1

Riccardo III, Shakespeare come un videogioco

Riccardo III di Corrado d’Elia è lo spettacolo da vedere di questa stagione teatrale milanese troppo spesso appiattata sulla facile condiscendenza verso il pubblico. È Shakespeare ovvio ma niente paura: lo spettacolo dura un’ora, si segue perfettamente pur senza avere alcuna conoscenza della Guerra delle due Rose che ha attraversato il Quattrocento inglese (e che, per l’appunto termina con la sanguinosa battaglia in cui Riccardo III, ultimo erede della casata di York, perde la vita sul campo di  Bosworth) e, grazie a una resa scenica e grafica (a firma di Chiara Salvucci) elegante, stilizzata e di sicuro impatto, è tutto fuorché scontato.
È un Riccardo III allestito come un vero e proprio video game con tanto di punteggio per ogni completamento dei diversi livelli che conducono al “game over” e musica celebrativa ad ogni passaggio di livello in livello. Un allestimento geniale considerando che proprio Riccardo III, così come dipinto da William Shakespeare, sembra il malvagio burattinaio che scala i vertici della corona inglese attraverso sottili giochi di astuzie, intrighi, lotte di potere e crudeli ricatti (è passato alla storia per aver imprigionato e, presumibilmente, ucciso i due principini nella Torre!), salvo poi essere sommerso dallo stesso clima d’odio da lui generato e, lasciato solo da tutti, morire sul campo di battaglia senza possibilità di vie di fughe (“Un cavallo! Il mio regno per un cavallo!”).
E, d’altro canto,  i confini storici non servono quando protagonista della scena è la brama di potere oltre ogni pudore che assimila il Riccardo III di Shakespeare ad ogni altro tiranno politico o di impresa gravato dalla stessa ansia di raggiungere i propri obbiettivi, abbattendo ad uno ad uno gli ostacoli in vista del “game over” e piegano alla propria volontà le “pedine” sul campo . La paura, l’odio, il sospetto e l’ambizione. L’allestimento mette a nudo i sentimenti primari al di fuori di qualsiasi contesto storico o geografico.
A condurre il gioco è quindi Riccardo III stesso, una mente diabolica che saltando di livello in livello dirige, complotta, seduce e uccide, in una progressione vertiginosa fino al “game over” finale, tra luci psichedeliche che sottolineano i disegni geometrici disegnati sul palco quasi tramutato in scacchiera e una musica incalzante che scandisce, inesorabile, i diversi momenti del dramma. È il Big Generator, la mente diabolica assetata di potere e di gloria, capace di desiderare tutto, il grande virus che conduce il gioco, manovrando il joystick di un videogame dove tutti alla fine, nemici e complici, risultano uguali pedine da abbattere o conquistare, a servizio della propria ambizione.
Per il pubblico si tratta di un’esperienza intesa, in cui cui sono i sentimenti e le contraddizioni del potere a occupare la scena più che i semplici personaggi del dramma Shakespeariano, una quadro indimenticabile sospeso tra incubo e realtà.

 

  SAVE THE DATE

Dal 20 febbraio al 4 marzo 2018
MTM Teatro Litta, corso Magenta 24, Milano
RICCARDO III
 
adattamento e regia di Corrado d’Elia
 con Andrea Bonati, Raffaella Boscolo, Marco Brambilla, Giovanni Carretti, Paolo Cosenza, Corrado d’Elia, Gianni Quillico, Chiara Salvucci, Antonio Valentino
ideazione scenica e grafica Chiara Salvucci
produzione Compagnia Corrado d’Elia

biglietti: 24 euro



Halloween con il Rocky Horror Show

Con un allestimento da kolossal, ricco di luci, tacchi a spillo ed effetti speciali, una compagnia di performer d’eccezione e la presenza di Claudio Bisio nel ruolo di narratore,  il Richard O’ Brian’ s  Rocky Horror Show  torna a far ballare gli spettatori. Divertente e capace di entusiasmante anche (i pochi) che non hanno mai sentito parlare prima del leggendario musical (anche grazie a “Bisio” Show che in una performance alla Zelig traduci i passaggi fondamentali dello show), il Rocky Horror Show è lo spettacolo ideale per festeggiare Halloween …e i giorni seguenti. Fino al 5 novembre il Rocky Horror Show e in scena al Teatro degli Arcimboldi, di Milano per poi perseguire a Firenze, dal 7 all’11 novembre, al Nelson Mandela Forum, le sole due in Italia per la tournée europea della produzione internazionale firmata BB Promotion Gmb.

Cast strepitoso, con l’istrionica e irriverente interpretazione di  Frank‘n‘Furter di  Gary Tushaw che canta “Rose tint my world” circondato da piume di struzzo in versione Marylin, un potente Riff Raff interpretato da Stuart Matthew Price Sophie Isaacs nel ruolo di una Janet particolarmente grintosa. Curato l’allestimento e i costumi di scena scintillanti. Un vero e prprio spettacolod a West End nel cuore di Milano.

Fin dal suo debutto assoluto nel 1973 al Royal Court di Londra, nessun altro musical al mondo come il Rocky Horror Show è stato più amato, vissuto intensamente e celebrato con entusiasmo dal pubblico. Uno spettacolo leggendario, tradotto in tutte le lingue del Mondo e visto in tutti e cinque i continenti da oltre 20 milioni di persone.  Definito “la madre di tutti i musical”, The Rocky Horror Show è uno spettacolo unico nel suo genere, con una colonna sonora strepitosa, protagonisti irriverenti e bizzarri e una speciale capacità di coinvolgere e interagire con il pubblico. È proprio questo a fare del Rocky un cult ancora indispensabile. Ogni sera il pubblico è protagonista, segue un copione non scritto – ma ben noto – fatto di gesti e parole, è spinto dagli attori in scena a interpretare gag esilaranti in risposta alle loro battute, rendendo unica e irripetibile ogni replica.

  Rocky Horror Show – DOVE, COME E A QUANTO

Fino al 5 novembre: Teatro Arcimboldi di Milano. Biglietti da 28,75 euro
 Da martedì a venerdì ore 21.00Sabato e domenica ore 16.00 e 21.00

 

Dal 7 all’11 novembre- Mandela Forum, Firenze. Biglietti da 28,75 euro
 Da martedì a venerdì ore 21.00 – Sabato e domenica ore 16.00 e 21.00

 

 

 

 




“Musica ribelle” crea un ponte con gli Anni ’70

“Sai chi era Victor Jara?” è la domanda che il sessantanne Hugo, l’alter ego nella finzione di Eugenio Finardi,  rivolge a Lara93 e che racchiude l’essenza di “Musica ribelle”: il confronto tra generazioni apparentemente e inconciliabili e separate da quarant’anni di storia ma che, in fondo, se imparano a comunicare possono trovare molti punti di incontro. A iniziare dalla musica, la musica contro o appunto la “Musica ribelle”  quella “che ti ti dice di uscire che ti urla di cambiare di mollare le menate e di metterti a lottare”.

Il musical, diretto da Emanuele Gamba,  in scena fino a domenica 8 ottobre al Teatro Nuovo di Milano è prodotto da Todomodo e Bags Entertainment  e nasce  dalla scelta precisa di scrivere e realizzare uno spettacolo sulla musica e sulla testimonianza artistica Eugenio Finardi.

La scena si apre su una Milano contemporanea dove Hugo affitta un  vecchio scantinato da tempo in disuso a una “crew” di giovani rapper, graffittari, dj capitanati da Lara93 alle prese con la preparazione di un un rave notturno. Come spiega Hugo in realtà il suo è stato quasi un messaggio lanciato nello spazio alla ricerca di un “Extraterrestre” che potesse condividere la passione per la musica e la voglia di sognare ancora. Nello scantinato Lara93 scova i diari di Hugo che  portano la lancetta indietro al ’73 quando la stessa cantina era il covo di un collettivo politico, la sua sala prove, la sua stamperia, la sua radio libera “Nebbia” che appare e scompare e i concerti al Parco Lambro che, in un gioco di citazioni, avevano visto protagonista proprio lo stesso Finardi.  Le storie dei due protagonisti, corrono in parallelo. Sette anni per il collettivo e le storie di utopia, amore e impegno politico dei suoi protagonisti, mentre la violenza cede il posto al sogno di una rivoluzione pacifica,  sette giorni per Lara93 e il suo mondo di fuoriusciti del sistema,  dal cleptomane, alla vegana, alla narcisista.

La forza dello spettacolo è quella di non rimanere relegato all’effetto nostalgia, che pure sarebbe stata una via piuttosto semplice da seguire anche solo legando le prime canzoni di Finardi, quelle che hanno caratterizzato maggiormente il decennio della protesta. Sono infatti riproposti dal vivo, riarrangiati da Emiliano Cecere e Alberto Carbone sotto la supervisione di Finardi, “Dolce Italia”, “Trappole” “Patrizia”, “Diesel”, “Un uomo”,
“Extraterrestre”, “La radio”, e le immancabili “La Forza dell’Amore” e “Musica ribelle”  tra sonorità che vanno da quelle
rock-prog originarie degli anni ’70, a sconfinamenti d’n’b, techno, ma anche ballate e medley. Nessuna nostalgia e nessun buonismo. La violenza, le droghe, gli abusi ieri come oggi non sono nascosti e tratteggiano personaggi a tutto tondo.

“Musica ribelle” prova a far dialogare  i giovani degli Anni ’70 con i nuovi Anni ’20, trovando numerosi punti di incontro. D’altro canto, come spiega Hugo, i sogni non terminano nello spazio di una generazione anche quando questa stessa generazione ha in parte tradito l’utopia a cui aspirava quarant’anni fa e di cui ha lasciato eredità artistiche ancora attuali. Magari cambia il modo. gli strumenti a disposizione e probabilmente anche mode e musica,  ma la ricerca della felicità, anche se relegata temporaneamente in uno scantinato, non tramonta e neppure il sogno di realizzare le proprie aspirazioni artistiche, musicali o meno.

“Ho sempre pensato che la creazione di questo specifico racconto per il palcoscenico presentasse dei livelli di complessità molto alti: due epoche da raccontare, sette anni e sette giorni, un unico spazio scenico, un cast impegnato in doppi ruoli, la musica dal vivo con band da integrare nella fabula, la volontà di muovere i corpi con un linguaggio fisico inedito per il nostro teatro musicale, un immaginario video da far vibrare con la musica” ha commentato Gamba per poi aggiungere: “Una complessità che alle volte è sembrata insormontabile ma che poco alla volta si è rivelata lo strumento
necessario e ineludibile per raccontare la complessità della vita e delle relazioni di dieci giovani, uomini e donne in lotta per la determinazione di un futuro degno di essere vissuto”. Una complessità che, secondo il regista, “Musica ribelle” scioglie in una verità semplice: ”  che in ogni epoca e ad ogni latitudine uomini e donne abbiano un bisogno pressoché unico, il bisogno di curare paure e debolezze con quella che Eugenio chiamò “la forza dell’amore”.

Applausi al cast numeroso e coinvolgente  in cui il talento scorre a fiumi. Tra i protagonisti in scena per “Musica ribelle” spiccano le voci di Arianna Battilana, in scena con le stampelle per un incidente capitato pochi giorni fa, Luca Viola  e di Federico Marignetti, già nel cast di “Spring Awakening”  e di “Romeo Giulietta” e vincitore lo scorso anno del premio Persofone come miglior attore emergente.

E per chi come me  è stato solo sfiorato dagli Anni ’70:  Victor Jara, citato in “Musica ribelle”, era un artista cileno ucciso nel settembre del 1973 nei giorni del colpo di Stato di Pinochet.  Un artista che ha pagato la ribellione sulla propria pelle e un delicato cantautore che vale la pena di cercare e ascoltare su youtube, magari partendo proprio dalla commovente “Te recuerdo Amanda” citata e cantata in “Musica ribelle”.

 

“Musica ribelle” DOVE, COME E QUANDO
Fino all’8 ottobre al Teatro Nuovo di Milano h 20.45 e domenica alle 15.30
Biglietti da 25,8 euro

 




Diana Ross regala magia

di Francesca VercesiNew York City Center, New York, 24-29 aprile 2017. Non è scontato che, dopo un concerto, si riesca a trattenere in sé cosi tanta energia positiva da essere poi in grado di trasferirla ad altri. Si esce emotivamente scossi (e molto sorridenti) dopo quasi due ore di pura adrenalina dalle date live newyorchesi di Diana Ross. Pura energia, intimità e vigore. Questo è il mix sapiente che la prima vera diva della black music ha regalato a un teatro strapieno. L’artista che ha spalancato le porte del successo a popstar come Beyoncé o Rihanna non ha cantato mai in playback, superando brillantemente la prova di un’audience appassionata ma molto critica. Una leggenda vivente, Diana Ross.

L’artista nata a Detroit, Usa, il 26 marzo 1944 al New York City Center nelle date di New York esegue il suo repertorio d’elezione, le canzoni principali che coprono la sua carriera. Ampiamente acclamata come una delle più belle voci, gli innumerevoli successi della Ross si sentono tutti: “Ain’t No Mountain High Enough,” “Upside Down,” “I’m Coming Out,” “Stop! In the Name of Love,” “Where Did Our Love Go,” “You Keep Me Hangin’ On,” e “Endless Love.” La cantante ha recentemente ricevuto la Presidential Medal of Freedom, l’onore civile più alto della nazione. È stata candidata all’Oscar, è stata inserita nella Rock & Roll Hall of Fame e ha ricevuto il premio Grammy Lifetime Achievement Award. Da sempre legata alla Motown, debuttò come cantante nel 1958 e nel 1960 fu parte del gruppo delle Supremes, con cui raggiunse per dodici volte il primo posto nelle classifiche di Billboard in soli cinque anni, con successi (appunto) come Baby Love, Stop! In the Name of Love, You Can’t Hurry Love, You Keep Me Hanging On, Love Child e Reflections. Nel 1970 ha intrapreso la carriera da solista, proseguita con successo sino alla fine degli anni novanta. Nella sua lunghissima carriera ha tenuto più di duemila concerti in ogni parte del mondo, cantando per Re, Regine e Capi di Stato e partecipando agli eventi più importanti negli Stati Uniti d’America e nel resto del mondo.

Al concerto del City Center la Ross ha esibito grazia e glamour, in un perfetto equilibrio tra sogno e realtà, con disinvoltura e stile. Voce potente e senza sbavature. Sapiente l’uso delle luci sul palco. Nell’aria non mancava la magia.




“Lo Schiaccianoci On Ice” è magia sul ghiaccio

“Lo Schiaccianoci on Ice”, in scena al Teatro Arcimboldi di Milano fino a domenica 22 gennaio, è un sogno raffinato dove scenografie, costumi e acrobazie sui pattini e in aria lasciano grandi e piccini a blocca aperta. Sono lontani i tempi dei lustrini di Holidays on Ice, che pure ha fatto storia, così come dei diversi tour della vittoria che portavano nei palaghiaccio di tutto il mondo i campioni del ghiaccio. “Lo Schiaccianoci On Ice” è molto più vicino al balletto classico nell’eleganza dei costumi e nelle corografie di gruppo, pur non tralasciando l’aspetto acrobatico, trottole dalle linee incredibile, prese impavide e qualche salto anche lanciato, e neppure la dimensione del sogno tra giocolieri e illusionisti. Il tutto su un palco teatrale che via via si trasforma, con una cura quasi maniacale del dettaglio, in sfarzoso palazzo dei primi del ‘900, foresta e castello dei dolci abitato da curiosi personaggi su cui regna la Fata Confetto. Una scenografia che riduce ancora di più le dimensioni della pista (a 16 metri per 16 metri) per gli artisti che, con bravura e grazia quasi sovraumana, condividono più volte la scena e riescono, nonostante le dimensioni limitate (rispetto a quelle normalmente necessarie per gli atleti) a prender egualmente la velocità necessaria a saltare o per effettuare piroette.

In scena, o meglio, sul ghiaccio per “Lo Schiaccianoci On Ice”  ci sono ben 26 pattinatori della compagnia australiana The Imperial Ice Stars diretti da  Tony Mercer. Tra i protagonisti  Evgeny Platov, campione del mondo e olimpico (in coppia con Oksana Grishuk) e  Maxim Staviski, campione mondiale e(in coppia con Albena Petrova Denkova).

Basato sulla partitura di Tchaikovsky, “Lo Schiaccianoci On Ice”, è ambientato nel 1900 a San Pietroburgo e rimette in scena la fiaba classica russa della piccola Maria, che con il suo amore dona la vita allo schiaccianoci, un magico regalo di Natale del suo misterioso padrino. Iniziano così le avventure con il re dei topi, il principe incantato e la Fata Confetto. “La danza su ghiaccio è una forma d’arte che si presta magnificamente a questo racconto. Non solo la storia include alcune romantici ‘adagi’ con prese e salti, ma l’esotico divertissement proveniente da Spagna, Cina, Arabia, Russia ed Egitto permette di inserire nelle coreografie anche acrobazie, voli, fuoco e magia.”

DOVE, COME E A QUANTO “Lo Schiaccianoci On Ice”
Teatro Arcimboldi di Milano 17-20 gennaio h20.30 e le matinée del week end alle 15.30
Biglietti da 20 euro.

 

 




“LA PELLE DELL’ORSO”, un viaggio interiore tra stupendi paesaggi

di Elisa Pedini – Arriva al cinema, dal 3 novembre, “LA PELLE DELL’ORSO”, vincitore di numerosi premi al Festival Annecy Cinéma Italien 2016, per la regia dell’esordiente Marco Segato e tratto dall’omonimo romanzo di formazione di Matteo Righetto.

“LA PELLE DELL’ORSO” è una pellicola molto paesaggistica, riflessiva, onesta, pura, schiva e scarna come i protagonisti della vicenda. Il “set-up” della sceneggiatura mette subito lo spettatore all’interno della realtà fisica e umana dei protagonisti. Le prime scene ci dicono tutto quanto c’è da sapere, per avere gli strumenti di decodifica di tutto il resto del film. “LA PELLE DELL’ORSO”,  è ambientato negli anni Cinquanta, in un paese rurale del trevigiano, ai piedi delle Dolomiti: gente semplice e laboriosa, dai volti segnati dalla fatica e che si spezza la schiena nel duro lavoro, nei campi o alla cava.

“LA PELLE DELL’ORSO”, si apre con una specie di parata in maschera e il sostrato superstizioso ed evocativo, che la anima, è ben evidente. La vita che conducono gli abitanti del paese è altrettanto chiara allo spettatore. Vengono introdotti, anche, i due personaggi principali: Pietro Sieff e suo figlio, Domenico. Il muro che divide i due s’estrinseca nei loro silenzi, nella solitudine delle loro esistenze. Dividono lo stesso tetto, ma non la vita. Da un lato, un padre, che viene trattato da tutti come una “bestia”, ingiuriato, schernito e che trova nella bottiglia il suo rifugio. Dall’altro, un figlio, molto più maturo dei suoi quattordici anni, che da una mano agli zii con gli animali, si occupa della casa e del padre. Pietro, lavora alla cava e ha un rapporto difficile col capo, Crepaz. Un giorno, un orso bruno, che vive nei boschi, entra in una stalla e uccide una mucca. È già noto alla popolazione, la quale ha un approccio, ovviamente, di superstizioso terrore nei confronti dell’accaduto e qui, ci riallacciamo all’idea che ci ha trasmesso quella parata esorcizzante, in apertura del film. L’animale non è visto come una creatura affamata, ma è “el diàol”, il diavolo, astuto e cattivo, che ormai conosce bene tutti loro e i loro fucili. La sera, all’osteria, gli uomini ne parlano. Pietro, in un moto d’orgoglio e forse, anche, per riscattare la sua persona agli occhi degli altri, scommette con Crepaz che ucciderà l’orso. Un anno di paga, se vince. Se perde, lavorerà un anno gratis. Qui, inizia la “zona centrale” di “LA PELLE DELL’ORSO”, che si svolgerà tutta nel bosco, fra paesaggi stupendi. Pietro e Domenico si trovano da soli verso l’ignoto, alla ricerca del “diàol”, ma anche dei loro demoni interiori.

Il ritmo è lento, scandito dal silenzio che viene rotto solo da brevi, lapidari, scarni dialoghi, che, riverberano perfettamente le personalità dei due protagonisti, seppur s’avverte, in realtà, l’esigenza di una maggiore dinamicità, se non d’azione, quanto meno, dialogica. Certo, tutta la situazione è ben coerente e comprensibile, date le premesse molto chiare e approfondite del “set-up”. Siamo di fronte a due personalità chiuse, schive, che non hanno molto da dirsi, perché, di fatto, non si conoscono, dunque, non possiamo, naturalmente, aspettarci che si trasformino in due garruli ciarlieri, sarebbe incoerente e poco credibile.

Altresì, va sottolineato il gioco della regia con la telecamera, che passa dalla lucida messa a fuoco sul primo piano, che ci rivela, in modo inequivocabile, i pensieri e i moti dell’anima del personaggio in quel momento; all’apertura sul paesaggio circostante. Questo sistema d’interiorizzazione ed esteriorizzazione d’un pensiero, consente allo spettatore d’inferire, non solo quanto sta avvenendo dentro la testa dei protagonisti, ma anche come questo si riverbera sulle loro azioni.

La ricerca dell’orso, alla fine, diviene una ricerca di sé e dell’altro. In questi silenzi e in quelle battute, scambiate tra padre e figlio, troviamo la catarsi dell’uno e la presa di coscienza dell’altro. Un ritrovarsi, un supportarsi, che, però, va detto, non muta, in modo molto realistico, quella che è la natura dei due protagonisti. Raramente si trova questa verosimiglianza al processo mentale umano: i due personaggi evolvono e trovano il loro modo di comunicare e il loro modo di conoscersi, senza mutare il loro carattere.

La mancanza di spettacolarizzazione, rende ancora più realistica questa pellicola, che si nutre di umanità per un verso e di paesaggi per l’altro.  La “conclusione” del film è molto rapida, come lo è stato il “set-up”, eppure, di nuovo, è l’indugio della telecamera sui volti che ci consente di capire molto più di quanto i personaggi esprimano a parole.

“LA PELLE DELL’ORSO” è, tecnicamente, un buon prodotto, solido e coerente nel suo svolgersi: il fulcro, ovvero, il rapporto padre-figlio, non viene mai perso di vista e resta sempre in primo piano. Buona, anche, l’interpretazione del cast: Marco Paolini e Leonardo Mason, rispettivamente nei ruoli di Pietro e Domenico Sieff, Paolo Pierobon, nella parte di Crepaz e Lucia Mascino, in quella di Sara.




“3 GENERATIONS”: UN’OTTIMA OCCASIONE PERDUTA

di Elisa Pedini – Arriva al cinema dal 24 novembre “3 GENERATIONS – UNA FAMIGLIA QUASI PERFETTA”, per la regia di Gaby Dellal. Una commedia tenera, delicata, ironica, piena di sentimento e buoni propositi, con una Susan Sarandon semplicemente divina e che da sola regge e vale tutto il film. Incantevole anche l’interpretazione di Elle Fanning e molto intensa quella di Naomi Watts. Nonostante questo, la commedia risulta incoerente e scricchiola. Peccato davvero.

Alcuni l’hanno apprezzata in sala; ma, a me, ha lasciato perplessa e non ha convinto. Troppe le contraddizioni per fare di “3 GENERATIONS” una pellicola solida. Sono andata a vedere questo film, piena di grandi aspettative, date dalla tematica trattata, decisamente coraggiosa e nuova, perché non si parla spesso dei transgender; ne sono uscita, infastidita. Una commedia dai toni troppo soffusi per far ridere, se non sporadicamente. Tuttavia, non la si può neppure definire “cinema impegnato”, nonostante la tematica, perché manca totalmente d’introspezione psicologica e del singolo e del sociale.

Ma, andiamo ad analizzare “3 GENERATIONS” per spiegare la mia posizione. Questa la trama: Ray, è un ragazzo bello, coraggioso, forte, deciso e vive con la sua mamma single, Maggie, a casa della nonna, Dolly, detta Dodo: donna eclettica, liberale, colta, raffinata e lesbica, che condivide amorevolmente la sua vita con la compagna di lunga data, Frances, detta Honey. Tuttavia, Ray, è nato Ramona e vuole intraprendere la terapia ormonale per essere, finalmente, se stesso: un ragazzo a tutti gli effetti. Per lui, è uno stop-and-go. Vuole cambiare scuola e accoglie con gran gioia l’evenienza di cambiare casa. Una nuova nascita, praticamente. Messaggio bellissimo. Si frappongono, fra lui e il suo desiderio, due cose: le remore della nonna e il fatto che la terapia richieda l’autorizzazione di entrambi i genitori, cosa che obbliga Maggie a dover fare i conti col suo passato.

Va premesso che la regista di “3 GENERATIONS” specifica: «Quando il film inizia, è già stata presa una decisione; si è già verificato un processo», pertanto, non ci si aspetta una particolare introspezione psicologica dei personaggi, perché, si presuppone, che tutti i traumi, le crisi, gli eventi drammatici, sia privati che sociali, siano stati già affrontati e superati. Difatti, all’inizio del film, vediamo Ray andare da un medico, con sua mamma e sua nonna, per parlare della cura ormonale che deve intraprendere. Ora, si presuppone, che se ne sia già parlato in casa.

Tuttavia, ecco, la prima contraddizione: Dolly non comprende. Susan Sarandon sente l’esigenza di giustificare il suo personaggio dicendo e cito: «Essere gay non significa approvare il cambiamento di sesso. Essere gay ha a che fare con l’orientamento sessuale, mentre essere transgender riguarda l’identità». È giusto e mi sta bene; ma, nel film, non trapela in modo così netto dai dialoghi post-incontro col medico. Inoltre, s’insiste molto sulla giovane età di Ray.

Da tutto ciò, mi domando: ma non era già stato tutto deciso? Se il film mette lo spettatore dentro una storia in cui «è già stata presa una decisione», allora, la posizione di Dolly, i dubbi sulla giovane età di Ray, le crisi di Maggie, sono fuori luogo. Se, invece, c’è ancora qualcosa da discutere, allora, non siamo dentro «una decisione già presa»; ma di fronte a una “decisione da prendere” e dunque, cadiamo nella mancanza d’introspezione psicologica. Cadiamo, altresì, nella superficialità d’una società che, senza colpo ferire, accetta Ray. Peccato che, la realtà sia ben altra. Certo, c’è una scena, di pochi secondi, in cui un ragazzotto infastidisce Ray, che reagisce proprio come un ragazzo, ovvero, attaccandolo al muro e cavandone un occhio nero. Peccato che, il ragazzotto in questione, sia il classico “bulletto”, che ha bisogno d’importunare la quiete altrui per trovare una misera giustificazione al suo inutile esistere e non rappresenta certo “la società”.

Volendo, comunque, passar sopra a quanto finora detto, invece, non posso ammettere la “gender inequality, potentemente professata. A mio avviso, questa, è l’unica vera rovina della nostra società, malata di preconcetti e luoghi comuni. Ad un certo punto, Ray parla di sé, affermando che s’è sempre sentito un ragazzo, che lo ha capito da quando aveva quattro anni, perché i suoi interessi non erano “da femmina, perché sognava di fare l’astronauta, o il cowboy e tante altre prese di posizione di questo tipo. Mi sembra ovvio: se avesse giocato a fare la mammina fasulla d’una qualche sorta di bambolotto, o la casalinga precoce col kit delle pulizie, o se avesse aspirato a fare la “moglie”, la “principessa”, o peggio, la soubrettina, sarebbe, naturalmente, cresciuto come la “femmina perfetta”. Tralascio ogni riferimento alla cronaca, ogni tipo d’esempio altisonante e qualunque invettiva, limitandomi a riflettere su di me. Da bimba, giocavo con le macchinine, i robot, a calcio e a “cowboys contro indiani”. A sedici anni, ero talmente allenata, che avevo le spalle d’un lottatore e ho fatto studi scientifici, eppure, sono femmina, fiera e convinta e pure etero. Io penso che, ognuno, è ciò che è, dentro di sé, a prescindere da ciò con cui gioca, da come si pettina, da come si veste, dallo sport che pratica, dagli studi che fa e dalla professione che sogna o sceglie. Nonostante il film sia basato su testimonianze dirette e sulla stretta cooperazione con transgender, purtroppo, non si riescono, neppure in questo contesto, a scardinare le ancestrali differenze sociali, basate sui “gender roles”. Concludo con altre due riflessioni. Dolly, si fa remore sul cambio di sesso di Ray, ma, non contesta e anzi sostiene, la condotta d’una figlia fragile, nevrotica, di facilissimi costumi e d’un’immoralità, che sta seconda solo alla Brooke di “Beautiful” e il paragone la dice già lunga. Ecco, personalmente, avrei accordato il massimo della fiducia a mio nipote, che, coi suoi sedici anni, dimostra idee chiare, profondità d’animo, coerenza morale e grandissimo coraggio, mentre, avrei pesantemente condannato mia figlia. Un’ultima cosa che mi ha infastidita, è il giudizio, mai esplicito, ma sottinteso, verso il padre di Ray.

Quest’uomo ha avuto la vita devastata da Maggie. Dopo dieci anni, se la vede ripiombare davanti, con la pretesa che firmi subito i documenti per la terapia del figlio. Personalmente, le avrei sbattuto la porta in faccia. Lui, invece, l’accoglie, nonostante abbia una nuova, fantastica famiglia, l’ascolta, nonostante lei sia psicopatica e giustamente, a mio avviso, chiede di capirci di più. A me, è sembrato un comportamento fin troppo responsabile.

In conclusione, l’impressione che ho avuto, di “3 GENERATIONS”  è quella d’un film senza coraggio: nel tentativo di restare politically correct e non turbare nessuno, finisce per restare superficiale, se non, addirittura, esporre il fianco ai detrattori della causa, che vuole, invece, difendere.

Questo slideshow richiede JavaScript.




“Cernusco: 50 anni di persone, 50 anni di storie” in 98′ minuti

di Elisa Pedini – Ci troviamo a Cernusco sul Naviglio, dove, il novembre 2015, la biblioteca civica “Lino Penati” ha compiuto cinquant’anni. Le iniziative del comune si sono protratte fino a marzo 2016 per San Giuseppe, patrono del paese. Il clou, è stato venerdì 18 marzo con i servizi bibliotecari prolungati fino alle 23 e la trasmissione, nella sala conferenze interna, d’un documentario di 98′: “Una biblioteca a Cernusco: 50 anni di persone, 50 anni di storie”, a cura del regista locale Rino Cacciola.

L’aspetto che amo di più del mio lavoro è la possibilità di dare informazione, che sia il più chiara e vera possibile. Questo mi spinge a dare voce a qualsiasi iniziativa cinematografica che mi venga segnalata, senza badare se parte da una grande casa di produzione o da una piccola amministrazione locale. Succede però, che, non sempre, ci si trovi di fronte a un prodotto di valore. Purtroppo, è questo il caso. Ma, il mio lavoro, è anche questo. Cercherò, pertanto, di dare un taglio anche “di costume” alla mia recensione per darne una visione globale perché, comunque, c’è sempre un lavoro dietro che rispetto.

Le piccole realtà locali esaltano, giustamente, quel che hanno ed essendo una piccola iniziativa, volevo curiosità interessanti da passare al pubblico: in primis, come si faccia a fare 98′ di documentario su una biblioteca di paese. Prima della proiezione, approccio il regista per una piccola intervista, per comprenderne la nascita, le problematiche incontrate e lo sviluppo. Rino Cacciola è molto imbarazzato, ma, nel mentre, piomba una signora, asserendo di conoscermi. Devo ammettere che resto interdetta. Anch’io so chi sia, dato che, peraltro, è una dipendente statale, ma mai mi permetterei d’asserire di conoscerla. Prendo l’atto come una falsa ostentazione e taccio, ma è lei stessa a darmi la chiave di lettura del suo comportamento con la domanda successiva “che fai qui?”. Ecco, lì mi è chiaro che non è ostentazione, semplicemente ignora la differenza tra “il sapere come si chiama una persona” e il “conoscere una persona”. Abbozzo un sorriso e affermo anch’io di conoscerla, la signora trotta via felice e soprattutto, il regista s’ammorbidisce. Le realtà locali sono sempre folkloristiche!

Finalmente, riesco a fare il mio lavoro. Alla seconda domanda, Rino Cacciola è, ormai, a suo agio. S’illumina. I suoi occhi brillano pieni d’entusiasmo. Vibra di passione. È lì che decido che di lui, avrei scritto. Ecco, le sue parole:

D: “Senti Rino, ma come nasce l’idea, quanto meno particolare, di fare un documentario su una biblioteca civica moderna?”

R: “L’idea non è nata da me. L’amministrazione comunale mi ha contattato per produrre un corto sui cinquant’anni della biblioteca civica, fondata nel 1965.”

D: “Un corto?! No scusa, ma allora come ci siamo arrivati a 98′?”

R: “Eh si, in effetti! È partito con l’idea d’un corto, pensandolo come un documentario d’interviste. Raccogliendo le testimonianze dei bibliotecari attuali e dei vecchi impiegati in pensione, mi resi conto d’avere in mano un contenitore di storie, che mi consentivano di raccontare il territorio attraverso i personaggi: ovvero, di raccontare la città, mettendone in evidenza la cultura. Spunti questi, che potevano diventare un lungometraggio. Così, ho presentato all’amministrazione un lavoro di 38′ e con non poche difficoltà, li ho convinti ad allungarlo a 98′. Tutto il lavoro di raccolta materiale è durato tre mesi, ma poi il montaggio e la versione definitiva sono avvenuti in poco tempo, perché l’avallo ai 98′ minuti l’ho avuto a ridosso della scadenza. Tanto che il prodotto finito, è stato visto dall’amministrazione il giorno stesso della presentazione al pubblico.”

D: “Debbo ammettere d’ammirare la tua passione. Immagino che sia stata durissima: trovare le persone, intervistarle, raccogliere tutto il materiale, selezionarlo e montarlo in modo che avesse senso. Che problematiche hai esattamente affrontato in tutto questo percorso?”

R: “Si è stato un lavoro duro, ma in realtà, una volta decisa l’impostazione, non è stato difficile. La vera grossa difficoltà è stata proprio con l’amministrazione nel far accettare l’idea d’un lungometraggio e della possibilità di raccontare la realtà cernuschese, attraverso l’evento centrale. Ho incontrato una forte diffidenza nel linguaggio del cinema.”

Mentre penso, tra me e me, che non è molto logico commissionare un documentario e poi non avere fiducia nel linguaggio del cinema, entra Comincini, il sindaco del paese. Lo invitiamo a prendere parte all’intervista; ma, lui risponde: “Eh se devo proprio, sennò…”. No, a me, il signor sindaco, non deve proprio nulla, ma al dovere civico, magari si, dato che è un dipendente statale, siamo in un luogo pubblico, l’iniziativa è comunale; magari, forse, sarebbe carino spiegare all’opinione pubblica come ha gestito, anche economicamente, l’evento. Mi dispiace per il pubblico, ma, purtroppo, non sono in grado di dare queste informazioni. Soprattutto, alla luce del fatto che il documentario, dal punto di vista valoriale, mi ha lasciata parecchio perplessa. Per 98′ ho lottato contro la noia. Sentire gente sconosciuta, senza didascalia esplicativa alcuna, che mi racconta i fatti suoi, non mi ha affatto interessata, anzi. Per contro, una critica è composta anche d’un aspetto tecnico, dove, invece, la passione di Rino Cacciola fa calmierare il giudizio. Il montaggio è curato. La consequenzialità è logica e compatta. Il coraggio di sfidarsi nel proporre un argomento, piuttosto bizzarro, è sicuramente degno di nota.




Newsies … si può fare di più

Avrebbe dovuto essere il fenomeno dell’anno, la prima produzione al di fuori degli Stati Uniti del musical definito dall’ufficio stampa “fenomeno di Broadway“, ma alla prova dei fatti le attese su Newsies sono state deluse. Ovviamente, attese relative al cosiddetto “fenomeno di Broadway” che peraltro porta anche una firma di peso, quella della Disney (o a voler essere precisi Disney Theatrical Productions) e da cui, visto anche le produzioni in giro per il mondo (da La Bella e la Bestia, a Il Re Leone a Mary Poppins), ci si poteva decisamente aspettare qualcosa di più.  A iniziare dall’accortezza nella scelta di un teatro, il Barclays Teatro Nazionale,  che per la metà dei posti presenti, quelli in galleria, offre una visuale spaccata letteralmente a metà dalla balaustra (si veda la foto). Ovviamente una difficoltà presente anche in altre tipologie di show ma che per un musical come Newsies limita fortemente l’opportunità di apprezzamento di uno spettacolo fatto di coreografie e momenti scenografici e che, per di più, ha numerosi spazi svolti in platea e quindi difficilmente godibili dall’altra metà del cielo.

La storia raccontata in Newsies è interessante e poco conosciuta ed, encomiabilmente, tratta di giustizia sociale e amicizia. Una scelta sicuramente innovativa in uno scenario dove fin troppo spesso i musical altro non rappresentano che zuccherose storie d’amore. Newsies, tratto da un film del 1992 di Kenny Ortega, racconta dello sciopero indetto dagli strilloni di New York nel 1899. Una manifestazione che, nonostante la giovane età dei protagonisti (poco più che bambini nella realtà) fece capitolare mostri sacri dell’editoria come Joseph Pulitzer e William Randolph Hearst. I magnati dovettero infatti accettare la restituzione dei giornali invenduti da parte degli strilloni, una condizione oggi alla base dei contratti che regolano le vendite die giornali in edicola ma che 120 anni fa non era così scontata. Fino appunto alla lotta dei bambini strilloni rappresentati in Newsies come adolescenti.  Peccato che, nel materiale sul “fenomeno di Broadway”, la realtà storica della vicenda rappresentata in Newsies, forse la parte più autenticamente interessante dello show, non sia minimamente accennata, un’occasione persa.

Detto questo in Newsies c’è un’orchestra (un dato non così scontato), trenta persone in scena molto valide, delle coreografie molto interessanti tra un gusto un po’ retro e l’innovazione pura (ma poco godibili dalla galleria perché tagliate a metà dalla balaustra), e un  cast eccezionale davvero energico.  Cosa non funziona o meglio funziona meno delle attese considerando una simile produzione e le firme riportate da Newsies (Alan Menken come colonna sonora ad esempio)? Prima di tutto il teatro, o meglio, come si è già detto, la galleria che rovinava il godimento dello spettacolo, ma lo si è già detto. La lunghezza, forse eccessiva, di Newsies. Venti minuti in meno avrebbero  giovato a Newsies, tanto più che talvolta si ha l’impressione che l’intervento cantato sia un po’ forzato. Il titolo, Newsies per un italiano non vuol dire proprio nulla, uno sforzo di adattamento alla lingua di Dante forse era necessario e dovuto. Quanto alla colonna sonora, nonostante abbia vinto nel 2012 il Tony Award (l’altro premio vinto da Newsies Broadway è per le coreografie), che dire? E’ indubbiamente piacevole ma spesso ppare ripetitiva e, in definitiva, priva di quello che spesso si cerca in un musical … una canzone portante che resti impressa. Magari anche più di una ….