il ‘700 aveva dato al mondo intero i più grandi musicisti di quell’epoca.

È un festival molto sentito dalla popolazione, della città di Martina Franca? Come è accolto? Possiamo dire che si è consolidata una tradizione per la popolazione locale?

La tradizione è fortissima e va detto che negli ultimi anni specialmente nelle settimane del Festival Martina Franca e l’area limitrofa registrano il tutto esaurito, a livello ricettivo, alberghiero e di tutte le possibilità che oggi si sono sviluppate, dal b&b alla masseria ristrutturata e diventata hotel o residenza di lusso. Questo è il segno che il Festival ha saputo trasformare quel territorio, già di per sé straordinariamente ricco di potenzialità ambientali, paesaggistiche, enogastronomiche, anche in un polo d’attrazione per il turismo culturale, che in effetti porta a Martina Franca tutti gli anni migliaia di appassionati da tutta Europa. È stato fatto e viene fatto continuamente un lavoro molto paziente di convincimento sulla popolazione locale che il Festival non è un’occasione per pochi privilegiati o per persone che possono permettersi di assistere a degli spettacoli o che hanno gli strumenti per potersene interessare. Certo non aiuta il fatto che sia un festival non di repertorio; probabilmente se facessimo Aida, Turandot e La traviata sarebbe più facile eliminare questo preconcetto. Facendo opere barocche, opere settecentesche e ottocentesche, in prima esecuzione, titoli desueti, dimenticati, mai fatti o non sempre di facilissima fruizione per il grande pubblico, la frantumazione di questo pregiudizio è un po’ più lenta e un po’ più difficile. Molto è stato fatto in questi ultimi anni in questa direzione, tra cui aprire le prove generali ai giovani under 30 di Martina Franca, a cui viene fatto un piccolo discorso introduttivo di guida all’ascolto. Così i giovani locali cominciano finalmente a sentire quel Festival come loro patrimonio, un’occasione per aprire le porte della città al mondo. Il Festival sta diventando, negli anni, un fantastico laboratorio, in cui i giovani locali, frequentando il Festival, possono riconoscere in se stessi delle predisposizioni, dei talenti anche artistici, come sempre più spesso si verifica. Moltissimi giovani di Martina Franca hanno deciso di studiare teatro, di studiare danza, di studiare musica; e questo anche grazie alle attività della Fondazione Paolo Grassi, che per tutto l’anno svolge la sua attività di ricerca, di laboratori, di formazione, di divulgazione, di concerti, di teatro, di letteratura, di poesia, di fotografia.

Che tipo di pubblico richiama il Festival?

Il pubblico più rappresentativo è quello tipico del turismo culturale, soprattutto un pubblico internazionale. C’è anche una buonissima fetta di pubblico italiano, che frequenta i festival estivi di musica e di teatro. E poi devo dire che c’è una percentuale non trascurabile di pubblico locale. 

Oltre all’originalità del nuovo allestimento di Barbiere, le altre opere in cartellone presentano delle peculiarità?

Certamente! A partire dal Rinaldo di Händel che, in piena adesione alla identità del Festival, viene riproposto in una edizione totalmente inedita, che addirittura sarebbe stata perduta, e che invece, grazie al lavoro di un musicologo molto attento e molto tenace, è stata ricostruita. Verrà allestita la versione del capolavoro di Händel come andò in scena a Napoli nel 1718, cioè sette anni dopo la prima di Londra, diventando più che il trasferimento di una grande opera di Händel a Napoli, l’occasione di un pastiche, un genere estremamente in voga e popolare all’epoca. Il famosissimo castrato Grimaldi, detto Nicolini, porta la partitura a Napoli, depositandola nelle sapienti mani di un grande musicista di riferimento in quegli anni a Napoli: Leonardo Leo. Leo, sfogliando la musica si rende immediatamente conto del capolavoro e delle potenzialità dell’opera e pensa subito come adattarla al gusto del pubblico di Napoli. In primo luogo, aggiunge due personaggi buffi. Il pubblico infatti cominciava ad essere un po’ stanco dai drammi, dalle opere serie, schematiche, dove i protagonisti erano sempre personaggi altolocati, mitici, leggendari, inavvicinabili, inarrivabili. Proprio in quegli anni si cominciava invece a presentare sulle scene il modello di un teatro comico, non in lingua dialettale, non napoletana, con personaggi popolani che si prendevano gioco dei nobili o degli aristocratici. Nasceva così la commedia per musica. E l’usanza fu quella sempre più di contaminare l’opera seria con intermezzi buffi. Questi intermezzi si rivelarono subito come una fonte di successo incredibile. Sempre nel 1718 va in scena, ancora una volta a Napoli, Il trionfo dell’onore, l’opera che noi quest’anno facciamo in Masseria, che è proprio l’esempio più rappresentativo di commedia in musica; anzi molti la considerano come la prima vera commedia in musica della storia dell’Opera. Ci è sembrato utile e interessante mettere in scena nello stesso cartellone il dramma serio handeliano contaminato dalla scuola napoletana con la prima commedia per musica napoletana, scritta da Scarlatti, in lingua italiana e non napoletana, che ha all’interno quella che poi Goldoni nel teatro settecentesco, nel teatro di prosa, trasformerà nella commedia umana.

Anche l’opera in masseria è una peculiarità del Festival?

È una specialità del nostro festival, una nostra invenzione che ogni anno trova un pubblico sempre più convinto e sempre più entusiasta; è un’occasione fantastica per sentire musica e per vivere un’esperienza teatrale in un contesto architettonico incredibile, in piena campagna, in queste ville/fattorie del seicento e settecento, ristrutturate, sotto le stelle. Un’altra novità di quest’anno è che l’opera di Scarlatti verrà suonata con strumenti d’epoca.

Come possiamo definire il belcantismo?

La definizione più significativa e a cui io faccio sempre riferimento è quella di Rodolfo Celletti. Il belcanto è quella particolare forma di teatro musicale che si può leggere come un rigorosissimo sistema di filosofia estetica, in cui il modo di esprimere il contenuto è più importante del contenuto stesso. In altre parole, il belcanto presuppone un bagaglio tecnico e una consapevolezza stilistico-estetica per l’interprete che gli consente di divenire lui stesso coautore e di tradurre quello che l’autore aveva lasciato come codice scritto in forma sintetica, dando per scontato una serie di possibilità esecutive che all’epoca erano date per assodate, per note, per patrimonio, e che oggi invece richiedono un approfondimento, uno studio per essere riproposte tali quali. L’altra caratteristica fondamentale che definisce il belcantismo o il belcanto è quella della sua visione estremamente astratta e distaccata da quella che è la realtà del sentire e del sentimento. Al compositore, all’autore e quindi all’interprete belcantistico non interessa minimamente imitare la concretezza del sentimento, interessa sublimarla, trasformarla in un simbolo completamente astratto, codificato, riconoscibile in base a un abbecedario, a un sistema di riferimento all’epoca condiviso, che affondava le sue radici nella poetica degli affetti monteverdiana. È un codice di assoluta astrazione, che gioca anche molto sull’ambiguità ad esempio dei ruoli sessuali. Il castrato poteva rappresentare, con la sua voce assolutamente asessuata e androgina, completamente svincolata dalla natura quotidiana della voce umana, personaggi i più disparati tra loro. Anche certi eccessi di registri o certi passaggi di abilità virtuosistica acrobatica non erano mai però fini a se stessi: erano sempre rigorosamente riconducibili a un codice, a un patrimonio condiviso. Oggi la scuola del belcanto è una scuola di cui si sono smarrite le tracce. A causa di ragioni storiche: man mano che l’urgenza della realtà del sentire e dell’imitazione del reale hanno preso il sopravvento nella storia dell’Opera, la voce umana, appunto per essere più aderente possibile alla tangibilità del sentimento, si è dovuta spingere su emissioni sempre più vicine a quelle della quotidianità, e quindi fino ad arrivare al declamato, all’urlo, al grido, come se non ci fosse alcuna differenza fra la finzione del teatro e la realtà. Inoltre, questo cambiamento, questa evoluzione di gusto ha fatto perdere completamente memoria della tecnica belcantistica, perché spingendo la voce umana su quel declamato, gonfiandosi le orchestre, gli organici e aumentando le sonorità, la tecnica ha dovuto adattarsi a finalità espressive completamente diverse, completamente all’opposto dell’astrazione cristallina del belcanto. Siamo dovuti arrivare agli anni ’70, con Celletti e Martina Franca, poi Pesaro e Rossini, la renaissance barocca del Nord Europa per porci la domanda: ma come si cantava nel ‘600 e nel ‘700? Qual era la tecnica? Il dibattito è ancora aperto, però è un fatto culturale, estetico, filosofico estremamente significativo e complesso.

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Informazioni e programma completo del Festival all’indirizzo www.festivaldellavalleditria.it




D-Wine: GIAI VINI

di Alessandro Oteri – La Puglia, una delle più belle regioni d’Italia: la terra rossa bruciata, la natura aspra e contorta, il paesaggio marino che lascia senza respiro, l’odore della salsedine e della macchia mediterranea. I profumi e i colori di questa straordinaria regione si assaporano nelle bottiglie di Giai Vini, ottenute dai circa 30 ettari di vigneti dell’azienda distribuiti nell’arco jonico.

Daniele Marinelli e sua moglie Tiziana sono la giovane coppia che, con dedizione e amore, porta avanti la ditta di famiglia fondata nel 1943 dal nonno di Daniele.

Tutte le etichette di Giai Vini sono dedicate alla famiglia – dicono Daniele e Tiziana – così come lo stesso nome della cantina. Giai Vini, infatti, vuol dire Giovanni, il nome dato al nostro bambino, scomparso prematuramente. Così lo chiamava sua sorella Lucrezia, nella lingua imperfetta dei suoi 3 anni. Come una melodia, il suo nome risuona in casa, in cantina, tra i filari delle vigne, in ogni goccia del nostro vino. A Lui dedichiamo la nostra rinascita, la nostra azienda”.

L’azienda produce principalmente primitivo, negramaro, malvasia nera, un po’ di malvasia bianca e chardonnay. Il pezzo forte, senza voler togliere nulla altre altre bottiglie, è ovviamente il Primitivo di Manduria.

Lucrè Primitivo di Manduria D.O.P., con il suo colore rosso rubino, quel profumo leggero e fruttato che lo contraddistingue, la sua intensità morbida e corposa allo stesso tempo, è perfetto da accompagnare a piatti robusti di carne, salumi, formaggi a pasta dura.

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Corimia Salento I.G.P. Primitivo, dal colore rosso tendente al violaceo, dal sapore pieno e fortemente aromatico, leggermente meno corposo di Lucrè, si sposa, anch’esso, con piatti carne, salumi e formaggi a pasta dura.

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Anche i nomi di queste bottiglie hanno un significato particolare per Daniele e Tiziana. “Lucrè è il diminutivo della nostra primogenita, Lucrezia, mentre Cori Mia in dialetto vuol dire Cuore mio cioè la famiglia, il fulcro”.

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Famiglia, amore e tradizione sono gli ingredienti di questi straordinari vini.

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Si ride e si pensa con “Chi m’ha visto”

In attesa dei capolavori della Mostra del Cinema di Venezia, in corso proprio in questi giorni, prepariamoci a ridere e a riflettere con il film italiano “Chi m’ha visto”, con Pierfrancesco Favino e Giuseppe Fiorello, regia di Alessandro Pondi, nelle sale dal 28 settembre. Un film che riporta al gusto della commedia all’italiana degli anni ’60 dei Maestri Mario Monicelli, Dino Risi e Luigi Comencini.

La pellicola, ispirata a un fatto vero, è ambientata nella Puglia dei giorni nostri e racconta la storia rocambolesca, comica e grottesca di Martino Piccione, chitarrista di grande talento che collabora con tutte le più grandi star della musica leggera italiana. Peccato però che nessuno si accorga di lui, perché l’attenzione del pubblico è tutta rivolta al cantante famoso di turno. D’altra parte il mondo dello spettacolo è così: non conta quanto vali, conta quanto appari e proprio in nome di una esagerata ed effimera apparenza, si finisce per dimenticare la sostanza delle cose. Tutte le volte che Martino ritorna a casa nel suo paesino in Puglia, deve subire le ironie dei suoi concittadini che lo sfottono per la sua ossessione di diventare un musicista famoso. Con l’aiuto del suo migliore amico Peppino, un “cowboy di paese” con pochi grilli per la testa, Martino decide di mettere in atto un piano strampalato per attirare finalmente l’attenzione mediatica su di sé: organizza la propria sparizione. Le conseguenze di questo gesto estremo sono del tutto inaspettate.

Il film rappresenta il debutto alla regia di Alessandro Pondi, scrittore e sceneggiatore che per il cinema ha firmato pellicole come “K il bandito” di Martin Donovan, “Litium Cospiracy” di Davide Marengo, “Mio papà” di Giulio Base, “Poli Opposti”, “Natale a Beverly Hills” e “Natale in Sud Africa”.

Oltre ai protagonisti Pierfrancesco Favino e Giuseppe Fiorello, il cast del film è di tutto rispetto: Mariela Garriga, Dino Abbrescia, Sabrina Impacciatore, insieme a tantissimi altri ospiti sorprendenti, eccezionalmente in prestito al cinema per l’occasione.

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In Puglia in bici tra ulivi e mare

Oliveti millenari, dune e mare cristallino. Un week end in bici nell’Alto Salento, in Puglia, alla scoperta del Parco naturale regionale delle Dune Costiere da Torre Canne a Torre San Leonardo, sono un’esperienza rigenerante.  Il parco si estende tra le due torri aragonesi poste nel territorio dei comuni di Ostuni e Fasano per un perimetro di 55 km  e vi si può accedere sia dal litorale (tra Torre Canne e Torre san Leonardo-Pilone) sia dall’entroterra. Ela bici è il mezzo ideale per esplorare i 1.100 ettari del Parco che si estende tra Ostuni e Fasano, pedalando tra le distese di ulivi e lasciandosi sedurre dalla bellezza di un territorio costellato di muretti a secco, masserie fortificate e frantoi ipogei (sotterranei). Non occorre essere dei ciclisti professionisti, per immergersi nei colori e nei profumi del Salento e, allo stesso tempo, di muoversi in piena libertà tra soste golose e deviazioni archeologiche e naturalistiche. Il territorio è sostanzialmente pianeggiante e i percorsi sono ben tenuti e segnalati.

Per scoprire quest’angolo di Puglia, il percorso migliore parte dall’alberga – bici ospitato nell’ex casa cantoniera di Montalbano di Fasano, sull’ex statale 16, dove si può lasciare la macchina, affittare, se necessario, una bici  e, con pochi euro in più, unirsi a visite guidate. Per una prima esplorazione del territorio, si può scegliere un itinerario ad anello che si snoda dall’ex casa cantoniera per 18 km tra uliveti, masserie e dune fino al mare su stradine pianeggianti a basso traffico e, in parte, sterrate. Un breve raccordo conduce alla via Traiana, strada tracciata agli inizi del II secolo d.C. per collegare Roma al porto di Brindisi e facilitare, tra l’altro, il trasporto dell’olio. E, proprio all’incrocio con l’antica via dell’‘oro liquido’, tra gli ulivi millenari, si erge un colossale dolmen, monumento megalitico di 4mila anni fa e costruito, pare, per il culto dei morti. Dalla via Traiana poi, si prende una stradina sterrata diretta verso la foce del fiume Morelli attraverso un susseguirsi di scenari che hanno fatto da sfondo a numerosi set dai film con Domenico Modugno, al ‘Il commissario Rex” fino a ‘Braccialetti rossi’”.  Si arriva infine alla zona umida del Fiume Morelli, un angolo incontaminato di natura dominato da dune fossili con oltre 120mila anni di storia alle spalle e costellato da specchi di acqua dolce dove si possono osservare anatre, uccelli migratori, canneti e ginepri pluricentenari. Meteo permettendo, un tuffo in mare nella spiaggia del Lido Morelli, magari al tramonto, rende la giornata indimenticabile.

Per esplorare il Parco delle Dune (e non solo…) un’ottima base di partenza è La Masseria Brancati (330.822910) situata nella piana degli ulivi plurisecolari della “Marina di Ostuni”, in una posizione ideale per programmare itinerari agli scavi di Egnazia, ai trulli di Alberobello, alle grotte di Castellana e per la Valle d’ Itria.  La quattrocentesca Masseria Carparelli (333.8196550) vanta un ristorante specializzato in prodotti a chilometro zero (‘A Massarija’); la Masseria Il Frantoio (380.4329301), fondata nel 1500, è sia hotel di charme sia azienda biologica con produzione e vendita di olio proprio, mentre Agriturismo Masseria Salamina (080 4897307)  è il luogo ideale dove trascorrere una vacanza fatta di natura, cibi genuini e fascino di tempi passati.

 

 




Cantine San Marzano: profumi, sapori e cultura della Puglia

di Alessandro Oteri – Le previsioni del meteo sono catastrofiche: una tempesta di feste si abbatterà sulla penisola dal 25 dicembre, con raffiche di pranzi di grandi consistenza. E noi siamo pronti: forchetta e coltello alla mano, dopo un anno di allenamento della mascella, lontani dalla prova costume, non vediamo l’ora di mangiare tutte le prelibatezze che Natale & c. offrono. Antipasti di terra e di mare, caldi e freddi, alici marinate, una ricca savoiarda, pasta all’uovo fatta in casa con ragù che ha bollito giorni, ravioli in brodo, tacchino ripieno di castagne o faraona alla melagrana, insalata russa, capricciosa, panettone con crema al mascarpone, zabaione allo champagne e chi più ne ha, più ne metta. Di fronte a tutto questo ben di dio, non si può trascurare una cosa molto importante: il vino! Eh sì, signori miei, che pasto sarebbe senza il vino? Per pranzi simili, poi, ci vorrebbe un buon vino: corposo, intenso e profumato. Ovviamente italiano.

Io quest’anno ho scelto di accompagnare i pasti delle mie feste con dei vini che ritengo rappresentino al meglio la nostra nazione e la nostra tradizione: i vini di Cantine San Marzano. Ottimi rossi corposi, ricchi, intensi ma morbidi al palato e bianchi da un gusto che non si può che definire mediterraneo, perché, se chiudi gli occhi mentre li sorseggi, ti sembrerà di essere vicino al mare, tra ulivi odorosi.

Cantine San Marzano porta la Puglia in tavola. I suoi vini nascono proprio nell’area Dop del Primitivo di Manduria: a cavallo tra il mar Ionio e l’Adriatico, tra le province di Taranto e Brindisi, dove il suolo è arido, argilloso e calcareo, a tessitura fine, e i vigneti poggiano su strati di roccia tufacea molto superficiali. È questo il tipico terroir mediterraneo, caratterizzato anche da un’intensa presenza di ossidi di ferro, che conferisce quella nota colorazione rossa alla terra. Una zona che risente anche di un clima estremo: arsura, brina, venti di scirocco, alte temperature, forti escursioni termiche fra il giorno e la notte e venti provenienti delle vicine coste, da cui la vite, pur provata, riesce comunque a trarre giovamento.

Da questi vitigni nascono vini pregiati e raffinati, ottimi per pranzi ricchi e abbondanti, come quelli che ci aspettano nei prossimi giorni, ma anche per i pasti di ogni giorno o come vini da meditazione. Cantine San Marzano ha nel suo listino vini per ogni occasione o, meglio, adatti per le più diverse portate.

Indiscusso padrone di casa è il SESSANTANNI Primitivo di Manduria DOP, un vino che ha segnato la storia delle Cantine: corposo, ma morbido, di colore rosso rubino intenso, profumo fruttato e leggermente speziato, con un retrogusto di cacao, caffè e vaniglia, si accompagna perfettamente a robusti primi o piatti di carne. La sua evoluzione è ANNIVERSARIO 62 Primitivo di Manduria DOP Riserva. Entrambi sono anche vini da meditazione.

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EDDA (Lei) Bianco Salento IGP è il bianco ideale da abbinare ai piatti di pesce o ai formaggi. è un vino fresco, colore paglierino con riflessi dorati e un profumo intenso floreale, di pesca e vaniglia, un vino di tempra minerale, come l’anima di una elegante donna salentina. Un fresco profumo di Mediterraneo.

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LIBOLL è invece il fresco, brioso e gradevole spumante Extra Dry della casa, ottimo per l’aperitivo o per accompagnare antipasti di mare. Ha un perlage vivace e una piacevole spuma che riempie il palato, lasciando un fresco sentore di delicati fiori.

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E per concludere il pasto, ottimo come accompagnamento al dessert, 11 FILARI: un intenso vino da meditazione color rosso rubino, con percezione di miele mitigato da una giusta acidità.

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Con Cantine San Marzano, leader del settore vitivinicolo pugliese fin dal 1962, si portano in tavola i profumi, i sapori e la cultura della Puglia.

Che dire di più? Provateli e buone feste a tutti.

Per info www.cantinesanmarzano.com